giovedì 14 agosto 2014

LA CRAVATTA

Era tornato per vederla e farsi vedere, capire e farle capire. Il tempo aveva sicuramente lasciato ancora qualche pallida traccia. Ne era certo. Forse restava una magra soddisfazione a cui non volle rinunciare. Dopo due giri a vuoto attorno all’isolato si era finalmente liberato un posto, proprio davanti al negozio. Era ciò che voleva. L’uomo dai capelli grigi, gli occhiali senza montatura, 64enne elegante e distinto scese dalla grossa Mercedes sperando che lei lo notasse. Sostò un paio di minuti davanti alla vetrina fingendo di osservare le cravatte. Lei era in fondo al negozio, parlava con un’anziana signora. Due volte reclinò la testa puntando la vetrina. Prima di entrare decise di percorrere i malinconici marciapiedi dei ricordi. E così fece. Pensò di alleviare il caldo togliendosi la giacca che appese all’interno della macchina, rivolto i polsini della camicia, si asciugò il sudore. Giravano poche persone: alcune coppie con eleganti borse, due rappresentanti con valigette di pelle, un extracomunitario con borsone offriva calze, fazzoletti e accendini. Tra quei palazzi del centro cittadino lavorò cinque anni, e da quaranta mancava. Piantò tutto all’improvviso per una donna e una cravatta. Ma l’indumento fu solo l’ultimo pretesto. In quarant’anni era tornato molte volte, quasi sempre la domenica coi fiori per i defunti e dolci raffinati per i lontani parenti della moglie. Un orologio elettronico lo aggiornò: ore 19, luglio 2006, gradi 35. Una pesante cappa di caldo e afa opprimeva la città. Quarant’anni, pensò osservandosi nello specchio di una cristalleria. Un’enormità che aveva cambiato tutto tranne i muri. Sparita la libreria, il fotografo, il salumaio, i due bar in competizione per il caffè migliore. Cancellati i negozi dove si veniva accolti con sorrisi spontanei e strette di mano sincere. Resisteva l’antico negozio di cravatte tra boutique di grandi firme, agenzie viaggi, call center, e bugigattoli pieni di telefonini. Il tempo e il caso gli avevano offerto l’opportunità di rivederla; forse per l’ultima volta, chissà… Quarant’anni prima, per quella meravigliosa ventenne, avrebbe fatto follie e, a fatica, gliel’aveva confessato. Lei subito si era preso gioco di lui, poi l’aveva trattato con gelida indifferenza, infine se l’era scrollato di dosso nel modo peggiore: offendendolo. Da bellissima qual’era si era posta sul piedistallo; mirava alto, voleva tutti ai suoi piedi. Lui, timido e romantico ma capace d’improvvisi colpi di testa, dopo l’offesa della cravatta piantò tutto e se andò. La distanza, il balsamo del tempo e le altre donne sanarono la ferita senza cancellare il ricordo. Girò l’angolo poco distante dal negozio. Il nome era sempre quello: Elite, a sbiadite lettere gialle stile Liberty su vetro nero malconcio. Due fidanzatini si sbaciucchiavano, giocando col telefonino, sotto un triangolo d’ombra. L’extracomunitario lo affrontò, falsamente implorante, con la sua mercanzia. “Se non si offende posso darle qualche euro” propose l’uomo dai capelli grigi allungandogli alcune monete. Quello intascò e, ringraziando, cambiò marciapiedi. Diversamente dagli anni Sessanta alla vetrina delle cravatte aveva aggiunto i guanti sistemati a ventaglio e le cinture arrotolate in uno studiato contenitore trasparente. All’interno, in fondo vicino alla cassa, lei con quarant’anni in più e l’anziana signora con in braccio un pincerino tascabile. L’uomo entrò nell’odore di stoffe pregiate, salutò educatamente come se niente fosse. Chiese il permesso di osservare la vetrina, cosa che fece dando loro le spalle. La signora col cagnolino concluse preparandosi a uscire. Lui la pregò di restare evitandogli l’imbarazzo di una scelta affrettata. “La prego” ripeté “mentre loro parlano io scelgo con calma. Grazie.” Fu accontentato. Riannodarono il filo del discorso fatto di cenetta a base di pesce, poi due ore di bridge con le solite amiche del sabato sera. “Spendiamo la metà rispetto al ristorante, evitiamo il caos di ogni sabato e il risparmiato ce lo giochiamo. A mezzanotte tanti saluti e buona domenica” propose la signora col cagnolino. L’altra, poco convinta e un po’ imbarazzata, lamentò la monotonia di quei sabati sempre uguali. Tagliò corto: “O si cambia o mi sgancio.” “Studieremo qualcosa di diverso, parola mia. Per domani restiamo sul tradizionale.” La signora col cagnolino uscì salutando ad alta voce. Rimasta sola con l’uomo la cravattaia si avvicinò alla vetrina. I loro sguardi s’incrociarono muti e indagatori. Gli attimi che seguirono furono d’imbarazzante silenzio che lei fu pronta a glissare: “E’ suo quel macchinone davanti al negozio?” “Certo, dalle ruote al tetto è tutto mio.” “Un’ausiliare le sta mettendo la multa. Scusi un attimo” sospirò correndo fuori. L’uomo vide le due donne discutere ma rimase in negozio. Si guardò attorno respirando quell’odore senza tempo di stoffe pregiate, di legni antichi e fuori moda, le foto ingiallite di personaggi famosi entrati per la cravatta importante e ricercata. L’ultima, con dedica, risaliva al Sessantotto. Alla luce naturale della strada vide che la rosa di un tempo aveva perso le spine, il profumo era artificiale, i petali appassiti. Ora si tingeva i capelli, vestiva una camiciola fantasia bianca con fiori rossi bordata all’uncinetto. Troppo giovanile. Le scarpe avevano tacchi esageratamente alti e la gonna blu scuro s’adattava meglio a una trentenne. Pensò che forse, ma fu solo un pensiero, espiava nella solitudine le sue pretese deluse. Riportò lo sguardo in negozio notando subito che tanto il pavimento, quanto il soffitto, reclamavano restauri negati. “Per questa volta niente multa” riferì soddisfatta rientrando “ha risparmiato 35 euro. L’ha salvata la targa svizzera anche se lei…” “Beh… abito e lavoro là da quarant’anni. Grazie per la multa. Acquisterò una cravatta in più.” La cravattaia scivolò dietro al banco, sfoggiò un sorrisetto commerciale proponendo: “Vuole vedere sia le cravatte che le cinture? I guanti sono fuori stagione anche se qualche paia le vendo nonostante il caldo.” “E nonostante il caldo, chi le compra?” “I giapponesi. Qualche russo dei nuovi ricchi, qualche americano o inglese, non so mai distinguerli” rispose facendo spazio sul banco. Aprì un armadio con un lungo e sottile specchio verticale, tolse tre aste di legno che posò sul banco precisando: “Sono trenta, l’ultima novità, appena arrivate. Prego… provi pure quella che preferisce.” Lui ne sollevò due sul palmo della mano sinistra, con la destra sfiorò la stoffa poi lesse l’etichetta. La donna notò che vestiva una raffinata camicia tinta unita su cui spiccava una cravatta con campiture variopinte, sfumate tipo arte moderna. I polsini rivoltati lasciavano intravedere un Rolex d’oro massiccio bracciale compreso. Anche la fede, più grande del solito, luccicava sull’anulare sinistro. Le mani erano bianchissime, lisce, perfettamente curate. Vistolo titubante propose: “Se non è convinto non si preoccupi. Sarà per un’altra volta.” Lui sorrise appena e, scuotendo la testa, aggiunse: “Vede… la cravatta è come il giornale, il libro sul comodino, l’automobile. O il bar del mattino che offre il caffè migliore. Piccole cose che devono piacere subito, diventano parte di noi stessi. M’intende?” “Certo, intendo benissimo e concordo pienamente.” L’uomo ne mise da parte quattro precisando: “Queste sono d’assalto, piacciono subito. Mi ricordano i giovani d’oggi.” “Cioè?” disse lei reclinando la testa con un risolino malizioso. “Invecchiano presto, passano di moda.” “Come quella che indossa?” “Proprio come questa. E’ bella, originale, ma si nota subito che manca la finezza italiana.” Lei chiese se poteva quando già la sua manina la stava tastando. “Pare americana” osò un attimo prima di girarla per sbirciare l’etichetta. “Complimenti, è il regalo di un collega di New York. Un po’ violenta, come loro.” L’uomo ritornò a scrutare, poco convinto, le trenta sul bancone. Aggiunse: “L’Italia, tra le moltissime cose, ha anche le cravatte più belle del mondo. Una volta questo negozio le aveva.” Lei annuì col capo, si scusò infilandosi nel retrobottega. Si sentì una chiave girare, un’anta scricchiolante aprirsi, ricomparve con una vecchia scatola rettangolare alta circa dieci centimetri. L’aprì come si apre lo scrigno di un piccolo tesoro precisando: “Anni Sessanta, famoso laboratorio artigianale cancellato dalla concorrenza. Sono le ultime cinque che conservo da troppo tempo.” L’uomo s’illuminò dicendo: “Ecco quello che cercavo: la bellezza senza tempo, quella che non invecchia mai Complimenti.” Prese quella di sinistra, s’avvicinò all’uscita per osservarla alla luce naturale. Non era sicuro che fosse quella di quarant’anni prima ma le assomigliava molto. La mise al proprio posto sentendosi osservato da occhi muti e indagatori. Lei la sollevò, fece il nodo e gliela porse: “Prego, la provi.” “Grazie… non serve. Sono talmente belle che parlano senza nodo. Le prendo tutte e cinque” confermò convinto. La cravattaia parve rattristarsi. Non rispose e quel silenzio fece dire all’uomo: “Qualcosa non va?” “Va tutto bene. Le vendo volentieri la altre quattro; questa è un ricordo e i ricordi non hanno prezzo e non sono in vendita. Mi scusi.” “Certo, capisco.” Ritornato alla vetrina scelse quello che gli parve il più bel paio di guanti da donna al centro del ventaglio. Per quelli chiese una confezione natalizia separata dalle cravatte. Lei annuì con un sorrisetto malizioso aggiungendo soavemente: “D’accordo, anche se Natale dista parecchio.” “E’ vero” rispose lui “regalo per me regalo per la moglie. Lei fa lo stesso; sa è svizzera. Anche per questo siamo coppia felice.” Lei gli diede di spalle. Cercò il nastro da confezione che stava sul tavolo. Ritornando a guardare la merce si fece coraggio e chiese: “Le interessa qualcosa per i figli?” “Grazie… con loro i regali vengono programmati prima e definiti nei minimi dettagli. Diciamo un po’ alla tedesca. Niente spazio all’improvvisazione.” S’intromise il silenzio, l’imbarazzo di continuare ignorando dove si sarebbe andati a parare. La cravattaia cerco di accelerare le confezioni. Piegò la carta con mani esili, pallide, le unghie di un rosso arrogante. Tra quelle dita minute vide solo anellini decorativi e provvisori. Lui andò alla vetrina, tornò indietro fermandosi davanti alle foto ingiallite dei personaggi famosi e lontani. Nel vetro la vide riflessa; lo osservava dalla testa ai piedi: le scarpe di lusso, i pantaloni firmati, la cintura raffinata. “Queste foto sono un bel ricordo e un eccellente biglietto da visita. Complimenti.” “E’ acqua passata. Ecco fatto” disse porgendogli due borse di cartoncino stampate con due funicelle bianchissime a mò di maniglia. “Grazie, quanto devo?” “Sono 320 per le quattro cravatte, più 80 per i guanti. Esattamente 400 euro. Le va bene?” “Mi va benissimo. Anche se, le confesso, la quinta mi è rimasta come si dice nel gozzo. Pazienza.” Lei non rispose ma guardò il portafogli aperto con una decina di carte di credito e una mazzetta di euro in tagli da cinquecento. Tolse una banconota e porgendogliela aggiunse che lo scontrino non gli serviva. “Davvero? Dovrei farlo, sa?” “Quarant’anni fa gli scontrini non esistevano. Le cravatte sono degli anni Sessanta, giusto? Lasci perdere.” Si salutarono sulla porta con una finta stretta di mano sulla punta delle dita, la voglia di dire tante cose, l’imbarazzo di iniziare. Due sorriseti appena sfumati, ambigui e malinconici chiusero l’incontro. L’uomo dai capelli grigi, gli occhiali senza montatura, 64enne elegante e distinto mise le borse nel cofano, salì in macchina e mise in moto. I negozi stavano chiudendo, l’ora di cena accelerava i passi. La cravattaia abbassò a fatica la saracinesca. Sul bancone era rimasta, solitaria, la cravatta di quarant’anni prima. Pensò di regalargliela. La prese, corse fuori agitandola nella mano sinistra. La grossa Mercedes era ferma in mezzo alla strada, la freccia a sinistra, il semaforo rosso. Pensò di correre, forse lui l’avrebbe vista nello specchietto retrovisore, forse no. Corse portandosi al centro della strada quando l’auto, un attimo dopo, girò a sinistra scomparendo. Rientrò in negozio, chiuse gli armadi, provò ad inserire il segnale d’allarme ma si ricordò che era guasto. Spense le luci e uscì diretta verso casa. Sul banco rimase la cravatta di quarant’anni prima.

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