giovedì 14 agosto 2014

PECHINO PER NON DIMENTICARE

Ci sono immagini che sopravvivono all’usura dei secoli: Piazzale Loreto col suo orrore ci dice che la guerra è finita. L’uomo sulla luna ci ricorda quanto siamo capaci. Il fungo atomico ci suggerisce che un giorno potremo autodistruggerci. Complimenti. Quasi sempre queste immagini rappresentano il trionfo del male. Il bene non fa notizia; al massimo un film. Se sei ancora vivo finisci in televisione. Il Novecento ha aperto il sipario con gli spari di Sarajevo, e gli spari continuano. I morti si contano a milioni. Nessuno pensa di smettere. L’ONU è un carapace vuoto di cui si parla sempre, inutilmente. I suoi cinque Paesi più importanti sono i più grandi produttori di armi del mondo; e non servono per sparare alle lepri. Un grande giornalista americano ha detto che nessun articolo ha la forza di un’immagine. E’ vero: le parole si dimenticano, le figure restano. Pechino, fine maggio 1989. Appena ventitrè anni fa. Un’immagine consegnata alla Storia ritrae un giovane davanti a un carro armato. Frase banale detta in questi casi: carne da macello. Il ragazzo veste pantaloni scuri, una camicia chiara con maniche corte, una testa di capelli neri come l’antracite. Pechino, Piazza della Pace Celeste. Qualche volta i cinesi sanno anche essere spiritosi: la Pace Celeste. Ricevo e leggo mensilmente i rapporti di Amnesty International. In Cina le esecuzioni si contano a migliaia, i diritti umani sono letame. Quello che avviene nelle loro carceri, e non solo in quelle, dà il voltastomaco. Consiglio di leggerli dopo la digestione. I loro sorrisi e le loro moine, da tubo catodico, sono pari solo alla loro crudeltà. Il giovane non si muove davanti al carro armato. Quello minaccia di spiaccicarlo sull’asfalto, lui niente. E’ un duro. Ci sono Paesi in cui è facile fare il duro; in Cina finisci con un proiettile nella nuca che viene addebitato alla famiglia. Le autorità cinesi hanno a cuore il bilancio statale. I nomi che strimpellano le vocali, o percuotono le consonanti tipo: Hu Yao-bang o Deng Xiao-ping suggeriscono ai giovani una parola sola: Basta! Quei giovani non volevano parole ma fatti. Il mondo cambia; cambiamo la Cina. Sono degli utopisti e lo sanno: hanno scritto un testamento in cui dicono di cercare solo la verità. La verità! Quanti cimiteri ha riempito questa grande, bella parola. Ricordo una frase letta da ragazzo di cui, purtroppo, ne ignoro l’autore. Diceva: “La verità non trionfa mai, ma i suoi oppositori soccombono sempre.” Meno male. Il loro testamento, che analizzava gli antichi mali cinesi, e proponeva nuove e rivoluzionarie soluzioni non trionfò. Il 4 giugno 1989 i militari soffocarono nel sangue la verità e coloro che la chiedevano. Testamento compreso. Chi scrive un testamento sa quel che lascia e ciò che lo attende. Soprattutto da quelle parti. Quella verità negata costò 3000 morti, 60 mila feriti e una foto che ha fatto il giro del mondo. Dorno, Italia, ventirè anni dopo. Per non dimenticare. (Remo Torti) Pubblicato su un quotidiano locale.

PER FAVORE FUCILATEMI

Ronnie Lee Gardner è stato fucilato come aveva chiesto, quasi implorante: “Signor giudice, per favore, fucilatemi”. Quattro colpi veri, e uno a salve come detersivo per lavare una coscienza con qualche rimorso. È difficile capire perché un uomo implora questo finale, e un Paese come l’America continui a comminarla. La pena di morte da il voltastomaco e la pietà è finita nel cassonetto dell’immondizia. È successo qualche giorno fa in America, giugno 2010. Al Gore fu quasi presidente, vuole migliorare il mondo, si carica sulle spalle diversi problemi, vince il Nobel. Viene in Italia e i giornalisti mettono troppo miele nelle loro domande. Guai a graffiare le sacre orecchie, tanto lui, di questo problema, se ne frega. La pena di morte resiste in 51 Paesi nelle forme più brutali. Pagano sempre i poveri, quelli di colore, i disgraziati gli emarginati, gli Ultimi. In quelle carceri gli si dice che si un pezzo di merda, un figlio di puttana, un numero che deve essere cancellato. Il carcere come università del crimine. Altro che uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Il giudice Thayer sapeva che Sacco e Vanzetti erano innocenti ma li mandò sulla sedia elettrica. Per la loro riabilitazione ci vollero quasi 60 anni. E per gli altri innocenti finiti allo stesso modo? Per capire l’America abbiamo letto e sofferto La Capanna Dello Zio Tom, ringraziato lo zio Sam, incantati davanti a Via Col Vento. Grazie America, ci hai salvati da Hitler, dalla fame e da Stalin. Ma è passato tanto tempo e parecchie cose sono cambiate. Ci hai anche accusato di averti dato Al Capone e la mafia, ma ci abbiamo aggiunto Meucci, Fermi, Fiorello La Guardia e tanti altri che ci appagano e riscattano. Abbiamo capito che collezioni primati, ma nel film dell’orrore che resta la pena di morte sei rimasta spietata e parecchio indietro nel tempo. L’estate ci porterà le raccomandazioni dei famosi di turno: non abbandonate i cani, curate il gatto, non buttate gli animali domestici sull’autostrada. È bello ma tutto per gli animali. E per l’uomo che aspetta il boia silenzio di tomba. A urlare contro queste nefandezze sono rimaste alcune associazioni che si sgolano e continueranno a farlo indipendentemente dai risultati. Abbiamo sperato nel primo Presidente di colore dai troppi sorrisi e parecchie speranze deluse. Il problema non lo sfiora, ma non fu così per i suoi avi. Noi italiani cosi piccoli abbiamo esportato nel mondo il “ciao”, tu America così grande hai regalato a tutti “okay”, due paroline che sono l’inizio di un dialogo, una nuova amicizia, tante belle prospettive. È servito? È difficile per noi capire quel condannato a morte che chiese l’ultima sigaretta e l’obeso di turno gli rifiutò perché il fumo danneggia i polmoni. Pochi minuti dopo finì nella camera a gas. Provate a capire perché noi, così piccoli, osiamo impartire lezioni urlando basta! Perché noi, così piccoli, siamo stati i primi al mondo a cancellare questa nefandezza. Era il 30 novembre 1786, e un certo Leopoldo II di Toscana disse basta. Ciao America, anche stavolta nell’Anno del signore 2012 è tutto okay. (Remo Torti) Pubblicato su un quotidiano locale.

GIUSTIZIA E' FATTA

E’ la lugubre frase che, in qualche circostanza, pronuncia il boia di turno. Della pena di morte se ne parla a fasi alterne, ci si indigna, si firmano petizioni, si segue l’ultima trasmissione televisiva sull’argomento. Succede quando il condannato riesce a farsi sentire. Qualche giorno dopo è tutto finito, tutto dimenticato. Ne riparleremo tra qualche anno. Questa pratica orripilante resiste in 74 Paesi, più 9 che la applicano in circostanze eccezionali. Se questi dati producono un brivido lungo la schiena la conclusione dà il voltastomaco. Perché questa vergogna mondiale resiste contro ogni manifestazione popolare e rifiuta pure gli interventi ai massimi livelli? Perché sta scritta nei codici, dicono. E’ vero. Ma le leggi dei codici le scrivono uomini che sovente sono peggiori di quelli che devono leggerle. Perché la maggioranza della popolazione questa pena la vuole, aggiungono i sondaggi. Quanti sbagli si sono commessi in nome dei sondaggi? Per i voti alle prossime elezioni. Anche questo è vero. In certi Paesi trionfano i forcaioli. Per gli altri la sconfitta politica è certa. Perché in certi Paesi la Polizia vuole sempre un colpevole. Quando non c’è va bene anche l’innocente. Così vanno le cose. Che i nostri Sacco e Vanzetti erano innocenti lo sapevano tutti, compreso il giudice Webster Thayer che li condannò alla sedia elettrica. E’ ancora di moda Cesare Beccarla? Oltre due secoli fa scrisse: “Ne commettono uno esse medesime, e per allontanare i cittadini dall’assassinio ne ordinano uno pubblico.” E’ dimostrato che questa pratica mostruosa non risolve il problema. Molti sostengono che lo aggrava. All’errore commesso, e sono molti, non c’è rimedio. La vita appartiene al Padreterno, quindi sia Lui a decidere quando darla o toglierla. Disse Malraux: ho imparato che una vita vale nulla e che nulla vale una vita. Aveva ragione. Breve considerazione: a finire nelle grinfie del boia sono sempre gli Ultimi. I ricchi, i famosi, i potenti l’hanno sempre scampata. E’ giustizia questa? Tra i tanti episodi legati all’ultimo momento del condannato ne cito uno. Si chiamava Robert West, aveva 36 anni e prima di essere giustiziato chiese qualche sigaretta. Gli furono rifiutate perché nelle prigioni del Texas è vietato fumare. L’America salutista gli ricordò che il fumo uccide. Cose da pazzi. Per tre anni sono stato in contatto con Scotty Lee Moore, condannato a morte in Oklahoma. Per tre anni ho vissuto le sue pene, letto i suoi tormenti, condiviso e sofferto un dolore infinito. L’invisibile filo di Internet avvolse il mondo alla ricerca di consensi per salvarlo. Tutto inutile. Quante volte lo hanno ucciso l’amico Scotty? Disgraziato colui che conosce il giorno e l’ora, sta scritto. Quando arrivarono il giorno e l’ora Scotty Lee Moore, morto che cammina, avanzò con le proprie gambe verso l’ultimo diaframma che porta a Dio. Tra qualche minuto, disse, sarà finalmente tutto finito. Sognò le sue ceneri sparse nel mare italiano. Fu accontentato. I forcaioli degli 83 Paesi che decidono come e quando uccidere sono e restano dei perdenti. Il mondo, la storia e la forza del bene li spazzeranno via. Aumenteranno i volontari di Amnesty International, quelli di Nessuno Tocchi Caino, quelli della Comunità di Sant’Egidio e molte altre meno note. Perché è giusto così e così dev’essere. La civiltà avrà veramente inizio quando il potere dell’amore sostituirà l’amore del potere. (Remo Torti)

LA CRAVATTA

Era tornato per vederla e farsi vedere, capire e farle capire. Il tempo aveva sicuramente lasciato ancora qualche pallida traccia. Ne era certo. Forse restava una magra soddisfazione a cui non volle rinunciare. Dopo due giri a vuoto attorno all’isolato si era finalmente liberato un posto, proprio davanti al negozio. Era ciò che voleva. L’uomo dai capelli grigi, gli occhiali senza montatura, 64enne elegante e distinto scese dalla grossa Mercedes sperando che lei lo notasse. Sostò un paio di minuti davanti alla vetrina fingendo di osservare le cravatte. Lei era in fondo al negozio, parlava con un’anziana signora. Due volte reclinò la testa puntando la vetrina. Prima di entrare decise di percorrere i malinconici marciapiedi dei ricordi. E così fece. Pensò di alleviare il caldo togliendosi la giacca che appese all’interno della macchina, rivolto i polsini della camicia, si asciugò il sudore. Giravano poche persone: alcune coppie con eleganti borse, due rappresentanti con valigette di pelle, un extracomunitario con borsone offriva calze, fazzoletti e accendini. Tra quei palazzi del centro cittadino lavorò cinque anni, e da quaranta mancava. Piantò tutto all’improvviso per una donna e una cravatta. Ma l’indumento fu solo l’ultimo pretesto. In quarant’anni era tornato molte volte, quasi sempre la domenica coi fiori per i defunti e dolci raffinati per i lontani parenti della moglie. Un orologio elettronico lo aggiornò: ore 19, luglio 2006, gradi 35. Una pesante cappa di caldo e afa opprimeva la città. Quarant’anni, pensò osservandosi nello specchio di una cristalleria. Un’enormità che aveva cambiato tutto tranne i muri. Sparita la libreria, il fotografo, il salumaio, i due bar in competizione per il caffè migliore. Cancellati i negozi dove si veniva accolti con sorrisi spontanei e strette di mano sincere. Resisteva l’antico negozio di cravatte tra boutique di grandi firme, agenzie viaggi, call center, e bugigattoli pieni di telefonini. Il tempo e il caso gli avevano offerto l’opportunità di rivederla; forse per l’ultima volta, chissà… Quarant’anni prima, per quella meravigliosa ventenne, avrebbe fatto follie e, a fatica, gliel’aveva confessato. Lei subito si era preso gioco di lui, poi l’aveva trattato con gelida indifferenza, infine se l’era scrollato di dosso nel modo peggiore: offendendolo. Da bellissima qual’era si era posta sul piedistallo; mirava alto, voleva tutti ai suoi piedi. Lui, timido e romantico ma capace d’improvvisi colpi di testa, dopo l’offesa della cravatta piantò tutto e se andò. La distanza, il balsamo del tempo e le altre donne sanarono la ferita senza cancellare il ricordo. Girò l’angolo poco distante dal negozio. Il nome era sempre quello: Elite, a sbiadite lettere gialle stile Liberty su vetro nero malconcio. Due fidanzatini si sbaciucchiavano, giocando col telefonino, sotto un triangolo d’ombra. L’extracomunitario lo affrontò, falsamente implorante, con la sua mercanzia. “Se non si offende posso darle qualche euro” propose l’uomo dai capelli grigi allungandogli alcune monete. Quello intascò e, ringraziando, cambiò marciapiedi. Diversamente dagli anni Sessanta alla vetrina delle cravatte aveva aggiunto i guanti sistemati a ventaglio e le cinture arrotolate in uno studiato contenitore trasparente. All’interno, in fondo vicino alla cassa, lei con quarant’anni in più e l’anziana signora con in braccio un pincerino tascabile. L’uomo entrò nell’odore di stoffe pregiate, salutò educatamente come se niente fosse. Chiese il permesso di osservare la vetrina, cosa che fece dando loro le spalle. La signora col cagnolino concluse preparandosi a uscire. Lui la pregò di restare evitandogli l’imbarazzo di una scelta affrettata. “La prego” ripeté “mentre loro parlano io scelgo con calma. Grazie.” Fu accontentato. Riannodarono il filo del discorso fatto di cenetta a base di pesce, poi due ore di bridge con le solite amiche del sabato sera. “Spendiamo la metà rispetto al ristorante, evitiamo il caos di ogni sabato e il risparmiato ce lo giochiamo. A mezzanotte tanti saluti e buona domenica” propose la signora col cagnolino. L’altra, poco convinta e un po’ imbarazzata, lamentò la monotonia di quei sabati sempre uguali. Tagliò corto: “O si cambia o mi sgancio.” “Studieremo qualcosa di diverso, parola mia. Per domani restiamo sul tradizionale.” La signora col cagnolino uscì salutando ad alta voce. Rimasta sola con l’uomo la cravattaia si avvicinò alla vetrina. I loro sguardi s’incrociarono muti e indagatori. Gli attimi che seguirono furono d’imbarazzante silenzio che lei fu pronta a glissare: “E’ suo quel macchinone davanti al negozio?” “Certo, dalle ruote al tetto è tutto mio.” “Un’ausiliare le sta mettendo la multa. Scusi un attimo” sospirò correndo fuori. L’uomo vide le due donne discutere ma rimase in negozio. Si guardò attorno respirando quell’odore senza tempo di stoffe pregiate, di legni antichi e fuori moda, le foto ingiallite di personaggi famosi entrati per la cravatta importante e ricercata. L’ultima, con dedica, risaliva al Sessantotto. Alla luce naturale della strada vide che la rosa di un tempo aveva perso le spine, il profumo era artificiale, i petali appassiti. Ora si tingeva i capelli, vestiva una camiciola fantasia bianca con fiori rossi bordata all’uncinetto. Troppo giovanile. Le scarpe avevano tacchi esageratamente alti e la gonna blu scuro s’adattava meglio a una trentenne. Pensò che forse, ma fu solo un pensiero, espiava nella solitudine le sue pretese deluse. Riportò lo sguardo in negozio notando subito che tanto il pavimento, quanto il soffitto, reclamavano restauri negati. “Per questa volta niente multa” riferì soddisfatta rientrando “ha risparmiato 35 euro. L’ha salvata la targa svizzera anche se lei…” “Beh… abito e lavoro là da quarant’anni. Grazie per la multa. Acquisterò una cravatta in più.” La cravattaia scivolò dietro al banco, sfoggiò un sorrisetto commerciale proponendo: “Vuole vedere sia le cravatte che le cinture? I guanti sono fuori stagione anche se qualche paia le vendo nonostante il caldo.” “E nonostante il caldo, chi le compra?” “I giapponesi. Qualche russo dei nuovi ricchi, qualche americano o inglese, non so mai distinguerli” rispose facendo spazio sul banco. Aprì un armadio con un lungo e sottile specchio verticale, tolse tre aste di legno che posò sul banco precisando: “Sono trenta, l’ultima novità, appena arrivate. Prego… provi pure quella che preferisce.” Lui ne sollevò due sul palmo della mano sinistra, con la destra sfiorò la stoffa poi lesse l’etichetta. La donna notò che vestiva una raffinata camicia tinta unita su cui spiccava una cravatta con campiture variopinte, sfumate tipo arte moderna. I polsini rivoltati lasciavano intravedere un Rolex d’oro massiccio bracciale compreso. Anche la fede, più grande del solito, luccicava sull’anulare sinistro. Le mani erano bianchissime, lisce, perfettamente curate. Vistolo titubante propose: “Se non è convinto non si preoccupi. Sarà per un’altra volta.” Lui sorrise appena e, scuotendo la testa, aggiunse: “Vede… la cravatta è come il giornale, il libro sul comodino, l’automobile. O il bar del mattino che offre il caffè migliore. Piccole cose che devono piacere subito, diventano parte di noi stessi. M’intende?” “Certo, intendo benissimo e concordo pienamente.” L’uomo ne mise da parte quattro precisando: “Queste sono d’assalto, piacciono subito. Mi ricordano i giovani d’oggi.” “Cioè?” disse lei reclinando la testa con un risolino malizioso. “Invecchiano presto, passano di moda.” “Come quella che indossa?” “Proprio come questa. E’ bella, originale, ma si nota subito che manca la finezza italiana.” Lei chiese se poteva quando già la sua manina la stava tastando. “Pare americana” osò un attimo prima di girarla per sbirciare l’etichetta. “Complimenti, è il regalo di un collega di New York. Un po’ violenta, come loro.” L’uomo ritornò a scrutare, poco convinto, le trenta sul bancone. Aggiunse: “L’Italia, tra le moltissime cose, ha anche le cravatte più belle del mondo. Una volta questo negozio le aveva.” Lei annuì col capo, si scusò infilandosi nel retrobottega. Si sentì una chiave girare, un’anta scricchiolante aprirsi, ricomparve con una vecchia scatola rettangolare alta circa dieci centimetri. L’aprì come si apre lo scrigno di un piccolo tesoro precisando: “Anni Sessanta, famoso laboratorio artigianale cancellato dalla concorrenza. Sono le ultime cinque che conservo da troppo tempo.” L’uomo s’illuminò dicendo: “Ecco quello che cercavo: la bellezza senza tempo, quella che non invecchia mai Complimenti.” Prese quella di sinistra, s’avvicinò all’uscita per osservarla alla luce naturale. Non era sicuro che fosse quella di quarant’anni prima ma le assomigliava molto. La mise al proprio posto sentendosi osservato da occhi muti e indagatori. Lei la sollevò, fece il nodo e gliela porse: “Prego, la provi.” “Grazie… non serve. Sono talmente belle che parlano senza nodo. Le prendo tutte e cinque” confermò convinto. La cravattaia parve rattristarsi. Non rispose e quel silenzio fece dire all’uomo: “Qualcosa non va?” “Va tutto bene. Le vendo volentieri la altre quattro; questa è un ricordo e i ricordi non hanno prezzo e non sono in vendita. Mi scusi.” “Certo, capisco.” Ritornato alla vetrina scelse quello che gli parve il più bel paio di guanti da donna al centro del ventaglio. Per quelli chiese una confezione natalizia separata dalle cravatte. Lei annuì con un sorrisetto malizioso aggiungendo soavemente: “D’accordo, anche se Natale dista parecchio.” “E’ vero” rispose lui “regalo per me regalo per la moglie. Lei fa lo stesso; sa è svizzera. Anche per questo siamo coppia felice.” Lei gli diede di spalle. Cercò il nastro da confezione che stava sul tavolo. Ritornando a guardare la merce si fece coraggio e chiese: “Le interessa qualcosa per i figli?” “Grazie… con loro i regali vengono programmati prima e definiti nei minimi dettagli. Diciamo un po’ alla tedesca. Niente spazio all’improvvisazione.” S’intromise il silenzio, l’imbarazzo di continuare ignorando dove si sarebbe andati a parare. La cravattaia cerco di accelerare le confezioni. Piegò la carta con mani esili, pallide, le unghie di un rosso arrogante. Tra quelle dita minute vide solo anellini decorativi e provvisori. Lui andò alla vetrina, tornò indietro fermandosi davanti alle foto ingiallite dei personaggi famosi e lontani. Nel vetro la vide riflessa; lo osservava dalla testa ai piedi: le scarpe di lusso, i pantaloni firmati, la cintura raffinata. “Queste foto sono un bel ricordo e un eccellente biglietto da visita. Complimenti.” “E’ acqua passata. Ecco fatto” disse porgendogli due borse di cartoncino stampate con due funicelle bianchissime a mò di maniglia. “Grazie, quanto devo?” “Sono 320 per le quattro cravatte, più 80 per i guanti. Esattamente 400 euro. Le va bene?” “Mi va benissimo. Anche se, le confesso, la quinta mi è rimasta come si dice nel gozzo. Pazienza.” Lei non rispose ma guardò il portafogli aperto con una decina di carte di credito e una mazzetta di euro in tagli da cinquecento. Tolse una banconota e porgendogliela aggiunse che lo scontrino non gli serviva. “Davvero? Dovrei farlo, sa?” “Quarant’anni fa gli scontrini non esistevano. Le cravatte sono degli anni Sessanta, giusto? Lasci perdere.” Si salutarono sulla porta con una finta stretta di mano sulla punta delle dita, la voglia di dire tante cose, l’imbarazzo di iniziare. Due sorriseti appena sfumati, ambigui e malinconici chiusero l’incontro. L’uomo dai capelli grigi, gli occhiali senza montatura, 64enne elegante e distinto mise le borse nel cofano, salì in macchina e mise in moto. I negozi stavano chiudendo, l’ora di cena accelerava i passi. La cravattaia abbassò a fatica la saracinesca. Sul bancone era rimasta, solitaria, la cravatta di quarant’anni prima. Pensò di regalargliela. La prese, corse fuori agitandola nella mano sinistra. La grossa Mercedes era ferma in mezzo alla strada, la freccia a sinistra, il semaforo rosso. Pensò di correre, forse lui l’avrebbe vista nello specchietto retrovisore, forse no. Corse portandosi al centro della strada quando l’auto, un attimo dopo, girò a sinistra scomparendo. Rientrò in negozio, chiuse gli armadi, provò ad inserire il segnale d’allarme ma si ricordò che era guasto. Spense le luci e uscì diretta verso casa. Sul banco rimase la cravatta di quarant’anni prima.
BRUTTI TEMPI

   Viviamo anni difficili tra confusione, paure, incognite per un futuro su cui vorremmo vedere splendere il sole della tranquillità. Secondo qualcuno va tutto bene, secondo altri va tutto male. A chi credere? Penso al portafogli. I giovani rincorrono un posto di lavoro come in una gara ad ostacoli. Guai ad inciampare. Orecchini, piercing e tatuaggi vari non credo che agevolino. La casalinga guarda preoccupata la lavagnetta di fianco al frigorifero come gli antichi scrutavano l’Oracolo di Delfi. La borsa valori è ondivaga, quella delle merci sale, quella del petrolio è schizzata verso le stelle. Ma è quella della spesa che ha cancellato ottimismo e sorrisi. La realtà, per moltissimi, sta proprio in quella borsa. I giovani il tempo lo hanno tutto davanti e si dibattono. I vecchi il tempo lo hanno tutto dietro e restano preoccupati. Indietro non si torna, e così non si può andare avanti. Come la mettiamo? I signori della politica riescono ancora ad incantarci?
   Ricordo un capo di Stato che andava in parlamento in bicicletta. Un altro che, appena eletto, uscì dal palazzo e se ne andò a casa in tram. Pagando il biglietto. Del terzo vidi la casa in costruzione; una villetta schiera come quelle delle nostre periferie. Cose d’altri tempi? Nient’affatto! Correvano all’incirca gli anni Ottanta. Non erano politici italiani. Da noi è raro che qualcuno si scolli dalla poltrona, che tanto concede, per il traguardo mancato. E’ successo pochissime volte ma è successo. Anche recentemente. A queste rarità auguriamo buon viaggio, con stima e ammirazione.
   Per la ragazza di oggi il massimo è diventare velina, avere le curve su misura, meglio un tantino abbondanti. Se necessario rivolgersi al chirurgo plastico. Per due posti concorrono a migliaia; l’importante è provarci. Segue Miss Italia, Cinema, Universo, isole dei famosi riciclati, fattorie con maiali veri, le fiction scritte all’americana girate in una qualunque Barlassina d’Italia. Per i giovani, e non solo quelli, ci sono ruote, passaparole, pacchi e quant’altro. Ogni due anni ci scappa il miliardario. Per tutti gli altri, se va bene, il rimborso spese con crollo delle illusioni. Grazie per averci risparmiato Il Grande Fratello.
   I potenti della Terra e della finanza programmano guerre preventive che non finiscono mai, alcuni rincorrono l’atomica, altri minacciano l’apocalisse. Valori esplosivi che rifiutiamo. I treni saranno ad alta velocità, gli aerei città volanti, i grattacieli sempre più alti. Oggi li chiamano towers, cioè torri. Con la torre l’uomo ci ha già provato. Costruì quella di Babele e sappiamo com’è finita. Abbiamo smesso di amare il prossimo e ne raccogliamo i frutti. E allora? Speranze perdute? Non sia mai! A giorni sarà San Martino. Venne da lontano, visse a Pavia un paio d’anni, forse lasciò semi ancora fecondi.
   Questo mondo tribolato e sanguinante vanta ancora molti Martino. E come lui ci sono ancora tante persone di buona volontà disposte a scendere da cavallo per dividere il proprio mantello con chi soffre il freddo. Forse costoro salveranno il mondo.
                                                                            (Remo Torti)
Pubblicato sui giornali locali