venerdì 17 febbraio 2012

Bruno Tacconi chi era costui?


BRUNO TACCONI CHIE ERA COSTUI?

   E’ bello leggere lodi ed elogi sui personaggi nostrani. Ne parlano gli intellettuali locali, trattano i grandi nomi locali, pubblicano sui giornali locali. Però spiace vederne ignorati alcuni più meritevoli di altri. Vediamone uno. Si dice che uno scrittore muore due volte; all’anagrafe e in libreria. Bruno Tacconi, spiace dirlo, è morto tre volte: anche nel cuore dei vogheresi. Bruno Tacconi nacque, visse e morì 72enne a Voghera domenica 23 marzo 1986. Scrisse nove romanzi tradotti in Europa e Sudamerica, un volume di saggi e articoli, racconti per La Provincia Pavese. Gli ultimi due uscirono postumi e tutti furono stampati da Mondadori. Il suo sesto volume, Masada tirò 170mila copie, era il 1980 e fu un record. Gli intellettuali  locali, di allora, gli dedicarono poco spazio. Ebbe troppo successo e, forse,  non gli fu perdonato. Sta scritto che l’invidia è un sentimento che divora chi lo alimenta. L’invidia è anche uno stimolo a fare meglio. Egli non fu solo un bravo scrittore e ottimo dentista, bensì un raro esempio di capacità e tenacia. La sua vita non fu una passeggiata ma una scalata continua alle affermazioni e al successo. Sempre in punta di piedi. Ma partiamo dall’inizio. Figlio di un ferroviere fece il garzone in drogheria, in un negozio di strumenti musicali, operaio tornitore, disegnatore, quindi apprendista in un laboratorio di odontotecnica. Studiò in proprio, conseguì la maturità classica, la laurea in medicina e divenne dentista. Dalla tuta al camice lavorando e studiando.
   L’ottimismo c’induce a non considerare i giovani dei mollaccioni griffati con piercing e tatuaggi, ma soggetti a cui proporre modelli come fu il Nostro. Se il mondo progredisce significa che i giovani sanno essere migliori dei vecchi. Anche se s’incantano davanti agli showman televisivi tanto invidiati che alla fine restano sogni infranti. Ma i modelli veri, validi, vanno tenuti in vita, proposti, spiegati. Mai visto una via, una piazza, un monumento, una biblioteca, un premio letterario dedicati al nome di Bruno Tacconi. Ecco come i grandi muoiono: nella distrazione dei politici, nel silenzio degli intellettuali, nell’indifferenza collettiva. Purtroppo i percorsi del cuore, della narrativa e della riconoscenza non coincidono con quelli stradali né culturali. I defunti, si sa, non dicono grazie.
   Bruno Tacconi amava la musica classica, si dedicò alla fotografia, imparò a suonare il violino. Dove trovasse il tempo è difficile immaginarlo. Amava le cose belle perché era bello dentro. Amò molto e scrisse parecchio sull’Egitto, un Paese la cui storia nacque dal Nilo, la geografia dal deserto, la quotidianità dai geroglifici. Seppe fondere come pochi la precisione storica con una grande fantasia, la scrittura ispirata fatta di sintesi e chiarezza. Alcuni suoi libri li presentò proprio al Grand Hotel di Salice, un bell’edificio chiuso da una montagna di belle parole e ridotto a cenotafio dai buoni propositi. Chi scrive fu sempre presente e notò con quale interesse ogni suo libro era atteso e seguito, acquistato e firmato.
   Descrisse donne allegre e profumate come la primavera, militari malinconici come i brutti ricordi, i suoi faraoni vestivano abiti tanto eleganti da ferire lo sguardo. Nei suoi libri non si trovano mai personaggi inutili come una folata di vento ma due grandi pregi: divertimento e istruzione. Che sono il massimo.
   Nella ricerca fu preciso e pignolo come uno scienziato; andava sul posto, fotografava, visitava musei, biblioteche e archivi, chiedeva ai sapienti.
   Una professoressa della Cattolica gli contestò la capacità della giara egiziana ma dopo attente ricerche Tacconi ebbe ragione. Era un uomo semplice ma schivo, sfoggiava un bel sorriso panoramico, evitava la mondanità, rispondeva a tutte le domande, lavorò fino alla fine.
   Spese tutto il suo tempo a fare il dentista, lo scrittore, il ricercatore. Certi libri impegnano più nella ricerca che nella stesura. Visse tre vite ed è morto tre volte: all’anagrafe, in libreria, nella memoria dei vogheresi. Ultimo esempio: nel sito di Voghera (Wikipedia) la sesta pagina ha un titolo: Personalità a Voghera. Abbraccia oltre mille anni, inizia con San Bovo (22 maggio 986) elenca 21 nomi, termina con Carlo Alberto Sacchi.  Il nome di Bruno Tacconi, come quello di Giacomo Gorrini, non compaiono. Un artista senza gloria, una città senza memoria. Complimenti.

                                                                                                      Remo Torti,


BUON NATALE


   Sembra ieri quando salutammo il 2007 e siamo alla fine del 2008. Un anno è passato in un soffio, il prossimo sarà breve come un sospiro. Il tempo vola e siamo agli auguri.
   Auguri agli studenti affinché il diploma, o la laurea, non diventino sogni infranti. Si dice: pensa con la tua testa, conta sulle tue forze, coltiva e migliora il tuo carattere.
   Auguri ai giovani apprendisti. Hanno scelto un lavoro e hanno fatto bene. Sappiano che chi ascolta dimentica, chi vede ricorda, ma solo chi fa impara.
   Auguri agli agricoltori i cui prodotti dipendono anche dal cielo, i prezzi dal mercato, il risultato finale dalle loro fatiche. Sta scritto che Dio ha fatto la campagna, e l’uomo ha fatto la città e i ripensamenti sono cominciati. Gli agricoltori sanno benissimo che tutto trae origine dalla terra e tutto alla terra ritorna.
   Auguri ai non più giovani. Arrivare alla conta di molti anni sia considerata una fortuna, la vita vissuta un dono goduto, quel che resta un frutto da cogliere.
   Auguri ai volontari che prestano gratis parte del loro tempo, qualche volta spendono di tasca propria, ogni tanto raccolgono titoli non sempre belli.
   Auguri agli ammalati, ai portatori di handicap, a tutti coloro che tribolano in silenzio. Soffrono senza colpe la perdita del bene più prezioso: la salute, e la burocrazia non li aiuta. Il tempo e la sofferenza li rendono buoni e saggi. Trovano sollievo nella fede perché sanno che gli ultimi saranno i primi.
   Auguri a tutti coloro che ci guidano ai vari livelli. Hanno grosse responsabilità, e parecchi privilegi. Rammentino che la crisi esiste; è crollata la vendita del filetto, avanzano le polpette. Confidiamo che non mirino solo all’amore per il potere, ma al potere dell’amore.
   Auguri a tutte le donne, erroneamente definite sesso debole. Da Eva fino a oggi fingendo di obbedire comandano. E l’uomo, dai tempi di Adamo, fingendo di comandare obbedisce.
   Auguri a tutti i dornesi. Tra poco il nuovo calendario sostituirà il vecchio; un anno in più dietro le spalle, uno in meno davanti al naso. Così è la vita. Come disse un poeta dimenticato il nostro destino è vivere balenando in burrasca. A mezzanotte suoneranno le campane e si alzerà il sipario sulla più bella storia di tutti i tempi. Buon Natale.
                                                                             
                                                                                                  (Remo Torti)

LA COMMESSA ATTEMPATA










   Il proprietario del negozio guardò il cliente con l’aria del ruffiano, poi la commessa, quindi ancora il cliente facendogli l’occhiolino.
   “Ti piace? È una cotoletta stagionata ma tenera come il burro. È fattibile” bisbigliò viscido.
   “È un bel tipino” rispose il cliente “ma cosa significa fattibile?” Il proprietario lo prese sottobraccio portandolo nell’altro locale; quello dei saldi.
   “Senti… ormai ti conosco e capisco certi sguardi. Quando la fissi la spogli con gli occhi.” Il cliente, abituato al “lei” non gradì quel “tu” che annullava l’educazione. Decise di contraccambiarlo.
   “Questo lo dici tu che mi devi spiegare cosa significa fattibile.”
   “Ascolta… è separata, calda come una leonessa in calore, ha bisogno di soldi come l’aria che respira, tiene una figlia all’università e tutte le spese per tirare avanti. Ecco perché viene a lavorare la domenica.”
   “Sei così bene informato perché te la sei fatta. Sei il proprietario, le paghi lo stipendio, ci aggiungi qualche paia di scarpe e il gioco è fatto. Dico bene?” Il proprietario lanciò un’altra occhiata nel primo locale e riprese:
   “Ci ho provato col portafoglio sul tavolo ma niente da fare”.
   “Stento a crederti, visto che tutte le volte che ci vediamo ti vanti delle tue conquiste” rispose il cliente puntandogli l’indice sul petto.
   “Quella coi pantaloni è mia moglie, lei, la cotoletta, è la commessa e sono amiche. S’è rifiutata per timore di perdere posto e stipendio. Hai capito?” Aveva capito. Che, almeno a parole, fosse un cacciatore di orgasmi extraconiugali lo sapeva, nonostante il fisico da fantino, l’abbronzatura artificiale, lo sguardo avido di prede. Probabilmente sopperiva a tutto questo a suon di bigliettoni.
   Il negozio di scarpe stava alla periferia della cittadina termale circondata da verdi e dolci colline disegnate a vigneti. Erano i giorni di Ferragosto, i saldi resistevano da luglio, la domenica tutti aperti. Ritornarono nel locale grande con l’ingresso al centro dove le due donne sopportavano, col sorriso d’occasione, una famiglia dai gusti difficili, con un ragazzotto immusonito e dalle pretese impossibili. Il cliente prese due paia di scarpe, si accomodò su una poltroncina fingendo di provarle. Puntò prima la proprietaria, poi la commessa. La prima vestiva pantaloni a vita bassa incollati alla pelle, una camicetta cortissima che scopriva l’ombelico, un davanzale abbondante troppo in mostra, l’aria libidinosa da peccatrice senza problemi.
   La commessa era un bel tipino faccia smorta, gli occhi due biglie di onice, la capigliatura talmente ampia e vaporosa capace di contenere un paio di sandali. L’espressione, nonostante i sorrisetti riservati ai clienti, era triste, tipica di chi si alza al mattino con troppi problemi senza sapere come risolverli. Si chinò davanti al ragazzotto col decimo paio di scarpe esponendo un lato B di invitanti rotondità.
   Il proprietario, sempre più viscido, fece ancora l’occhiolino al cliente, e con la mano il gesto di seguirlo. Si isolarono nel localino di prima.
   “Scusami ma non ricordo il tuo nome” gli chiese sottovoce.
   “Non puoi ricordarlo, non te l’ho mai detto. Comunque mi chiamo Luca.”
   “Grazie Luca, e che lavoro fai?”
   “Sono enologo in trasferta per motivi di lavoro. Ecco perché vengo sempre a Ferragosto, Natale e Pasqua.”
   “Quindi sei qui senza moglie.”
   “Esatto.”
   “Bene. Per la cotoletta lascia fare a me.” Il cliente allargò le braccia deciso a stare al gioco. Ritornarono dall’altra parte, aspettarono che il ragazzotto incontentabile fosse accontentato poi il proprietario prese l’iniziativa.
   “Scusami Sonia, ti presento Luca, vedi di accontentarlo tu; io non ci riesco” disse falso come Giuda.
   “Io? Posso provarci” solfeggiò Sonia mentre si stringevano le mani. Si appartarono nel localino dei saldi. Sonia, sorridendo come un’oca giuliva, chiese a Luca:
   “Io dovrei sapere cosa desidera esattamente”.
   “Un paio di mocassini per finire l’estate, e due paia per l’autunno. Approfitto dei saldi” rispose Luca fissandola per poi guardare gli scaffali coi modelli allineati come i cavalli sulla linea di partenza.
   In meno di mezz’ora Luca trovò le tre paia di scarpe di suo gusto. Parlarono di morbidezza, stringhe e mocassini, pelle e camoscio. C’era, negli sguardi di entrambi, una punta di curiosità ma niente di più. Tutto il dialogo rimase nella dimensione e cortesia commerciale. Quando il proprietario vide le tre scatole vicino alla cassa esclamò:
   “Complimenti Luca, tre ottimi acquisti. L’ho sempre detto: le donne superano gli uomini tanto in senso verticale quanto in orizzontale”. Le due donne sorrisero al doppio senso della battuta.
   “Merito della signora Sonia; una commessa che vale oro” esagerò di proposito Luca. Il proprietario raffreddò gli entusiasmi:
   “Dopo questa battuta mi chiederà l’aumento di stipendio. Però Luca può rimediare invitando Sonia a cena”.
   “Io a cena? No grazie, non è proprio il caso” rispose lei con un sorrisetto malizioso che lasciava qualche spiraglio.
   “Luca, porteresti Sonia a cena stasera alle otto?” insistètte l’altro.
   “Volentieri, però ha appena rifiutato.” Mentre Luca mostrava la carta di credito l’altro alzò il telefono, chiamò il ristorante e prenotò un tavolo per due. Si fece bello alzando la voce:
   “Prenotato un tavolo per due, stasera Ristorante lo Scoglio. Luca aspetterà Sonia davanti al negozio alle ore venti precise. Chiaro?” I due interessati tacquero limitandosi ad una occhiata di circostanza.
   Alle venti precise Luca si piazzò davanti al negozio con la sua
Audi, controllò l’ora, spense la musica. Aprì il finestrino, si accese una sigaretta, osservò il viavai sul marciapiede fatto di glutei enormi, pance esagerate, rari corpi giovanili belli e sottili. Ebbe l’impressione che tutti andassero verso il nulla. Che era una cittadina termale per persone mature e anziane lo aveva sempre saputo.
   Era convinto che lei sarebbe venuta per tre motivi: primo, quel ruffiano del proprietario voleva accontentare cliente e commessa. Secondo, il tavolo era prenotato. Terzo, lei rimediava una cena in un bel ristorante, per il dopocena si sarebbe visto alla fine.
   Infatti Sonia arrivò ma con dieci minuti di ritardo, lui le aprì la portiera senza scendere, lei provò a scusarsi:
   “Io sono in ritardo e mi scuso. I saldi e i clienti mi hanno mollato mezz’ora dopo”. Si mossero verso il ristorante che lei conosceva e gli indicava la strada. Il tavolo per due stava in un angolo, il posto era elegante e raffinato, rivestito con parecchio legno, più silenzioso di una chiesa deserta, le luci troppo basse, l’aria condizionata al minimo. Alle pareti quattro quadri orribili, sui tavoli le candele colorate nel bicchiere e vasettini di fiorellini agonizzanti. Li prese in consegna un cameriere attempato e gentile che non aveva ancora ghermito la pensione o lavorava in nero, l’aria falsamente allegra tipica di chi digerisce male.
   Luca lasciò a lei la scelta, tenne per sé la carta dei vini, studiò la donna intenta a scorrere il menu. Non aveva la fede ma si vedeva l’impronta, orecchini e collanina facevano pendant, modello vecchio di venti o più anni, probabile regalo di fidanzamento o giù di lì. La camicia era allegramente a fiori aperta più del necessario, la gonna un tubino aderente con una lunga fila di bottoni sul davanti chiusi solo fino alle ginocchia. Il bel faccino era smorto, la chioma impressionante, l’espressione restava un enigma tutto da sciogliere.
   “Io ho scelto pesce, e lei?” chiese Sonia porgendogli l’elegante menu. Lo infastidì un poco il fatto che cominciava sempre col pronome personale: “io”, “io”, “io” quasi fosse l’unica al centro dell’universo.
   “Il pesce lo scelgo al mare, in collina opto per la carne” rispose Luca scorrendo la lista mentre lei lo studiava  senza darlo a vedere: fede all’anulare sinistro, abito scuro di buon taglio, cravatta Missoni su camicia azzurra sbottonata sotto la gola, orologio d’oro con cinturino in pelle, aria da manager capace di staccare assegni senza problemi.
   “Il vino lo sceglie l’enologo” informò lei il cameriere in attesa leggermente inclinato. Cominciarono gustando gli stuzzichini offerti dalla casa.


BRIVIDI A MEZZANOTTE










   La scala che saliva al primo piano era buia, ripida e senza corrimano. In alto, alla fine dei gradini, una sottile lama di luce filtrava sotto la porta. Appena dentro alla galleria d’arte la giornalista individuò il direttore, si presentò informandolo del buio scala.
   “È stato un problema tecnico, improvviso e imprevisto. L’elettricista sta arrivando. Grazie… piacere” disse ossequioso allungando la mano e dimostrando, con quel “piacere”, di conoscere il Galateo come la Teoria della relatività. Poi, con un inchino, aggiunse “il suo articolo darà lustro alla nostra mostra agevolando l’afflusso”.
   La giornalista, abituata a studiare il prossimo in profondità, lo trovò viscido come un’anguilla. Anche perché guardava tutti di sbieco. Fu accompagnata al tavolo del rinfresco dove il direttore sfoderò tutta la sua autorità intimando al cameriere:
   “Questa signora, che ci onora con la sua presenza, è una famosa giornalista” anche se non era vero “trattamela bene. È un ordine” e scusandosi scivolò via.
   Il cameriere stava giocando con un coltello di acciaio buono, sì e no, per tagliare la maionese. Lo faceva girare attorno alle dita con la maestria di un prestigiatore. La giornalista ammirò l’agilità della mano poi fissò il cameriere che trovò più brutto delle statue dell’Isola di Pasqua. Quello sorrise compiaciuto mostrando una dentiera modello Dracula il vampiro. La giornalista assaggiò una tartina di finto caviale, una di vero salmone affumicato che bagnò con mezzo bicchiere di spumante appena decente. Ringraziò Dracula e cominciò a fissare le immagini alle pareti.
   La mostra aveva un titolo: I Grandi Maestri e le Giovani Promesse. Tutto e solo fotografia. I grandi maestri stavano nella prima sala, le promesse nella seconda. Dieci erano i grandi maestri; alcuni estinti, gli altri assenti, uno solo presente che dall’abbigliamento e parlantina pareva un vecchio trombone. I giovani c’erano quasi tutti, con le amiche, gli amici, e i telefonini appiccicati alle orecchie.
   La giornalista osservò le immagini, prese appunti e un catalogo che il direttore le vietò, categoricamente, di non pagare. Scattò una ventina di foto con una piccola digitale sapendo di non essere un grande maestro né una giovane promessa.
   Alle ore ventuno era stanca; si sedette sull’unica sedia libera e cominciò a sfogliare il catalogo. Preferì le immagini dei grandi maestri, tutte di grande formato, vicino al metro quadrato, e tutte rigorosamente in bianco e nero. Quelle dei giovani, assai più piccole, erano esplosioni di colore, elaborate al computer, con molto tecinicismo e poca poesia. A colpirla fu un ingrandimento in bianco e nero: grande casa buia con due finestre illuminate, di fianco un grande albero sbattuto dal vento, la sagoma nera di una figura che era meglio non incontrare. Ritornò davanti all’immagine analizzandola centimetro per centimetro.
   “Le piace?” chiese da dietro il vecchio trombone spaventandola.
   “Mi da i brividi, e stavo cercando di capire il perché” rispose con una mano sul cuore.
   “L’autore sono io, e da molti anni fotografo le case della morte” precisò l’attempato fotografo cha amava la bella vita.
   “E perché non fotografa quelle della vita?”
   “Perché quelle non interessano a nessuno. La normalità non genera brividi; queste foto sì quindi obiettivo raggiunto” precisò. Le chiese il catalogo e cercò immagini importanti per meglio elogiare se stesso.
   “Guardi: Max Erns, Paul Delvaux, René Magritte. Sono i pittori surrealisti a cui mi ispiro. Nelle mie foto cerco le stesse atmosfere, punto, come ha detto lei, ai brividi.”
   “E vedo che ci riesce. Complimenti” lo ripagò la donna. Poi l’uomo, non ancora soddisfatto, scese nei dettagli:
   “Episodio vero. Una signora rincasa a mezzanotte, vede la propria casa con due finestre illuminate, non capisce, cerca la chiave, dal buio emerge un’ombra, nella mano destra una lama manda sinistri bagliori”. Il fotografo si ferma, con l’indice fissa i punti sull’immagine.
   “A questo punto concluda la storia” pretende la giornalista.
   “La donna finisce come una mortadella sotto l’affettatrice, il delinquente fugge e non è mai stato trovato. Ah… suonava mezzanotte.”
   “Mio Dio che schifo” miagola la donna quasi vomitando le parole.
   “Sarà pure uno schifo ma questa è la vita, e questa foto la racconta.”
   “Perché proprio mezzanotte? A me pare un’ora scontata, un tantino banale, non le pare?”
   “Nient’affatto. Mezzanotte segna una fine e un inizio. Provi a pensarci.” Lei, a pensarci, proprio non vuole. Qualcuno che lo chiama maestro si prende il fotografo per un’immagine col direttore. I giovani sparano lampi con flash e cazzate con un linguaggio da taverna del porto. Controllano il risultato sul display, scelgono la migliore. Per sentirsi bravi applaudono se stessi.
   Alle ventuno e trenta si chiude. Il direttore ho scelto il vecchio maestro, una giovane promessa e la giornalista. Li prende in disparte, gli propone un ristorantino poco distante e molto rinomato.
   “Cenetta raffinata, servizio veloce, due orette con le gambe sotto il tavolo e si parla di arte.” La giornalista sente i reclami dello stomaco quasi digiuno, accetta.

Due valigie gialle

DUE VALIGIE GIALLE

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   Non potendo prendersela col firmamento si sfogava contro la propria immagine. E qualche volta riusciva a essere felice. Dimenticava tutto sprofondando nel sonno. E quella notte dormì bene.
   La vecchia sveglia trillò all’improvviso. Bruno scattò nel letto, fermò la suoneria, si strofinò la faccia borbottando:
   “Che tu sia maledetta, sveglia della malora”. S’infilò il termometro sotto l’ascella sinistra, aspettò qualche minuto, controllò la febbre: trentasette e tre. Andiamo bene si disse, lunedì si riprende il lavoro. Ciondolò fino alla finestra. Dall’alto del suo abbaino vide i lampioni fissati agli steli metallici, i rari passanti, il primo bar che apriva, niente d’interessante. Il sole che spuntava gl’illuminò la cupola del duomo, le vecchie torri e tutta la sterpaglia metallica delle antenne televisive. Il cielo proponeva una giornata primaverile non priva di nubi.
   La musica sottile del solito clarino lo raggiunse in bagno. Veniva dall’abbaino di fianco, abitato da un giovincello che trascinava le proprie frustrazioni musicali per tutto il Pavese. Il giovincello sognava di volare alto ma era ancora fermo sulla pista di decollo.  Come molti musicisti era fine nel comportamento, gentile nei colloqui, complicato in tutto il resto. Si esercitava la mattina presto e la sera dopo cena, lo faceva piano e non infastidiva nessuno. Quando pioveva evitava l’ombrello sostenendo che la testa bagnata faceva germogliare le idee. Però suonava bene; soprattutto Beethoven, Back e l’ultimo concerto di Mozart.
   Bruno si specchiò nel pigiama rosso incartato come un boero. L’influenza gli aveva dipinto la faccia color pompelmo. A quarant’anni era ancora single; poteva morire come un cane senza che un cane se ne accorgesse. Questo pensava spesso dispiaciuto della propria mediocrità. Era venerdì 17 giorno che lui considerava infausto.
   Pavia si stava svegliando coi suoi rumori, odori, qualche lontana sirena. Dalla mensola prese un giallo a caso cominciando a leggerlo. Durò poco. Dormiva profondamente quando suonarono alla porta.
   “Chi è?”
   “Sono Madama Sorpresa, posso entrare?”
   “A quest’ora del mattino puoi essere solo una rompiballe” tagliò corto lui.
   “Le sorprese, prima di rifiutarle, bisogna conoscerle” rispose lei con una voce troppo dolce per resisterle. Bruno si alzò malvolentieri e aprì una spanna. Quello che vide lo sbalordì. Lo colpì subito la bellezza di lei che vestiva abiti trasparenti che lasciavano intravedere la perfezione del corpo alto almeno due metri. Gli sorrise. I capelli parevano filamenti dorati e pieni di riflessi, talmente lunghi da farci un materasso. Gli occhi due biglie azzurre come mai aveva visto, i lineamenti perfetti e senza un filo di trucco. Più che una donna era una dea sopra una fontana circondata di fiori. Teneva in mano un crisantemo fresco di rugiada che lo inquietò un poco.
   “Vieni da San Pietro in Ciel D’Oro o da Gardaland?” riuscì appena a bisbigliare.
   “Sono dovunque e vengo da qualunque posto. Dovrei entrare. Posso?” Questa volta sorrise maliziosa. Bruno la fece entrare poi chiuse a chiave.
   “Nella mia vita randagia qualche meraviglia l’ho vista. Tu le annulli tutte. Per una notte in tua compagnia ti darei tutto: anche la vita” giocò subito pesante meravigliandosi del proprio coraggio.
   “Che mi darai tutto è certo” confermò lei. “Ora sdraiati, è giunta la tua ora. Ti porto nell’aldilà.” Bruno si sdraiò sul letto senza staccarle gli occhi di dosso e, mugugnando, disse:
   “Così… senza il tempo di fumare l’ultima sigaretta, salutare gli amici, informare il principale”. Sbiancò in volto, sperò di ritardare quella sgradita partenza, mentre la donna, continuando a sorridere, faceva no col capo. Lo sfiorò col crisantemo, lui sentì un forte strappo e fu subito buio pesto. Ebbe l’impressione di volare leggero, incorporeo, accompagnato da un filamento sonoro dolcissimo che gli parve del solito clarino.
   Si riebbe in un oceano di luce davanti a una figura imponente capace di annullare un esercito. L’uomo sfoggiava barba, baffi e capelli lunghi e troppo bianchi, vestiva un abito candido lungo dalle spalle ai piedi, gli occhi, enormi ma buoni, erano grandi quanto due mandarini. Chi è mai costui, si chiese Bruno, a disagio come un pinguino all’equatore: un profeta, un califfo, un eremita, un vattelappesca qualunque.
   “Benvenuto Bruno Cantoni” disse la figura con aria amichevole.
   “Buongiorno signore.”
   “Buongiorno? Lascia perdere. Qui il giorno e la notte non esistono, non esiste il lei ma il tu, per tutti. Io sono Kannellopulos.”
   “È un nome o una minaccia?” osò Bruno impaurito.
   “È un nome. Sulla Terra fui un famoso aristocratico del Peloponneso. Ma la tua cultura, scusami, non va oltre Porta Calcinara. E tu, chi eri?”
   “Io sono Bruno, un pistola pavese. Dove sono?” osò titubante.
   “Pochi minuti fa eri a Pavia, sei morto, ora sei nell’aldilà, o meglio nell’aldiquà.”
   “Vuoi vedere che sono in Paradiso?” Kannellopulos sorrise bonario. Appariva rassicurante, tenero ma solenne, pacato ma preciso, simpatico con quei due occhioni enormi da barbagianni.
   “Calma Bruno. Dimentica la fretta che ti assillava da vivo. Qui il tempo non esiste. Esiste l’eternità: sai cos’è?”