martedì 17 aprile 2012


IL PONTE SUL PO DELLA GEROLA

Dopo aver letto due lettere sul Ponte della Gerola provo a dire la mia. Non uso il condizionale, elenco fatti. Per quasi 30 anni ho avuto l’azienda a Sannazzaro dé Burgondi, ricordo le chiusure, di cui una semestrale, con tempi lunghi e giri costosissimi per gli automezzi. Ricordo gli esperimenti: via il porfido vai con l’asfalto, via l’asfalto vai con le griglie metalliche, via le griglie e torniamo al porfido. Una targa di marmo bianca ricorda la riapertura e l’inaugurazione. Manca la data che metto io: sabato 20 maggio 2000. Il lunedì 22 maggio (due giorni dopo) verso la fine del ponte, a destra, direzione Gerola, era in parte transennato per restauri. Sfido chiunque a smentirmi. L’episodio mi è chiaro come il sole perché coincise con la morte di mio padre avvenuta a Tortona. Domanda: chi ha fatto i lavori come li ha fatti? Chi doveva controllare come ha controllato? Intanto, sempre a proposito di ponti, apprendiamo che quello sullo Stretto di Messina non si farà. Evviva! La Sicilia è da sempre un’isola e tale deve restare. Però, tra una montagna di belle parole e progetti inutili, quel ponte che non si farà ha bruciato 250 milioni di euro. Il ponte sul Po alla Gerola ha quasi cento anni ed è al centro del quadrilatero più laborioso d’Italia e d’Europa: Milano, Genova, Torino, Piacenza. Sta vicino ad una raffineria enorme e in espansione, sopporta quotidianamente centinaia e centinaia di autocarri. La soluzione è un ponte nuovo, e se non fu fatto quando c’erano i soldi figuriamoci ora. Questa zona ha mandato a Roma onorevoli e ministri, ma chi si è preso a cuore il problema? Alla fine la morale resta, monotamente, sempre la stessa: il nostro è un Paese dove solo il provvisorio diventa definitivo.



                                                                                             Remo Torti
 
Pubblicato su un giornale locale.                                                                                             

venerdì 13 aprile 2012


GLI ALPINI DI DORNO

Viviamo tempi grami come ricordano i giornali del mattino e la televisione serale. Il malcontento dilaga assieme alle proteste e ai focolai della contestazione. Qualcuno ha detto che anche sul letame crescono i fiori, ed è vero. Uno dei fiori più belli, vanto del nostro Paese, è il volontariato. Detto in soldoni il volontario è colui che dà senza nulla chiedere: il proprio tempo, le proprie capacità, sovente anche altro tipo la propria automobile, carburante compreso. Vediamone un esempio molto vicino.
   Nel centro di Dorno c’è una chiesa dedicata a San Rocco, per molti anni chiusa quindi inagibile. Conserva tre grandi affreschi di Biagio Canevari che si sfarinano nell’indifferenza generale. Ma questo è un altro problema. Nel 2005 c’erano topi e uccelli morti, escrementi, panche e sedie malamente ammucchiate, nessun pavimento, e quant’altro. Uno squallore da stringere il cuore. Chi l’ha vista può confermare. Ma Dorno è paese di grandi potenzialità espresse dalle oltre venti Associazioni. Credo che la più sgobbona e silenziosa sia l’Associazione Alpini che esiste, e resiste, da oltre trent’anni. Si sono fatti una sede con pista da ballo e cucina degna di un ristorante, un monumento ai loro caduti, un piccolo museo. L’utile di fine anno parte in beneficenza. Non contenti hanno messo mano alla chiesa di San Rocco recuperando il recuperabile, rifacendo il pavimento, restaurando il portale e le porte. E i lavori continuano risanando muri e mettendo mano dove le loro capacità possono. Questo lavoro, silenzioso e faticoso, dura da anni; e non è ancora finito. Qualcuno ha detto che gli alpini sono l’unico Corpo che resta unito anche dopo la naia. È vero, perché è l’unico Corpo che sa cantare in coro. Sono anche l’unico Corpo con tanti testi a metà strada tra la canzone e la preghiera. E quando attaccano un brivido corre lungo la schiena. “Dio del cielo, Signore delle cime, un nostro amico hai chiesto alla montagna. Dio del cielo se fossi una rondinella…” Il bello è che in tutti i loro canti non c’è mai rancore per nessuno né, tanto meno, odio per il nemico, ma amore per la vita e le donne, per la montagna e il Padreterno, grappa compresa. E non è poco. Un giorno qualcuno gli disse che bisognava conquistare il monte Ortigara; militarmente una follia. Loro ce la fecero lasciando sul campo ottomila morti. Ma torniamo a Dorno. Tutte le mattine un alpino apre la chiesa di San Rocco, tutte le sere un alpino la chiude. I risultati sono lì da vedere. Conclusione: San Rocco è felice, il paese è contento, gli alpini soddisfatti. Auguriamoci che chi di dovere, a lavori finiti, sappia ringraziarli come meritano.
                                                                                                  Remo Torti



Pubblicato sui giornali locali

Terminale Idroscalo

Lo vedono migliaia di persone ogni giorno, alcuni con dispiacere, quasi tutti con indifferenza. È l’Idroscalo di Pavia, un imponente edificio che si decompone lentamente ai bordi del Lungo Ticino Sforza. È una macchia nera su un foglio bianco, un dito puntato contro noi come la canna di una pistola. Alziamo le mani, facciamo silenzio, qualcuno ci penserà. Ma non ci penserà nessuno. Per questo spicchio di storia pavese qualche idea di tanto in tanto è spuntata: facciamone un museo, trasformiamolo in un ristorante. Poi le belle parole si spengono, i buoni propositi muoiono e l’agonia continua. Negli anni Sessanta fu strappata via la ferrovia Voghera Varzi; un gioiellino che nelle mani giuste sarebbe diventata un’ottima attrazione turistica. Negli anni Ottanta crollò la Torre Civica e, ammettiamolo, non siamo manco capaci di conservare dignitosamente lo squallido moncone che ne rimane. Nel 1902 a Venezia crollò il Campanile di San Marco. I veneziani recuperarono il materiale riutilizzabile, fecero proprio il grido del sindaco “dov’era e com’era” rifacendolo bello come prima. Voci bene informate sostengono l’imminente fine dell’Aeroporto di Rivanazzano. Un pezzo alla volta perdiamo tutta l’argenteria di famiglia. Ma torniamo all’Idroscalo.
   Fu inaugurato il primo aprile 1926 da Mussolini, e non fu un pesce d’aprile ma una pagina di storia. Ecco perché: quell’edificio (questo edificio) fu lo scalo della prima linea aerea regolare italiana per il trasporto passeggeri. Questo l’itinerario: Torino, Pavia, Venezia, Trieste, chilometri 575, costo del biglietto 375 lire. L’aereo scendeva, faceva rifornimento, i viaggiatori salivano al ristorante. Milano istituì un terminal collegato con l’Idroscalo di Pavia con autocorriere che arrivavano e partivano in coincidenza coi voli. Si dice che per trasformare una massa di persone in un popolo servano tre cose: la lingua, la religione, la storia. Noi abbiamo la lingua di Dante, la religione del perdono e della risurrezione, la storia che ci siamo meritata. Eppure questa nostra pagina di Storia che sta piantata là da quasi un secolo la lasciamo decomporre nell’indifferenza generale. Comunque gli idrovolanti (molto migliori di quelli del 1926) continuano a volare sui laghi, fiumi e mari, in Italia e altrove. Proposta: perche non si ripristina la vecchia linea Torino Trieste con criteri moderni per un nuovo turismo? Il mio pensiero corre a Venezia. E bravi i veneti che rifecero il Campanile di San Marco al grido “dov’era e com’era”. E noi? Guardando quell’edificio fatiscente bisbigliamo “com’è e dov’è”.
                                                                                                (Remo Torti)
                                                                                                                     Dorno





Pubblicato sui giornali locali

venerdì 6 aprile 2012

AUGURI
   Nell’universo cristiano ci sono due feste particolarmente sentite: Pasqua in cui il Signore torna in cielo, e Natale in cui scende sulla Terra. Quest’ultima s’avvicina, con le sue luci, gli auguri, le strette di mano e, forse, ci sentiamo più buoni; ma non è così e lo sappiamo, senza forse. Natale festa dello spirito l’abbiamo trasformato in gioia del corpo: mangiate, bevute, viaggi. Così va il mondo.
   Auguri ai giovani, a cui saranno affidati i destini del mondo. Per ora affidiamogli un lavoro perché sta scritto che allontana tre grandi mali: la noia, il vizio, il bisogno. Sappiano che la vita li metterà davanti a molte strade e per non sbagliare si dovrà scegliere sempre la più difficile. Il loro universo è confuso, gli abbagli molti, le tentazioni orbitali parecchie. Inoltrarsi in questi falsi paradisi significa sfiorare il baratro e, qualche volta, finirci dentro.
   Auguri ai meno giovani, che hanno molti ricordi, pochi programmi, tanto tempo dietro le spalle e un indefinito punto interrogativo davanti. Chi ci è arrivato si consideri fortunato. Bilanci e rimpianti pesano. La lente del tempo diventa microscopio, si vedono meglio gli sbagli commessi, il bene mancato, si vorrebbe rimediare ma è impossibile. Siamo fatti di passato, ma il passato non torna. Si dice che l’uomo non ha porto, il tempo non ha riva; lui scorre e noi passiamo.
   Auguri agli ammalati, che hanno perso il bene più prezioso a cui auguriamo di ritrovarlo. Si dice che il dolore rende saggi e forse è vero. Qualcuno aggiunge che chi più ha sofferto più sa amare perché il dolore è padre, e l’amore è madre della saggezza. Di certo la salute è l’unico bene che si apprezza quando manca.
   Auguri ai portatori di handicap che, senza colpe, sopportano un disagio lungo una vita. Li sostiene la fede; quella che ricorda che gli Ultimi saranno i primi.
   Auguri a tutti quei Nessuno che si oppongono al male: all’impotenza dei deboli, alle vittime delle ingiustizie, ai tiranni e agli oltraggi, a fame e malattie, al monopolio delle coscienze, al paradosso delle guerre liberatrici. Costoro amano il giardino e la musica, accarezzano gli animali e sopportano i torti ricevuti. In parecchi sostengono che costoro salveranno il mondo.
   Auguri a coloro che coltivano sentimenti inutili e dannosi quali l’invidia, la gelosia, la superbia. Forse hanno dimenticato che siamo atomi di guano, passiamo veloci come una meteora, non lasciamo tracce.
   Auguri a tutti i dornesi. Presto volteremo pagina, il  nuovo calendario sostituirà il vecchio, un’altra pagina del libro della vita è passata dietro le spalle. Insieme abbiamo vissuto un altro anno, camminato senza disgrazie, qualcuno se n’è andato con un solo biglietto, altri ne hanno preso il posto. Noi che vediamo il sole ogni giorno possiamo ritenerci felici, perché la felicità è vivere, è ricominciare sempre, a ogni istante.  Buon Natale.
                                                                                                   (Remo Torti)      

Articolo pubblicato su giornale locale