martedì 14 agosto 2018

IL MANOSCRITTO INSANGUINATO


Remo Torti






IL MANOSCRITTO INSANGUINATO





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Tre valigie








   Sul tavolo c’erano tre valigie chiuse, dietro al tavolo un tipo che aveva l’aria di guadagnare milioni di euro senza rimboccarsi le maniche, tutt’intorno moltissimi manoscritti antichi tanto belli da procurare le vertigini. Quelle valigie proponevano un viaggio di cui ignoravo l’inizio e, quel ch’era peggio, non immaginavo la fine.
   L’uomo era elegante come un italiano, gentile come un francese, raffinato come un inglese. Volava talmente alto che non seppi se chiedergli il permesso di stringergli la mano, o offrirgli cinquecento euro per l’autografo sul suo vistoso biglietto da visita. Mi tolse dall’imbarazzo offrendomi la sua mano e presentandosi:
   “Buongiorno, sono il dottor Magistrali Adriano”. Gliela strinsi presentandomi a mia volta. La sua pelle era liscia e tiepida come le guance di un poppante. Un tic a intervalli regolari gli deformava le labbra come un brivido, le pupille erano due biglie di ghiaccio e lo sguardo duro e tagliente come il filo di un rasoio. Era alto uno e ottanta, spalle strette, vita stretta, abbronzatura eccessiva, portamento elegante e virile. Indossava un monopetto color cachi, pantaloni di velluto a coste, mocassini di camoscio. Non portava cravatta, il colletto della camicia era sbottonato, i gemelli facevano pendant con la dentiera troppo perfetta per essere nata e cresciuta nella sua bocca. Profumava di mughetto.
   Non vidi la marca dell’orologio ma valeva più della mia BMW. Mi guardai attorno e ciò che vidi non erano i muri di una gran bella casa ma una casa che ospitava un museo. Un pianoforte accarezzato da un ignoto virtuoso faceva delicatamente da sottofondo. Finsi, per un attimo, d’incantarmi alla dolcezza della melodia.
   “Le piace?” mi chiese col risolino calibrato. Annuii con un lieve cenno del capo.
   “Conosce Chopin?”
   “Lo conosco e lo amo. È un amico che non tradisce mai.”
   “E come la trova questa sua Marcia Funebre?”
   “Malinconicamente sublime.”
   “Bella definizione” convenne “anche nel clima struggente e sospeso del pezzo. Abbiamo gusti comuni e questo ci avvicina. Devo spegnere?”
   “Non ora, sarebbe triste come un coito interrotto. A pezzo finito. La mia edizione dura esattamente 23 minuti e 8 secondi, e siamo oltre la metà. L’affare che tratteremo non ammette distrazioni.” Abbozzò un inchino, rimase in silenzio. Con un piccolo telecomando alzò leggermente il volume. Raggiunsi la parete più vicina, l’udito rivolto a Chopin, lo sguardo svolazzante sui fogli colorati.
   Vidi quelle carte antiche per la prima volta nella mia vita e ne rimasi incantato. Mi avvicinai a distanza di naso, costretto a inchinarmi, ammirando l’elegante scrittura, le raffinate miniature, gli inchiostri di molti colori, le tenui sfumature, le tinte sgargianti dei motivi floreali, i sigilli nobiliari capaci di elevarli alla storia. Alcuni imponevano regole, altri dettavano leggi, altri ancora emanavano sentenze in modo freddo e implacabile. A fatica lessi i nomi di alcuni giganti del passato. E fu così che uno dopo l’altro sfilarono davanti ai miei occhi alcuni giganti della storia, nel bene e nel male.
   Chopin finì, l’uomo spense l’impianto costoso come tre stipendi, guardò l’orologio, erano le nove e mezzo.
   “È l’ora del caffè, lo gradisce?”
   “Volentieri, grazie.”
   “Come lo vuole?”
   “Con tre gocce di grappa, se possibile.” Schiacciò il pulsante dell’interfono, chiamò la domestica a cui chiese:
   “Un caffè per l’ospite, il solito per me, la grappa migliore. Non qui, ma nell’ufficio vicino.” M’invitò all’appuntamento con la caffeina dove la domestica non avrebbe visto le tre valigie. Attraversammo il locale, incontrammo i caffè con la bottiglia di grappa ancora sigillata. Il vassoio fu posato sulla scrivania da un’attempata signora coi capelli bianchi pettinati a cavolfiore.
   “Dottore, posso andare? Di là c’è Abdel” chiese la donna che dopo il cenno di assenso si eclissò. La sua tazzina conteneva un caffè lungo con uno spuntone di panna. Lo mischiò muovendo il cucchiaino avanti e indietro, notò la mia correzione, sorseggiammo in silenzio studiandoci.
   “Le piace la grappa?” indagò curioso.
   “Solo tre gocce per volta e sempre nel caffè.” Prese la bottiglia, studiò l’etichetta.
   “Grappa bianca bicchiere formato calice a tulipano, temperatura ottimale dodici gradi. Per quella bionda stessa temperatura, ma bicchiere diverso. Ma lei questo lo sa benissimo. Torniamo a noi.”
   Cinque minuti dopo eravamo tornati davanti alle tre valigie. Di proposito le ignorai concentrandomi sulle opere d’arte; disciplina di cui non mi considero un esperto ma un tenace cultore. C’erano tre uova Fabergé con cui si poteva comprare un grattacielo, miniature egizie su papiro, lacca e pergamena. Mi colpì un pavone di smalti e pietre dure, agata, onice, diaspro. Lamine d’oro insuperbivano l’animale legando delicatamente dorso e fianchi. Era uno stupendo pezzo di oreficeria barocca proveniente dalle botteghe granducali. Peccato che avesse un’ala staccata. Fissai la ferita, lui capì e intervenne:
   “Per ora il mio pavone non vola, aspetto il restauratore. I bravi sono sempre più rari, sempre più preziosi e con tempi lunghissimi”. A modo mio trovai una certa somiglianza tra l’uomo e l’uccello ferito.
   I manoscritti pendevano dalle pareti con sigilli, timbri, cere e ceralacche colorate custoditi in abiti trasparenti confezionati su misura. Le uova, il pavone e altri pezzi stavano posati su colonnine di onice, alabastro e diverse colonnine di lava. Nulla era lasciato al caso o all’approssimazione: la disposizione delle luci, la distanza tra un’opera e l’altra, le pareti di un bianco studiato, la sorveglianza elettronica da fantascienza.
   Il mio superiore mi aveva mostrato un dossier in cui era tratteggiata la figura che mi stava di fronte, che d’ora in poi chiamerò il committente, e che mi stava offrendo un incarico. Il personaggio era complesso come i suoi affari, i dubbi e sospetti sul suo operato parecchi, le prove inesistenti. Le conoscenze di cui disponeva ne facevano quasi un intoccabile. I documenti che vidi nel dossier furono il massimo che mi fu concesso.
   “Qui te lo guardi e qui resta. Studiatelo bene. Appena hai finito torna in cassaforte, chiaro?” fu l’ordine del capo.
   “Chiarissimo. Quanto tempo ho?” Guardò l’orologio, “Ancora dieci minuti.”
   “Stai scherzando?”
   “Ne ho forse l’aria?”
   “Nient’affatto; sarebbe come veder sorridere un serpente” lo provocai. Finse di non sentire. Col telefonino fotografai l’immagine migliore, poi continuai la lettura in piedi e appena si allontanò un attimo fotocopiai a colori il soggetto ripreso di nascosto con
un teleobiettivo.
   Ora l’uomo del dossier, il committente, lo avevo di fronte coi suoi sessantatré anni ben portati, la vita movimentata come un romanzo d’avventure, un’eccessiva considerazione di sé e del proprio potere. Mi ci volle poco a capire che aveva già tantissimo, ma non ne aveva mai abbastanza. Parlava poco ma chiaro, con decisione e grinta, non sopportava di essere interrotto. Mi stava prendendo le misure, io facevo lo stesso, lui era un falco travestito da colomba, io uno spiantato in cerca del colpo definitivo. Gli feci i complimenti per la sua collezione, ma non parve gradire la parola collezione.
   “Io non colleziono oggetti, ma sposo emozioni. E i miei matrimoni escludono divorzi” rispose standomi di fianco mentre avanzavo lentamente tra un’opera e l’altra. Aggiunse:
   “La mia vita poggia su due pilastri: lavoro e collezionismo. Rifiuto il moderno, amo l’antico, odio le mezze misure. Punto sempre al capolavoro”. Lo avevo capito.
   “Vede… il collezionista vero è colui che raccoglie e salva ciò che andrebbe perduto, restaura e traduce, conserva e ordina. Prima per sé, poi per la gioia di altri. Noi illuminiamo le ombre del passato. Nulla ci portiamo dietro” concluse banalmente giustificando il mare di soldi che quella passione divorava.
   “Capisco” dissi tanto per dire. Tornammo dove l’invisibile forza ci trascinò: davanti alle valigie. Due erano nuove, la terza dall’aria antica e malinconica stava leggermente discosta. Erano tutte rigidamente chiuse. Quei bagagli a mano offrivano una missione proponendo un viaggio: dove mi avrebbero portato? Confesso che accesero nel mio animo brividi di piacere; quelli che nascono dal desiderio del malloppo, dal fascino dell’avventura e dai brividi del rischio. Di solito quando si accetta un certo incarico c’è una sola valigia, al massimo due: l’arma e metà del compenso. Il saldo a fine operazione se è andata bene. Un’esca ben studiata?
   Trovai quella presentazione un po’ teatrale ma intrigante: tre valigie, un viaggio, un numero. Ricordai che da studentello il tre era ritenuto numero perfetto e liquidai quella teoria come cazzata scolastica. Allora ignorai che il tempo e i fatti mi avrebbero dimostrato quanto sbagliavo.
   La casa in cui mi trovavo era una vecchia fabbrica ristrutturata con un mare di soldi, blindata con tutte le diavolerie elettroniche dell’ultima generazione; sia all’interno che all’esterno. Il vecchio capannone occupava una superficie di almeno quattromila metri quadrati, era divisa su due piani a Sud, e su tre a Nord, con uno scivolo che scendeva sotto il piano terra che immaginai usato come magazzino. Nacque durante il Ventennio alla periferia della città, con attorno un colletto di verde e piante di medio fusto, poi le case l’avevano circondata e la periferia vera s’era dilatata attorno spingendosi qualche chilometro a Sud. Per fortuna il perimetro di verde era rimasto.  Proprietario di questa fortuna era l’uomo che mi stava di fronte che aveva, e valeva, una montagna di soldi.
   “Questa per lei è una giornata fortunata” sentenziò nella sua ingessata supponenza.
   “Lo vedremo alla fine” risposi. Finalmente aprì la prima valigia a sinistra e venne al punto:
   “La valigia numero uno contiene un milione di euro in banconote usate di medio taglio. Quasi due miliardi di vecchie lire. Questa somma sarà sua quando mi consegnerà la numero tre di cui questa è, all’incirca, la copia”. Strano bottino, pensai. Una sua quasi gemella rappresenta la sfida.
   “La valigia numero due contiene una pistola” affermai conoscendo quel tipo di bagaglio a mano “serve per  eliminare qualcuno?” gli chiesi piantandogli negli occhi il mio sguardo curioso.
   “Assolutamente no. Mi permetto di regalargliela, ha la matricola abrasa, gliela do come l’ho avuta.” Aprì la valigetta di cuoio giallo, me la spinse davanti. L’interno era di velluto rosso, c’era l’arma assemblata e un caricatore di scorta. Aggiunse:
   “Non amo le armi, non le ho mai usate, sono ingombranti come i rimorsi”. Finsi di credergli. La impugnai, prima con la destra poi con la sinistra, la soppesai, presi la mira contro un uovo Fabergé elencando, ad alta voce, tutte le caratteristiche dell’arma.
   “Vedo che è un intenditore, le darà sicuramente del tu dopo due caricatori” ronfò mellifluo.
   “Desert Eagle, Aquila del deserto, arma israeliana troppo pesante, l’hanno resa famosa i film americani, sempre in compagnia dei cattivi puntualmente sconfitti” terminai il discorsetto con l’arma disassemblata e ovviamente scarica. Credo pensasse cosa volevo fare. Lo accontentai rimontandola ad una velocità tale che lo vidi sbiancare.
   “Complimenti, non vorrei trovarmici di fronte quando sarà carica.”
   “Né io puntarla contro di lei. Anche se in questo lavoro i bersagli cambiano come al poligono di tiro.” Riposi l’arma, chiusi la valigetta. “Se concluderemo la prendo in prestito. Non vorrei sparare con l’unica pistola che tengo tra le gambe” scherzai strappandogli una risata a tutta dentiera.
   “Tre valigie e una pistola mi sussurrano che non sarà un lavoro facile. Vorrei conoscere i dettagli” pretesi.
   “Niente è facile a questo mondo, lei lo sa bene. Si guardi attorno; ogni pezzo appeso a queste pareti è stato un problema. Quasi sempre risolto. Nessuno offre un milione di euro per un’impresa facile” dichiarò coi modi spicci e determinati di un militare. Dopo una breve pausa riprese: “Il volpone che si è aggiudicato  Il Re dei Confessori ha impiegato dieci anni, fatto il giro del mondo diverse volte, lottato contro sei musei”.
   “E lo ha pagato seicentomila dollari oltre trent’anni fa.” Inarcò le sopracciglia:
   “Complimenti, ho a che fare con un intenditore.”
   “No… un semplice curioso che l’ha visto esposto in Italia e letto un libro sull’argomento.” Mi parve spiacevolmente sorpreso. Le persone come lui preferiscono gli ignoranti; sono più manovrabili.
   Non avevo ancora accettato, ma stavo per farlo. La cifra che mi offriva mi girava nello stomaco come un’ostrica col guscio. Non dovevo darlo a vedere; era troppo presto per scoprire le mie carte. Ci accomodammo su due poltrone di pelle nera, uno di fronte all’altro. Calzava scarpe di un colore talmente giallo e raro che immaginai lucidate con polvere d’oro.
   “Prima di decidere mi servono alcune informazioni.”
   “Sentiamo.”
   “Cosa contiene la valigia e quanto pesa, è fissata a qualcosa, sta in cassaforte, è sorvegliata, contiene esplosivo o stupefacenti?” accavallò le gambe sospirando.
   “Troppe domande per un simile recupero.  Questa è un’operazione da condurre in silenzio, in punta di forchetta e con alcuni lati piacevoli. Il contenuto non la riguarda. Non mischiamo i ruoli.” Non mi lasciai incantare dalla livrea delle sue parole.
   “Troppe incognite per un solo milione di euro. Niente risposte, niente accordo; mi spiace” tagliai corto, sperando di non pentirmi. Un lampo d’ira gli accese lo sguardo, le guance divennero rosse come l’anguria. Si tolse la giacca infrangendo la sua eleganza sartoriale, tribolò a sbottonare i gemelli della camicia, si rivoltò le maniche. Guadagnava tempo, credo cercasse idee precise per convincermi. Conosco gli squali e so per esperienza che cercano di sganciare sempre meno per arraffare sempre di più. Mi alzai in piedi fingendomi pronto ai saluti. Lo vidi più silenzioso e teso di un ladro dietro la porta. S’alzò pure lui ricordandomi:
   “Il mercato offre professionisti a metà prezzo. Se lei rifiuta cercherò tra quelli”. Era un bravo funambolo, pronto a rischiare. Di sicuro aveva fregato molti furbi e inchiappettato tantissimi gonzi.
   “Li conosco” ribattei deciso “costano la metà ma valgono un quarto. Mezze calzette. Se andrà bene le porteranno mezza valigia.”
   “Chi le dice di valere più degli altri?” mi chiese guardandomi di traverso.
   “Lo dicono gli altri, io mai. Lei lo sa benissimo, perciò mi trovo qui cercato da lei.” Nonostante la mia pronta reazione riuscì a non scomporsi. Mi pregò di rimettermi seduto. Si lisciò la punta del naso.
   “Rilassiamoci e vediamo cosa posso dirle. Dunque… la valigia dovrebbe pesare otto, dieci chili. Dodici al massimo. Non contiene droghe, né soldi, né esplosivi. Niente contro la legge; solo documenti antichi. Materiale per collezionisti dal palato fine, molto fine.”
   “Quantifichiamo la finezza. Che genere di documenti?”
   “Gliel’ho appena detto.” Non aggiunse altro, guardò l’orologio; erano le dieci, passate, chiamò Abdel all’interfono:
   “Per favore, il carrello con sopra l’assortimento migliore”. Si alzò, tolse le valigie dal tavolo, tornò a sedersi di fronte a me. Dopo qualche minuto sentimmo bussare. Entrò Abdel, magrissimo, olivastro, i capelli neri come l’antracite, l’aria afflitta, il profilo da cammello. Indossava una giacca bianca attillatissima con otto bottoni metallici color oro. Spingeva un carrello di cristallo e acciaio a due ripiani carico di delizie: un secchiello d’argento con tre bottiglie di champagne in ghiaccio, liquori modello scacciapensieri, pasticceria mignon assortita, sigarette, sigari e accendino, coppe di cristallo e tovaglioli di tela piegati a triangolo.
   “Le offro una coppa di gioia di vivere. Il troppo parlare agevola la sete. Questa è l’ora giusta, migliora la giornata” sentenziò alzandosi. Sollevò le tre bottiglie, mi mostrò la migliore proponendo:
   “Dom Perignon, lo Chopin degli champagne” poi passò la bottiglia al cammello, si rimise a sedere, fece un cenno col capo e quello aprì con professionalità. Versò prima nella sua coppa, poi nella mia. Nell’incavo, tra il pollice e l’indice della mano destra di Abdel vidi un tatuaggio tanto semplice quanto chiaro: tre puntini neri troppo grossi per non essere visti. Li guardai, poi guardai lui memorizzando la sua faccia. Il capo, in perfetto francese, gli disse che non volevamo essere disturbati, telefono compreso. In caso di bisogno l’avrebbe chiamato. Uscì com’era entrato: muto come un pesce in scatola. Non mi piacque lo sguardo sinistro che mi lanciò prima di chiudere la porta, né il risolino infido all’angolo della bocca.
   Il committente si scusò per aver parlato in francese:
   “Il ragazzo ha ancora problemi con la nostra lingua”.
   “Nessun problema” risposi “è una lingua che conosco benissimo.” Prese la coppa alla base dello stelo, disse semplicemente salute, l’alzo fissandomi e, sempre con gli occhi piantati nei miei, sorseggiò quella delizia le cui bollicine evaporavano come  tante speranze deluse. Aspettai che bevesse per primo, poi lo seguii per filo e per segno. Posò il bicchiere al suo posto, pizzico un tovagliolo col quale si tamponò delicatamente la boccuccia. Io lo feci a modo mio; lui era inimitabile.
   Tornò a ripetere il ritornello dell’occasione che cambia la vita, un treno che sfiora l’esistenza di qualcuno una sola volta. Lo ascoltavo in silenzio, immobile, cercando di non tradire la minima emozione. Un milione di euro cambia la vita, eccome! Soprattutto quella di uno squattrinato come me.
   “In quale labirinto sta la valigia?” gli chiesi a bruciapelo.
   “In una grande villa.”
   “All’incirca in quale posto della grande villa?” Scosse la testa dicendo che se all’incirca l’avesse saputo ora sarebbe nella sua collezione, senza all’incirca.
   “Da quanto tempo?”
   “Da un paio di secoli. Conosciamo l’edificio in cui si trova, ma non il posto dove sta nascosta. Trovarla sarà compito suo, con molti lati piacevoli e massima segretezza. Ripeto: massima segretezza.”
   “Non ho ancora accettato. Perché usa il plurale?” Si alzò, mi porse la mia coppa, prese la sua, rispose:
   “Eseguo direttive che piovono dall’alto. Quella valigia non sarà solo mia ma anche di altri. Il contenuto appartiene all’Italia e dall’Italia non potrà uscire. Le ho detto fin troppo: s’accontenti o rinunci”.
   Una lama di luce proveniente da un’alta finestra lo illuminò di sbieco mostrandomelo per quello che era; tutto in lui aveva un’aria sinistra: lo sguardo, i sorrisi, la parlata. Magro, secco, essenziale come un rapace. Pochi attimi di silenzio. Era arrivato al capolinea o fingeva?
   “Vorrei vedere il posto dove dorme il bagaglio” dissi continuando a resistere.
   “Mi segua.” Chiamò l’extracomunitario all’interfono dicendogli di portare il carrello nel suo laboratorio, e m’invitò a seguirlo. Percorremmo un lungo corridoio con le pareti zeppe di manoscritti che accarezzai con lo sguardo.
   “Non teme i ladri?” gli chiesi conscio dell’ingenuità della domanda.
   “Non temo alcun ladro. E mi rifiuto di chiudere la mia collezione in casseforti o barbarità simili” fu la risposta.
   Il ballatoio che portava nel suo laboratorio sfiorava la strada dall’altezza del primo piano. Era protetto da vetri blindati e inferriate con tondini di acciaio inox grandi quanto un manico da scopa. La strada era trafficata,  ma il suo rumore restava fuori. Sui marciapiedi sgambettavano pedoni che ignoravano il tesoro che i loro passi lambivano, i mezzi pubblici ronfavano semivuoti, la giornata era calda, ma all’interno la temperatura era da museo. Notai vicino alle finestre un tipo sulla quarantina, abbronzato e atletico, che osservava l’edificio. Aveva baffi curati, capelli neri all’indietro, occhiali da sole sulla testa, lo sguardo che si vede solo nei film dell’orrore. Lo trovai disgustoso quanto una badilata di letame. Ebbi la sensazione di averlo già visto, ma dove? Ci sono mestieri che si stampano in faccia a certi individui e manco la morte ne cancella le tracce. Era uno di quelli e non era lì a caccia di farfalle. Il ballatoio stava per finire, il committente sette o otto metri avanti, scattai rapido una foto col telefonino.
   Entrammo in una zona che mi parve privata; troppe porte, un corridoio con la passatoia antica e, alla fine, quello che doveva essere un bagno padronale. Qualche metro più avanti, e prima di girare a sinistra, notai un tondo in marmo bianco finemente lavorato. Era un bassorilievo di circa novanta centimetri di diametro nel quale tre lepri si rincorrevano formando un triangolo. No, mi sbagliavo, più triangoli. Ma quanti? Mi fermai a osservarlo cercando di capire. Colui che mi precedeva non gradì, glielo lessi in faccia ma non mi scusai.
   “Mi piace, è curioso ed enigmatico allo stesso tempo” osai appena. La luce diagonale che lo sfiorava accentuava le gradazioni dei chiaroscuri, stimolava pensieri confusi, invogliava a capire. Cos’era mai? Una simbologia riservata a pochi, oppure un’opera da quattro soldi?
   “Anche questo è un capolavoro degno degli altri?” chiesi.
   “È il pezzo che vale meno di tutti. Racchiude una storia lunga e contorta che forse un giorno le racconterò. Venga, la prego” tagliò corto riprendendo a camminare. Strana fretta, pensai. Aspettai che girasse l’angolo, tossii per coprire il rumorino del cellulare e lo fotografai.
   Un attimo dopo ci lasciammo abbracciare da un altro salone delle meraviglie: le pareti traboccavano di manoscritti vestiti con abiti trasparenti confezionati su misura. I pezzi che reputai i migliori si mostravano su colonnine di onice, alabastro, bacheche. Anche qui un grande tavolo su cui potevano pranzare venti persone era posto in fondo con sopra la planimetria di un enorme edificio con giardini e parco immensi.
   Fece il nome di una famosa villa che distava da lì venti minuti di auto, progettata da un noto architetto del Sedicesimo secolo. La pianta, disegnata con riga e squadra, era in scala 1:100. Aggiunse che le misure non erano esatte al centimetro, ma questo non era un problema. Completavano la visione dall’alto dieci ingrandimenti fotografici a colori 20 x 30 scattati dall’aeroplanino noleggiato nel vicino aeroporto.
   “Ecco il luogo dove riposa la terza valigia” sparai deciso.
   “Esatto. Questo disegno ci è costato molto tempo e tanta pazienza. Se accetta dovrà impararselo a memoria.”
   “Non qui e non adesso. Sempre che accetti.” Bussarono.
   “Vado io, meglio non far vedere.” M’incamminai, finsi di telefonare, quando il cammello aprì la porta gli feci la foto convinto che se ne fosse accorto.
   “Grazie, faccio io” dissi prendendogli l’arnese e avviandomi verso il tavolo.
   Quel disegno molto vicino alla realtà mi puzzava. Perché non era esatto? Dovevo saperlo strappandogli i problemi uno alla volta. Ci provai.
   Di mala voglia, e con parecchia nonchalance, aggiunse che era stato ricavato poco alla volta, senza dare nell’occhio. I bombardamenti dell’ultima guerra avevano polverizzato catasto e archivi pubblici; quello della villa era stato spogliato dal comando tedesco installatosi nella sontuosa dimora dal 1942 al marzo del 1945. Gli chiesi:
   “Poco alla volta e senza dare nell’occhio: sono tanto guardinghi i concorrenti?”
   “Preferimmo la massima cautela. Quando il bottino lo si cerca in diversi, meglio non dare nell’occhio.”
   “Un problema in più e non da poco. Sono quantificabili i concorrenti?” Spinse in fuori il labbro inferiore e, sempre con la stessa aria aggiunse:
   “Due o tre illusi, niente di più, gli eterni secondi”. Scivolò via come un’anguilla cominciando a spiegarmi sale e saloni, corridoi e ripostigli, chiesa e biblioteca, piano nobile e ristorante, cantina e uffici. Uno alla volta ma con calma e precisione. Su alcuni locali non accese nessuna luce perché quasi sempre chiusi. Presi gomma e matita dando a ognuno una fisionomia. Mi spiegò con quale pretesto sarei entrato e come avrei dovuto muovermi.
   “S’intende di segnali d’allarme?”
   “Come di scimmie africane” risposi. Non si scompose.
   “Allora si dovrà studiare bene questo materiale. Sempre che accetti.” Guardai il materiale quasi con indifferenza. Era un elegante catalogo che trattava i segnali d’allarme dell’ultima generazione: dal filo insignificante alla centralina spaccacervello.
   “Questa brochure l’avrà sempre con sé assieme ai biglietti da visita col suo nome e i dati della ditta. Se qualcuno si prenderà la briga di telefonare in ditta per controllare riceverà risposte più che esaurienti.” Aveva pensato proprio a tutto dando per scontato il mio sì. Continuò:
   “Qualcuno che conta parecchio, all’interno della villa, vuole un preventivo per una raffinata sorveglianza elettronica che non danneggi le opere d’arte. Operazione forse inutile ma che le darà modo di fare alcuni sopralluoghi. Non troppi, per non destare sospetti”. E anche questo mi calzava come un abito senza pantaloni. Dal giubbino tolsi, e posai sul tavolo, sigarette e accendino; lui capì e disse:
   “Fumi pure, le faccio compagnia. Ma non dimentichi lo champagne, la prego”. Accesi una delle mie Rothmans leggere mentre lui, premuroso come una suora davanti al vescovo, mi avvicinò un portacenere fatto di conchiglie provenienti da chissà quale oceano. Con un piccolo telecomando mise in funzione un silenzioso aspiratore e aprì automaticamente alcune finestre di pochi centimetri.
   “Non dimentica niente?” chiesi soffiando il fumo verso il soffitto memorizzando le diavolerie elettroniche.
   “Non credo” rispose accendendo un toscanello lungo e sottile quanto una matita “tranne la seconda parte che vedremo tra poco.” Mi chiesi se era troppo furbo e se mi riteneva uno sprovveduto.
   “Io credo invece che dimentichi qualcosa di molto importante”  mi ostinai battendo la sigaretta sulla conchiglia. E siccome astutamente taceva completai la frase:
   “La lettera di richiesta con la quale presentarsi come tecnico  del segnale d’allarme. La mia faccia non apre tutte le porte”. Rimase un attimo immobile, poi finse di colpirsi la fronte col palmo della mano. Aprì un cassetto del tavolo e tolse una busta trasparente. Conteneva la richiesta di preventivo già preparata. La scorsi per intero, arrivai alla fine:
   “È firmata da un italiano… lei, e diretta a un inglese” precisai posandola sulla pianta della villa.
    “È un signore che appartiene al Consiglio di amministrazione, avrà modo di conoscerlo. Ora il lato piacevole a cui le avevo accennato.” Sorseggiò un po’ di gioia di vivere, tirò un paio di boccate dal toscanello.
   “In villa girano signorotti, signorotte e signorine che amano godersi i piaceri del ristorante, dei salotti, dei giochi e dell’amore nella massima discrezione. Sanno della valigia e, a modo loro, s’illudono di trovarla. La massima discrezione è categorica.”
   “Vuol dire i piaceri del sesso?” Si passò una mano sulla fronte come ad ammettere l’imprecisione.
   “Piaceri del sesso è più preciso. Se qualcuna, signorina o signora, la adocchiasse, lei sarà pregato di assecondarla: è giovane, bello e la sua ‘durezza’ è fuori discussione.” Fui tentato di strozzarlo, ma la tentazione del milione di euro fu più forte.
   “Quest’attività di prostituto abusivo mi avvantaggerebbe? Voglio dire ai fini del ritrovamento?”
   “È probabile. Entrerebbe in villa più volte, potrebbe carpire informazioni alla signora a cui è piaciuto, e chi più fantasia ha più ne metta. Però la prego, non usi paroloni spropositati. Seduttore va benissimo, le pare?”
   “Non mi pare, ma mi adeguo. Ammesso che accetti” precisai un’altra volta. I dettagli su questa parte della missione e sui sopralluoghi per il segnale d’allarme me li avrebbe spiegati una signora dall’accesso facile il cui nome, Ellen Richter, stava scritto in rilievo finto oro su un elegante biglietto da visita.
   Seguì uno strano silenzio durante il quale vuotammo le coppe di champagne. Quest’uomo e io non saremmo mai andati d’accordo, ma avremmo sempre finto il contrario.
   “Aspetto la sua risposta; quella che le cambierà la vita” disse riempiendo le coppe.
   Mi alzai in piedi come lui, feci qualche passo, mi guardai attorno. “Il suo capo mi ha detto che è il migliore, è entrato e uscito da situazioni impossibili per altri.”
   “Ha esagerato. Ci sono tantissime cose che non so fare” risposi modesto.
   “Per esempio?”
   “Per esempio, non saprei schiaffeggiare una farfalla.” La battuta gli piacque e l’onorò con una bella risata.
   “Le sue allegre battute mi dicono che andremo d’accordo” m’incoraggiò con allegria. Io restai convinto del contrario. Ma non glielo dissi.
   “Fare il tiramolla non mi piace. Troppi lati oscuri, spazi sconfinati, troppe cose che non mi convincono” dissi deciso scuotendo la testa.
   “Li elenchi.”
   “L’enormità dell’ambiente, i concorrenti senza volto, i problemi di movimento nella villa, il fatto che molti l’hanno cercata inutilmente per chissà quanto tempo.” Mosse qualche passo guardando fuori. Disse dandomi le spalle:
   “Mi delude”.
   “Non è il primo.” Si voltò rivolgendomi uno sguardo risentito.
   “Non è vero. Lei è l’unico che ha risolto tutti gli incarichi che ha accettato. Il suo capo la ritiene un unicum, compreso il miglior infiltrato che è il massimo. Ora parla come i professionisti a metà prezzo.” Mi stava provocando e ci riusciva benissimo. Andò dall’altra parte del tavolo, aprì un cassetto, sfilò una mazzetta di banconote da cinquanta euro, la mise sul tavolo dicendo:
   “Non ha ancora detto sì ma neanche no. Questi sono venticinque mila euro per le spese iniziali. Se accetta sono sue”. Sapeva lanciare l’amo al momento giusto. Quella mazzetta da venticinque mila euro pronta subito, e le altre quaranta mazzette alla fine furono una tentazione a cui non seppi resistere. Davanti alla mela di Eva anche Adamo cedette.
   “Accetto” risposi senza toccare i soldi. Tornò dalla mia parte, si avvicinò porgendomi la mano. Seguì una forte stretta e non mollò finché non ebbe aggiunto:
   “So che lei è uomo di parola. Ora l’aereo è decollato, lei ci è salito sopra e non c’è paracadute per abbandonarlo. Chiaro?”
   “Chiarissimo. Avrà la valigia numero tre.”
   “Lo ripeta” pretese con forza.
   “Avrà la valigia. È una promessa.” Lo dissi con tale convinzione che lo vidi rilassarsi e trasformarsi come dopo un orgasmo. Prese le banconote, me le mostrò e, infilandomele nella tasca del giubbino precisò:
   “Questo acconto non c’entra col saldo. Lo consideri un regalo”.
   “Ne ero certo” risposi. Sollevò le due coppe, mi offrì la mia.
   “Al ritrovamento della valigia” disse alzandola e continuando a fissarmi.
   “Al ritrovamento della valigia” rimandai. Dopo due sorsi provai ad appoggiarla sul carrello ma me lo impedì.
   “È un brindisi troppo importante; le coppe vanno vuotate.” Le vuotammo. Voltò pagina mettendo i puntini sugli i.
   “Lei è troppo sicuro, io troppo preciso. Quindi patti chiari” stabilì puntandomi l’indice. “Niente valigia, niente soldi. Rimborso spese documentato. Chiaro?”
   “Chiarissimo. Questa missione ha una scadenza?” replicai puntandogli il mio indice.
   “No. Però attenzione: più sarà lunga più diventerà difficile. La concorrenza non dorme.”
   “Infatti la concorrenza mi ha già incollato gli occhi addosso.” Un’espressione di sorpresa gli si stampò sul volto.
   “Ne è sicuro?”
   “Sicurissimo. Ma questo è un problema mio.” Ripiegò la pianta della villa, c’infilò dentro le fotografie, ci posò sopra il faldone del segnale d’allarme, mise tutto sottobraccio, mi pregò di seguirlo imboccando un altro percorso.
   Dopo un ventina di metri mi bloccai davanti a una porta di bronzo patinato di Arnaldo Pomodoro; artista che ha sempre fatto vibrare le mie corde più profonde. Lui, avanti qualche passo, si fermò, mi tornò di fianco.
   “Le piace?”
   “Più di miss Universo” bisbigliai continuando a percorrerla con sguardo incantato.
   “Posso accarezzarla a mani nude o devo infilare i guanti?”
   “Le concedo il piacere delle mani nude.”
   Mi avvicinai, ci posai sopra i palmi percorrendo quelle geometrie i cui bagliori s’inseguivano creando infinite zone d’ombra. C’erano tanti spilli e tantissime frecce. Se guardando quella porta ci si sentiva graffiare lo sguardo, al tocco delle mani tutto era liscio e scorrevole come le tre semisfere che emergevano dalla massa con la loro perfezione.
   “M’interessa il suo giudizio” pretese il committente dando le spalle alla porta e fissandomi curioso.
   “C’è più ordine in questo apparente caos che in tutto l’universo” bisbigliai in modo un po’ avventato ma condizionato dall’emozione. “Mi affascina questa moderna interpretazione della freccia; dalla preistoria alla contemporaneità: un salto di venticinquemila anni.”
   “Complimenti, un bel giudizio. Apprezzo la sua considerazione sulla freccia” s’inorgoglì.
   “Prima lei ha detto che rifiuta il moderno.”
   “L’ho detto ed è vero. Ma un’eccezione non contravviene alla regola.” Mi concessi ancora qualche minuto di contemplazione.
   “Chissà cosa si cela dietro a una porta tanto preziosa. Non sono affari miei, quindi procediamo.” Ci muovemmo inseguendo il suo ambiguo sorriso.
    Ritornammo davanti alle tre valigie che sistemò sul tavolo come prima. Mi diede una stilografica e un foglietto chiedendomi di scrivere.
   “Questo è il numero di un mio telefonino particolare. Mi chiami sempre e solamente a questo numero. Se è spento lasci detto alla segreteria. Lo memorizzi e bruci il biglietto. Spero di rivederla presto con buone notizie.” Lessi e memorizzai il numero, gli resi la stilografica e il foglio bianco come l’avevo ricevuto. Mi fece cenno di aspettare un attimo. Aprì un altro telefonino, compose un numero, attese un attimo.
   “Ellen? Guten Tag, sono io.” Attimi di silenzio. Più che un saluto mi parve un segnale convenzionale. “Quando puoi ricevere un mio caro amico?” Altra breve pausa. Rispose per monosillabi, in italiano e in tedesco.
   “È molto più di un amico, intendi?” Quella intese, eccome. Chiuse la comunicazione, si rivolse a me informandomi:
   “Dopodomani, giovedì 29 ore 9. Sul biglietto che le ho dato c’è tutto. Spero di rivederla presto” concluse felice.
   “D’ora in poi potrà rivedermi in ogni momento” gli sorrisi alzando l’indice.
   “Si spieghi meglio.”
   “Tutto ciò che abbiamo detto e fatto è stato filmato dalle sue diavolerie elettroniche. E lei non lo cancellerà.” Sorrise controllando il materiale sul tavolo.
   “Le mie diavolerie elettroniche sono in funzione ventiquattro ore al giorno: per lei, per me, per tutti coloro che entrano nel mio regno. Anche lei ha scattato tre fotografie sperando di non essere visto.”
   Dopo tre sigarette, due bottiglie di champagne e tanta ipocrisia arrivammo a mezzogiorno. Mi offrì l’extracomunitario per portare il materiale in macchina.
   “Nient’affatto, mi basta un sacchetto da supermercato.” Fui accontentato. C’infilai dentro tutto e ci dirigemmo all’uscita.
   Davanti alla porta rispettammo le regole dei saluti: auguri, strette di mano, sorriseti falsi come le menzogne. La porta blindata si chiuse alle mie spalle, e una nuova porta che non prometteva nulla di buono, tranne il milione di euro, l’avevo appena aperta io.
   Era da poco passato mezzogiorno, la giornata era bella e trasparente, il traffico agitato. Un impiastro aveva parcheggiato in doppia fila bloccandomi. Misi la borsa nel bagagliaio, presi un vecchio giornale, praticai un foro grande quanto un euro nella pagina ci poggiai contro il telefonino. Mi misi l’auricolare fingendo di telefonare. Colui che ritenni un inseguitore mi stava a una decina di metri, lo raggiunsi, lo feci voltare chiedendogli se l’auto che mi bloccava era sua. Mi guardò con disprezzo senza rispondere, senza muovere un muscolo, senza niente di umano. Me ne sbattei altamente; tanto la foto gliel’avevo fatta. Salii in macchina e strombazzai fin quando l’impiastro arrivò di corsa dal bar.
   Da sotto il sedile presi la piccola fotocamera digitale, girai attorno alla vecchia fabbrica trasformata in museo, scattai una ventina di foto. Non sapevo cosa cercavo; volevo solo vederla bene e per intero. L’aveva sistemata come meglio non si poteva: chiuso i vecchi portoni di cui s’intravvedeva l’impronta, aperto molte finestre all’altezza del primo piano, tinteggiata con un giallino delicatissimo e una tinta cenere leggerissima. Le inferriate, i segnali d’allarme e le videocamere di sorveglianza si sprecavano. Non vedevo lui, ma ero certo che lui vedeva me.



   Un quarto d’ora dopo ero davanti a casa mia. Portai sopra il materiale che chiusi nello sgabuzzino blindato e scesi da Plimpo per calmare i reclami della mia pancia. Plimpo era l’amico del mangia, bevi e paga. Gestiva un bar che faceva buoni caffè per merito mio e dei miei reclami, aveva la testa rotonda come un pallone numero cinque, pochi capelli incollati sulla cotenna, due borse sotto gli occhi simili a due banane. Per gli amici cucinava qualcosa nel retro aiutato dalla moglie di notevoli capacità culinarie e grosse curve pneumatiche. Un paio di disgrazie lo avevano reso triste. Rideva tre volte all’anno: a Natale coi parenti, a Pasqua con gli amici, a Ferragosto assieme alle Dolomiti.
   “Vuoi un piatto di spaghetti da medaglia d’oro o una fetta di carne modello campione del mondo?” mi chiese guardando l’orologio prossimo all’una.
   “Dovrei staccarti un assegno, ma il mio conto in banca è rosso come il tuo vino.”
   “Racconti balle talmente bene che paiono vere” borbottò mentre puliva l’affettatrice inclinata.
   “Due tramezzini da campo nomadi e un bicchiere di quel rosso che nascondi in quella lurida cantina che chiami cassaforte.” Mi mise davanti il vassoio dei tramezzini, scelsi i due meno appassiti e sorseggiai il vino che era andato a prendere nel retro dei misteri. Quando posai il bicchiere mi guardò in attesa del giudizio.
   “Questo vino non è da cassaforte ma da cassadebole” reclamai.
   “Allora va benissimo” mi liquidò. Pagai alla moglie che, diversamente da lui, sapeva ancora sorridere.



   A casa meditai sul patrimonio che i miei occhi avevano ammirato, incapace di quantificare una cifra che era da capogiro. Chi troppo e chi niente. Conoscevo un sacco di gente che faticava a collezionare la spesa per campare dignitosamente; ma così è la vita. Io stesso diverse volte mi ero ritrovato senza un soldo, e questo lo capivo essendo un giovane dalle mani bucate e la testa piena di voglie. Le autogiustificazioni non mi mancavano.
   Rinunciai ai sentimentalismi concentrandomi sul lavoro. Passai le foto nel computer: il tondo con le tre lepri, il domestico extracomunitario, la fabbrica museo vista dal di fuori e l’inseguitore. Con Photoshop eliminai i fronzoli, ingrandii le immagini, stampai due copie per ogni soggetto in formato A4 su carta fotografica. Il risultato fu più che soddisfacente.
   Tirai le prime conclusioni: il bassorilievo con le tre lepri conteneva un significato che mi sfuggiva e assillava al contempo. Uno stimolo segreto mi suggeriva di non sottovalutarlo. Il domestico col tatuaggio minaccioso mi lanciava un messaggio? Può darsi. A preoccuparmi era l’inseguitore sulla mia scia prima d’iniziare la missione. Più lo guardavo meno mi piaceva. Ebbi l’impressione che anche il computer non gradisse qual ghigno che era meglio perdere che trovare. Infatti durante la sua elaborazione si piantò due volte. Pazienza; incerti del mestiere. Al momento giusto lo avrei sistemato. Nel mio lavoro gli amici si scelgono, i nemici si eliminano.
   Ci aggiunsi la foto del committente fregata al mio capo. Sentii che quel feticista mi aveva raccontato parecchie balle e taciuto molte verità. Sensazioni spesse e dure come una lastra di marmo. Presi una cartella con l’elastico, c’infilai dentro soldi, carte e fotografie, in copertina scrissi: “Martedì 27 Giugno” e la chiusi dietro la blindata dello sgabuzzino.
   Il palazzone in cui abitavo era un vecchio alveare a cinque piani col cortile interno tipo cavedio. Se non tiravi le tende ti entravano in casa gli sguardi curiosi da tre lati. La mia tana era un appartamentino al quarto piano di due stanze e mezza, più i servizi, ereditato dai miei. L’ascensore era un sogno, la tranquillità un’illusione, la periferia malavitosa una realtà. Conoscevo bene solo due coniugi al piano di sopra: lui pompiere appena andato in pensione, lei casalinga tutto fare con parecchie ore in nero sulle spalle. Quando avevo bisogno correva: puliva, lavava e stirava a dieci euro all’ora.
   Le altre facce dal saluto muto e frettoloso le incontravo sulle scale avendo sincronizzato l’orologio sulle reciproche pretese della vita. Il piano che più gradivo era il terzo dal quale usciva parecchia musica sempre di qualità. Nei piani bassi due famiglie, una di “terroni” l’altra di “polentoni”, non conoscevano armistizio. D’estate le finestre aperte accendevano battaglie divertentissime.
   Mi tolsi tutto di dosso, infilai i pantaloncini corti, uscii sul balconcino a fumarmi una sigaretta. Quattro giovincelli, giù in cortile, discutevano sui propri telefonini. Un bambino piangeva a squarciagola la propria infelicità, due coniugi con parlata napoletana urlavano quanto il piccolo. Sparavano parole grosse e puzzolenti come latrine. Succedeva sovente, e sempre al tramonto. Da una finestra del secondo piano una voce baritonale urlò:
   “Ammazzala e falla finita”. Dal piano di sopra s’aggiunse un alleato:
   “Bravo… auguri e condoglianze”.
   “Ora basta… smettetela!” fu l’urlo del duro da condominio. E silenzio fu. Una scheggia di vita in una scatola di cemento. Questo minestrone condominiale si trascinava da un paio d’anni. Rientrai sorridendo, chiusi le imposte per imprigionare Schubert e il suo miele, spensi la cicca, smontai e rimontai il pistolone del committente. Matricola abrasa, solo nove colpi, troppo famosa e troppo pesante per i miei gusti.
   M’infilai sotto la doccia accarezzato dall’Incompiuta di Schubert pensando che avevo accettato un incarico più contorto e complicato di una bomba a orologeria. Sorrisi convinto che questo era il bello di certe schifezze. Finii assieme a Schubert, infilai l’artiglieria nella cintura, la coprii col giubbino e scesi a farmi una pizza.




















2
         
Una donna molto pericolosa









   Il giovedì mattina, con un’ora di anticipo, andai all’indirizzo della signora Ellen Richter. Il palazzo che potei ammirare in tutta la sua svolazzante eleganza era un bellissimo esempio di liberty. Aveva quattro piani e l’isola verde che lo avvolgeva ne esaltava e impreziosiva la leggiadria. Lo stato di conservazione mi parve perfetto e imponeva la sua bellezza tra il nucleo antico della città e le bruttezze periferiche post belliche. Due veneri callipigie, in cemento bianco e polvere di marmo, sormontavano il portone d’ingresso. I moderni citofoni sostituivano la vecchia portineria.
   Le due statue tenevano gli occhi chiusi, come in stato di estasi, i fiori in una mano, nell’altra lembi di abiti mossi da un vento invisibile. Quella di sinistra mostrava seni nudi e perfetti, quella di destra esibiva tutta la schiena e parte delle natiche con poco pudore.
   C’ero passato davanti parecchie volte ma ora, e per la prima volta, guardai con gli occhi giusti le decorazioni dei balconi, delle finestre e del sottotetto. Un gioiello del passato per la gioia del presente. Quattro grandi macchie di rose a cespuglio bianche e rosse spiccavano tra il verde delle aiuole. C’erano panchine per la sosta, cestini per l’immondizia, tubi di gomma per l’innaffiamento automatico. Il traffico caotico e puzzolente lambiva a duecento metri la piccola oasi.
   Me lo gustai girandoci attorno con la fotocamera digitale, scattai una decina di foto, decisi di entrare. Mi piazzai davanti all’ingresso, finsi di fotografare i fiori e appena uscì un giovincello fermai il portone ed entrai. Salii lentamente i quattro piani leggendo tutte le targhette: ufficio di un notaio, due avvocati, due medici, un paio di società. Incontrai una coppia di anziani molto educati che mi guardarono come un corpo estraneo, un giovanotto sgambettante con borsa di pelle scese le scale di corsa. Da quella che mi parve un’abitazione privata mise fuori la testa un vecchietto color cuoio; mi regalò un sorrisetto stanco e sparì.
   Scesi al piano terra e, sempre fingendomi uno del palazzo, rimasi a gustarmi l’ingresso. C’erano piante verdi da interni perfettamente spolverate, vetri colorati che inneggiavano alla bellezza femminile, una ringhiera in ferro battuto che ripeteva all’infinito la foglia di vite. Un faccione di marmo urlava il suo incomprensibile dolore: un noto tormento tardo gotico di Adolfo Wildt. Lo trovai di ottima fattura, ma troppo triste.
   Portai la fotocamera in macchina guardandomi alle spalle. Sul vialetto dei tigli sostavano pensionati col giornale, due extracomunitarie coi passeggini. Due pincerini tascabili portavano a spasso un’anziana signora che gli parlava come se fossero  nipotini al guinzaglio.
   Nonostante il cielo imbronciato il fine giugno si manteneva ostinatamente caldo. La mattina si era alzato un debole vento; giravano lontani un paio di temporali senza meta, la pioggia restava una necessità inappagata.
   Alle nove esatte pigiai il campanello, dissi chi ero in un orecchio di bronzo grande quanto quello di un bue, scattò il portone, infilai i quattro piani saltellando.
   Dietro il pancione che mi aprì la porta blindata comparve un domestico enorme col faccione da giraffa, il sorrisetto falso come Giuda, l’età del pensionato in nero e una professionalità quasi british. Mi guardò con la diffidenza riservata ai venditori di tappeti capitati nel momento sbagliato.
   Mi presentai mostrandogli il biglietto della signora Ellen e il mio. Li guardò entrambi davanti, poi dietro. Aveva i riflessi a effetto ritardato. Vistolo in surplace aggiunsi:
   “Se non bastano ne ho un’altra mezza dozzina”.
   “Grazie, bastano, s’accomodi pure” sbuffò indicandomi due poltroncine avvolgenti in ebano e cuoio. Finsi di sedermi ma rimasi in piedi. Un dipinto moderno, di almeno un metro e mezzo di lato, attirò la mia attenzione: un’intera città bruciava come torcia alimentata dal vento. Le mura antiche richiamavano La Bibbia, Omero, Sodoma e Gomorra, guerra e sangue. Sopra le fiamme una donna bellissima sorrideva a braccia larghe incurante del fuoco. Perlustrai il vestibolo in cui ero parcheggiato, molto attentamente: dal tappeto caucasico al lampadario di Murano, dalla tappezzeria ai mobili, pavimento compreso. Niente male. Avevo a che fare con gente facoltosa le cui case dicevano parecchio e, forse, nascondevano molto. Notai subito alcuni particolari interessanti.
   La donna che mi porse la mano, avvolta in una vestaglia da camera rosso pompeiano, mi regalò un sorriso esagerato presentandosi come Ellen. Navigava verso la quarantina, era bella e provocante, lo sguardo vispo, l’aria sensuale. A dieci metri di distanza era una gran gnocca, a due metri molto meno.  La mantenevano levigata alcuni lifting. Dieci anni prima sarebbe stata da capogiro.  Rimaneva un bel fiore che, nonostante i petali appassiti, conservava un’invidiabile corolla. Si scusò per non aver avuto il tempo di vestirsi, non voleva farmi aspettare. Mentiva ma finsi di crederle. Le unghie di mani e piedi erano perfettamente  dipinte di rosa pallido.
   Senza mollarmi la mano mi precedette in salotto dove mi fece accomodare su una poltrona di stoffa color limone mentre lei si abbandonava sul divano di fronte. Mi scrutò da capo a piedi con l’intensità di chi ti prende le misure senza spegnere il sorriso.
    Io osservai l’ambiente arredato con mobili che nulla avevano a che fare col liberty del palazzo. Il tappeto moderno su cui posavo i piedi era talmente spesso che se mi fossero cadute le chiavi sarei dovuto ricorrere al metal detector.  Tre grandi litografie floreali rallegravano le pareti, un vaso di sterlizie prendeva luce su un tavolino trasparente vicino alla portafinestra che s’affacciava sul balcone, un altro enorme e scialbo tappeto persiano occupava la parte libera del locale. Di fronte alla finestra s’imponeva una vetrina-libreria ad arco in palissandro.
   Con gentilezza provò a insistere per avere il mio leggerissimo giubbino. Con altrettanta cortesia rifiutai. Ci tengo sempre troppe cose per mollarlo in un’altra stanza. Cominciò l’interrogatorio nel modo peggiore.
   “Complimenti, sei talmente bello che sembri una donna.”
   “Mi hanno fatto così senza chiedermi il permesso.” Alzò le sopracciglia, inclinò il capo, sorrise alla tedesca.
   “Bene… siamo soli. Possiamo parlare liberamente” propose facendo schioccare la lingua.
   “Parliamo pure liberamente, ma non siamo soli” precisai.
   “Non capisco” rimandò inclinando la testolina.
   Gentilmente, le gambe accavallate, le mani aperte. Provai a spiegarglielo:
   “C’è il giraffone che gira per casa, una micro cinepresa in tutti i lampadari, il microfono del videoregistratore acceso, un uomo con suole di gomma sta nascosto in qualche armadio, un cane modello tritacarne finge di dormire, suppongo. sul balcone. Non siamo soli, ma in un appartamento molto trafficato”. Ebbe un attimo di smarrimento.
   “Bravo, non ti sfugge niente.”
   “A te sfuggono invece tanti bei sorrisi.”
   “Nessuno ti ha autorizzato a darmi del tu” disse facendosi seria.
   “Io do del tu a tutti coloro che non mi danno del lei” contraccambiai. Incassò con una lieve smorfia di traverso. Spiegò che il palazzo era stato più volte visitato dai ladri e la tecnologia serviva a combatterli. La solita storia che finsi di credere. Chiamò il domestico di nome Marcello, mi chiese cosa gradivo.
   “Aranciata amara, se possibile.”
   “Preceduta da un caffè con tre gocce di grappa?” aggiunse maliziosa. Rifiutai il caffè. Marcello lo preparò per lei, portò l’aranciata amara in una bottiglia sigillata, ascoltò immobile gli ordini della signora:
   “Spegni tutta l’elettronica, porta a spasso il cane, sii di ritorno a mezzogiorno”. Qualche minuto dopo il giraffone passò con la belva al guinzaglio diretto verso il caldo esterno. Il tritacarne era un doberman bellissimo che pareva uscito da una fabbrica di lucido nero. Al collarino di pelle rossa era fissata una targhetta con nome, cognome, indirizzo e telefono. Non lo vidi, ma immaginai che avesse pure l’indirizzo di posta elettronica. Marcello salutò la signora con un inchino di due centimetri, mi regalò una specie di smorfia e sparì.
   La donna riprese a studiarmi col microscopio del suo sguardo. Qualche mio atteggiamento lo detestava, ma al tempo stesso le piacevo. Me lo bisbigliava il mio istinto, quello che non m’ingannò mai. La riga al centro della testa le divideva perfettamente i capelli rosso rame che la luce della portafinestra accendeva di finissimi bagliori. Le scendevano sulle spalle sfiorando gli zigomi. Era donna di razza rara; primo desiderio di un giovane amante delle esperienze forti, o l’ultimo sfizio di un vecchio libertino. Mi chiese:
   “Età?”
   “Trent’anni appena compiuti.”
   “Troppi per certe cose, troppo pochi per altre.”
   “Sufficienti per tutto, vedrai.” Dalla tasca della vestaglia sfilò un pacchetto di sigarette, lo aprì portandolo direttamente alle labbra. Prima che trovasse il suo accendino gliel’avevo già accesa e posizionato il  portacenere.   
   “Professione?” chiese soffiando il fumo sopra la mia testa.
   “Da oggi inesperto venditore di segnali d’allarme. Da sempre fotografo.”
   “Un bravo fotografo, immagino.”
   “Bravo? No, bravissimo.”
   “Chi lo dice?”
   “Io mai. I miei clienti quasi sempre.” Aveva lasciato sul tappeto gli infradito, alzato le gambe sul divano mostrando le cosce bianche, lisce e calde come la besciamella con sotto la fiamma. Fu un chiaro invito ad ammirarla in profondità ma io, di proposito, puntai il mobile che conteneva un curioso oggetto.
   “Come fa un fotografo a trattare affari col dottor Magistrali?” finse di dire tanto per dire. Cosa le avesse detto il committente mi fu difficile immaginarlo. Forse tutto, o quasi. Tamponai.
   “Semplice: vuole delle belle foto della villa per studiare dove posizionare i sensori dell’allarme. Io gliele faccio, lui mi paga.”
   “Dovrei crederti?”
   “Nient’affatto” continuai a provocarla. Si mosse astutamente sul divano; non mi ero sbagliato, era completamente nuda: nude mani e polsi, collo e orecchie. Nessun luccichio dorato. Di proposito presi in mano il bicchiere con l’aranciata amara, ne ingollai un sorso, lo posai, finsi di studiare la bottiglia.
   “Non ti piace?” mi chiese fingendosi dispiaciuta.
   “Mi piace; è la migliore. L’allungo sempre con ghiaccio.”
   “Nel mio frigo ho più ghiaccio che ambizioni” disse sbalordendomi. Mi alzai col bicchiere in mano.
   “Posso prenderlo io senza scomodarti?”
   Mi disse che il ghiaccio stava nel frigo, che il frigo stava in cucina, che la cucina stava alla fine del reparto giorno. Ci andai subito guardando dovunque. Dal frigo presi una vaschetta di ghiaccio i cui cubetti spinsi in una tazzina, dall’armadio un piccolo bicchiere e il limoncello. Tornai da lei, le offrii il digestivo che rifiutò, aggiunsi ghiaccio nel mio bicchiere, le chiesi il permesso di andare in bagno. Acconsentì con un lievissimo cenno del capo.
   Appena dentro aprii l’acqua e l’armadietto a specchi, poi quello di legno. Il rivestimento era fatto di piastrelline gialle come l’oro e caldo come una stufa accesa. Il giallo, il mio colore preferito. Vidi asciugamani puliti, creme di bellezza, dentifrici in un bicchiere, rossetti per le labbra, pennelli per il trucco, profumi in quantità e due pettini con diversi capelli. Mi piacque tantissimo il rivestimento di piastrelline gialle alte fino a due metri. Guardai nella prima camera da letto; tutto era immobile, nell’altra un cuore pulsava avvolto nel lenzuolo. L’odore di un corpo in una stanza chiusa, d’estate, non poteva sfuggirmi.
   Appena le fui davanti mi chiese:
   “Visto tutto?”
   “Visto niente” risposi mettendole in mano il limoncello ghiacciato. Prima di accettarlo il suo sguardo mi ripassò dai piedi alla testa e ritorno.
   “Perché dovrei bere questa roba ghiacciata alle dieci di mattina?” cincischiò.
   “Perché hai fatto la doccia alle otto, colazione alle otto e mezzo con toast, ti sei dipinta le unghie e il limoncello lo bevi a canna per agevolare la digestione.” Non pensai di sbalordirla; le tracce che avevo letto erano da dilettante.
   “Hai i capelli lunghi, le idee corte, ma lo sguardo sveglio. Bravo” mi regalò il contentino. Presi il bicchiere di aranciata e andai davanti alla vetrina-libreria. 
   L’arco conteneva un centinaio di libri posati senza un ordine preciso, i quattro ripiani di cristallo reggevano bicchieri pregiati, piccola argenteria, statuine di onice, alcuni coralli e una curiosa ceramica. Le chiesi il permesso di prenderla, alzò le spalle, girai la chiave, la presi e la posai sul tavolino.
   “Ti piace?”
   “La trovo curiosa.”
   “Spiacente, ma non la cedo. I ricordi non sono in vendita.”
   “I ricordi sono sempre infarciti di malinconia” rimandai “trovo curiosa la corsa di tre lepri e le geometrie che formano. Il significato mi resta oscuro ma tu puoi illuminarlo.”
   “Sei curioso come una servetta zitella” mi accusò con una leggera smorfia. Incassai come se niente fosse. Versai aranciata nel mio bicchiere e digestivo nel suo.
   “Più che un fotografo sembri un cameriere” mi provocò.
   “Giusto. Servo sempre pasto completo: dall’antipasto al limoncello.” Prese la ceramica, la ripose dicendo:
   “Racchiude una storia lunga e contorta che un giorno, forse, ti racconterò”. Andò alla finestra, tirò le tende trasparenti per attutire la luce del sole. Era alta un metro e settanta abbondanti, bianca come l’avorio, nelle iridi paglierine spiccavano due pupille simili a bottoni di velluto scuro, la chioma color rame era esagerata e s’arrestava morbidamente sulle spalle. Non lo dava a vedere, ma era sveglia come un‘aquila, bella e pericolosa. Riprese coi suoi sorrisi pieni di sottintesi.
   Parlava inumidendosi le labbra con la punta della lingua che saettava come un serpentello sul profilo carnoso. Muoveva spesso le gambe mostrandomi più del necessario. Lo interpretai come un segnale, un invito al cedimento. Forse, abituata a maschi sottomessi, la mia sicurezza un po’ troppo ostentata la irritava. Provò a ricordarmelo:
   “Ti trovo egocentrico e nient’affatto indispensabile. Potrei sostituirti domani” disse con un pizzico di cattiveria.
   “Con uno peggiore. Per farne cosa?” Si alzò di scatto, la vestaglia si aprì, era nuda. Pochi attimi ma sufficienti a mostrarmi le forme ancora lisce e ben restaurate. Una bella statua senz’anima; bella e pericolosa.
   “Sei qui perché raccomandato dall’alto” disse con aria sprezzante.
   “Sono qui per svolgere un lavoro. Chi mi ha raccomandato, come tu dici, lo sa.” Invece di rispondermi se ne andò in bagno. Tornai alla portafinestra, a vedere il giardino giù in basso, il profilo dei tetti con la sterpaglia metallica delle antenne, una coppia di piccioni troppo grassi sulla grondaia.
   Ritornò con l’alito alla menta, il profumo di violetta, la chioma ben pettinata. Il preludio era durato oltre mezz’ora, ci avevamo presi le misure, bisognava concludere.
   “Dopo tante virgole veniamo al punto” pretesi.
   “Il punto è che là dentro ti dovrai muovere con molta circospezione.” Era tedesca ma parlava un italiano perfetto e colto. “Entrerai per stilare un preventivo d’allarme che non dovrà danneggiare gli affreschi.”
   “Volta pagina, questa la conosco a memoria” pretesi con un sorriso per non irritarla oltre.
   “L’ambiente è molto riservato, nessuno parla a vanvera. Ci girano vedove, separate, e nubili che  amano divertirsi senza occhi indiscreti addosso. Rendo l’idea?”
   “La rendi benissimo. Continua.”
   “Qualcuna di queste potrebbe desiderare il piacere della tua compagnia. Magari anche solo per chiacchierare.”
   “Ho smesso di credere a Babbo Natale.”
   “Qualcun’atra, troppo prudente, potrebbe pretendere di non essere vista.”
   “Lei vedrà me, ma io non vedrò lei. È così? L’amore è cieco” puntualizzai. Invece di rispondermi andò alla vetrina-libreria, girò la chiave e da un cassetto sfilò un mazzo di foto e una fascia elastica scura spessa un centimetro. S’inginocchiò davanti al tavolino coi due meloni bene in vista. Mise una decina di foto a destra, altrettante a sinistra, la fascia elastica sotto il mio naso. Notai subito la qualità mediocre delle immagini. Ponendo la mano sulle foto alla sua destra confermò delusa:
   “Questi sono i capponi della tua generazione.”
   “Quelli sono i galli con cresta, attributi e chicchiricchì” aggiunsi puntando l’indice sull’altro mazzo. Rispose:
   “I primi sono un esercito, i secondi una rarità”.
   “I gladiatori sono razza estinta da duemila anni. Ogni secolo ha i suoi prodotti e sottoprodotti” le rammentai. Se la stava prendendo comoda; girava, girava, girava senza arrivare al punto. La vestaglia mezz’aperta mi regalò due tette candide e profumate che mi parvero appena revisionate. Continuò:
   “Ci sono giovani che nascono vecchi, e alcuni vecchi capaci di restare giovani. Pochissime le aquile, molti i passeri. È vero; sono scomparsi i gladiatori e anche i tori.” Cominciava a stufarmi. Le offrii una sigaretta delle mie, la guardò quasi con disprezzo mugugnando:
   “Roba da ragazzine”. Accesi, mi presi il pacchetto e glielo piazzai sotto il naso.
   “Leggi: il fumo uccide. Se ho ancora il cervello sveglio e i muscoli scattanti è anche perché fumo poco e leggero”. Accese una delle sue, io tirai un paio di boccate poi aggiunsi: “Ora chiudiamo lo zoo: basta passeri e aquile, tori e capponi. Quei giovani frequentano la villa e rallegrano le signore. Se capiterà mi ci adatterò. Là dentro c’è un addetto alle pubbliche penetrazioni?”
   “Domani lo conoscerai. Serviranno alcune tue foto. Sei fotografo, vero?”
   “Le avrai, migliori di queste.”
   “Servirà anche una carta del tuo medico che certifica il tuo stato di salute. Dovrà essere ottimo.”
   “Avrai anche quella.” Passò ai dettagli snocciolandomi una sequela di raccomandazioni. Curiosità: la signora non avrebbe mai detto il proprio nome ma quello di un fiore. Mai baciarle sulle labbra se non espressamente richiesto.
   “Il bacio sulle labbra” ripeté “è per gli innamorati. Tu non sarai amato da nessuna di loro; sarai solo un mezzo per raggiungere un fine. E silenzio assoluto. Capisci?”
   “Capisco quello che dici e soprattutto quello che taci” rimandai deciso.
   Misi la mano nella tasca del giubbino e feci suonare il telefonino. Le chiesi scusa, mi alzai, le misi in mano il bicchiere distraendola quell’attimo sufficiente a fotografarla. Spensi senza rispondere.
   “Il tuo compenso sarà di cento euro a prestazione, anche se si ridurrà a un semplice colloquio” precisò.
   “Bravi, a me il grissino a voi la baguette.”
   “I grissini non ti faranno ingrassare. Domattina alle nove mi aspetterai davanti al portone. Ti farò entrare nella villa dall’ingresso principale.” Feci sì col capo, mi spostai davanti alle litografie, osservai il lampadario di Murano di tre colori, la vetrina-libreria a illuminazione interna. Lasciammo spazio al silenzio. Mi portai davanti alla portafinestra che dava sul balcone, guardai in basso le aiuole fiorite, le panchine occupate da chi non sapeva come occupare il tempo, non notai inseguitori.
   “Questo silenzio è il ripensamento del duro?” disse in tono volutamente provocatorio.
   “Entrerò nella villa come tecnico dei segnali d’allarme. Primo e principale incarico. Per il resto si vedrà.”
   “Siccome quel tempo non ti basterà farai meglio ad adattarti al secondo. Introdurti nel modo migliore è compito mio.” Aggiunse ancora qualche consiglio, la noia delle raccomandazioni, infine le minacce:
   “Il gioco è bello e redditizio, le regole ferree, chi sbaglia paga. Molto duramente” m’ammonì con la faccia di pietra. Lo immaginavo e le dissi che la minestra condita con le intimidazioni se la poteva risparmiare:
   “Mangio di meglio”.
   Si concesse una pausa dileguandosi per qualche minuto. Sapevo che qualcuno dormiva nel suo letto. Aprii la scatola intarsiata sul tavolino, era piena di sigarette. Vidi un sottile perimetro di velluto, lo sollevai e sotto ci trovai gli spinelli. Era una di quelle che fumava veleni sognando paradisi. Diedi un’occhiata all’agendina vicino al telefono, ritornai alla portafinestra da dove vedevo i tigli rigogliosi, le macchie di rose, le panchine con qualche pensionato col giornale. Lo spazzino prelevava i sacchetti dell’immondizia, il cielo sbiadito delle prime ore s’era aperto, il sole illuminava le lontane cime ghiacciate sospese su un tappeto di foschia. Mi parve che un giovanotto tenesse d’occhio l’edificio con l’aria di non darlo a vedere. Dopo un paio di minuti ne fui certo: si muoveva stropicciando il giornale, sparendo e ricomparendo tra i tronchi. Ho scelto una missione difficile, pensai. Troppi soldi per troppi problemi. Evviva, m’incoraggiai.
   Mi avvicinai all’impianto stereo, sfogliai i CD che non appartenevano al mio universo musicale. Faceva eccezione un disco di colui che ritenevo grandissimo e noiosissimo: Wagner. Conteneva il meglio de La Walkiria, lo feci partire a basso volume.
   Ritornò con un vassoio di cioccolatini, si abbandonò sul divano indicandomi la mia poltrona. Mi lanciò un cioccolatino, scartò il suo e se lo infilò tra le labbra. Mosse la mano destra a tempo di musica, con la sinistra giocherellò con una ciocca dei suoi capelli pieni di riflessi. S’era messa di sguincio, una gamba sul divano, l’altra sul tappeto. La vestaglia copriva ancora l’indispensabile, stetti al gioco accarezzando con lo sguardo le sue carni chiare e lisce come l’avorio. La punta della sua lingua riprese a guizzare spostando il cioccolatino. Si girò verso di me, accese un’altra sigaretta, sollevò i piedi sul divano mostrandomi il suo fiore più intimo. Tirò le prime boccate di fumo, immobile come niente fosse, pretendendo di essere penetrata almeno con lo sguardo. Di proposito guardai altrove facendole capire che le sue forme non erano più travolgenti. Mi chiese di abbassare il volume, cosa che feci malvolentieri.
   “Ti piace vero?” mi provocò con fare dissoluto.
   “Molto. Anche se…”
   “Anche se…”
   “Preferisco i fichi freschi” giocai pesante. Non rise ma sbuffò aria dal naso. Aprì le gambe a forbice e il sipario della vestaglia chiuse la rappresentazione. Si alzò con un balzo, schiacciò la sigaretta nel portacenere dicendo:
   “Sei un grandissimo figlio di puttana”.
   “Non mi permetto di offendere tua madre, ma tu, come puttana sei meravigliosa” rimandai afferrandola per la chioma e osando baciarla. Mollai la presa appena in tempo; dalla sua destra partì una sberla che riuscii a bloccare prima che mi si stampasse in viso. “Hai capito che scherzavo e sei stata al gioco” l’accontentai sfiorandole la guancia. “Qualcuno finge di dormire nel tuo letto, chiamalo.”
   “So cavarmela benissimo da sola” rispose spingendomi verso l’uscita. Fece scattare la porta ma prima di uscire dal giubbino sfilai una busta:
   “Ecco le foto che volevi domani. Sono solo tre, ma valgono per dieci.” Le sfogliò incuriosita dalla qualità, ma negandomi anche un piccolo complimento. “Ecco il certificato del mio stato di salute. Le tue amiche potranno stare tranquille. Ciao, a domani.”
   Mi lasciai spingere fuori, mi regalò l’ultimo sorriso poi la porta si chiuse con l’arroganza di qualcosa che forse non si sarebbe più riaperta. Scesi allegramente le scale; le avevo rubato un mozzicone di sigaretta, alcuni capelli, un numero di telefono e l’avevo pure fotografata. Composi quel numero di telefono che risultò occupato. Chi stava informando della mia uscita? Forse l’uomo che mi sorvegliava, forse uno dei tanto sconosciuti di cui è pieno il mondo? La cosa m’interessava quanto un allevamento di anguille. Misi gli occhiali da sole e uscii fregandomene dell’inseguitore. La vita col sole e il portafogli pieno è meravigliosa. Oltre l’ingresso incontrai il domestico col tritacarne. Non era ancora mezzogiorno ma lui girava nei paraggi. L’uomo mi guardò con l’indifferenza riservata a un muro di cinta.

   Dopo mezz’ora ero da Pier, l’amico fotografo che aveva un negozio vicino al centro con laboratorio in grado di sviluppare e stampare, in un’ora, la fotografia tradizionale. Si chiamava Pierangelo ma firmava i suoi capolavori con Pier che lo faceva più americano. L’amore comune per la fotografia risaliva agli anni dei pantaloni corti, poi i corsi serali, le escursioni domenicali armati di reflex, infine ognuno per la propria strada. L’amicizia per noi fu albero sempreverde anche se ci si vedeva sette o otto volte l’anno.
   Era alto quasi due metri, pesava quasi un quintale, aveva il naso adunco che puntava al mento, due grossi occhi bovini e la convinzione di essere un genio incompreso. Conservava la mania del bianco e nero, del controluce, rifiutava il digitale restando, come le cozze,  incollato allo scoglio della fotografia tradizionale. I suoi successi provinciali stavano appesi alle pareti del negozio e del laboratorio con cornici degne del Louvre.
  Mi salutò con una manata all’americana, gli diedi la scheda e gli mostrai il telefonino. In negozio c’era l’aiutante, la commessa, ma non vidi la moglie.
   “Come mai vieni dall’amico Pier per un lavoro che sai fare benissimo?” esordì.
   “Mi serviva un pieno di genio incompreso” dissi buttandola sul ridere. “Dieci scatti della palazzina Liberty per dieci foto. La donna del telefonino due copie; tutte formato 20 x 30. Pedalare!”
   “È arrivato il treno ad alta velocità, muoviamoci” brontolò alzando il tono di voce. Cominciò con la foto di Ellen passata dal telefonino al computer, la ingrandì a tutto schermo poi chiese:
      “Non è il massimo. Con un gioiellino del genere un dilettante può fare meglio. Sei in fase  di luna calante”.
   “Impossibile fare meglio. È un’immagine rubata a una donna più sveglia di un’aquila.”
   “Allora no comment.” Mentre lui ci dava dentro notai un pacco di foto a colori con sopra tre paginette scritte col computer. Il malloppo aveva un titolo: MONDO MORENTE. Scorsi velocemente il testo poi passai alle immagini che trovai ottime.
   “Finalmente sei passato al colore, era ora. Sembra un libro pronto per la stampa. Non ti faccio i complimenti perché ti monteresti la testa.” Lasciò le mie foto, s’avvicinò spiegando:
   “I casotti di campagna… guardali… stanno marcendo tutti. Tra dieci anni ci saranno solo le mie foto. Una parte del mondo contadino muore nell’indifferenza generale”.
   “E Pier, il genio, ne salva uno spicchio per la gioia dei posteri” sentenziai. Si strinse la cinghia dei pantaloni, sospirò:
   “Non trovo uno straccio di editore disposto a stamparlo. Dicono che l’argomento non avrebbe mercato. Vogliono tutti le donne nude. Affanculo tutti” si rattristò.             “L’unico che me lo stampa lo farebbe a mie spese; pagamento anticipato.” Ne allargò una decina, descrisse l’architettura semplice e spontanea, entrò nei particolari delle porte, dei camini all’interno, dei fumaioli, i papaveri attorno, il raccolto maturo, il silenzio dell’autunno umido e nebbioso. “Ne hai mai visto qualcuno dentro e fuori?” mi chiese.
   “Certo che li ho visti. Ho passato l’infanzia dai nonni contadini. Ne avevano uno col camino, il noce dietro, davanti l’uva americana scura e dolce come la notte, il moscato color oro buono come il miele. Certi ricordi, caro Pier, non sono in vendita.”    Mi batté una mano sulla spalla. “Il problema è che il libro te lo dovrai vendere per recuperare le spese. Se lo farai, dieci copie le compro io.” Allargò le braccia, m’invitò vicino al computer, finì il lavoro in un quarto d’ora. Gli chiesi il conto.
   “Poca roba: 42 euro. Me ne dai 40 e quando passi a rompermi le palle mi fai sempre piacere.” Ritirai la busta, pagai il conto dicendogli:
   “Per questa tua schifezza di lavoro ti offro l’aperitivo. Andiamo.” C’infilammo nel bar vicino, sorseggiammo un Crodino assieme a quattro noccioline rancide che avrebbe rifiutato persino una scimmia. I suoi grandi occhi bovini galleggiavano su un lago di sonno. Gli chiesi:
   “Ti conosco troppo bene per capire che qualcosa non gira per il verso giusto, vero?” Mi confidò che alla moglie avevano trovato un tumore al seno. La sua allegria cadde come un frutto marcio dall’albero. Si grattò la fronte, spinse indietro la chioma aggiungendo:
   “La notte si lamenta, ha male, aspettiamo l’operazione”. Per qualche minuto calò il silenzio del dramma famigliare. Mi accompagnò alla macchina.
   “Senti Pier, poco fa una signora senza mutande mi ha dato del figlio di puttana. Forse ha ragione. Ma tu ricorda che su questo figlio di puttana potrai sempre contare.” Mi abbracciò e se ne andò rapido per non mostrarmi i suoi occhioni lucidi.
   A casa infilai in una cartella le foto di Pier, in una bustina chiusi i capelli di Ellen e il suo mozzicone. Sopra ci scrissi 29 giugno e l’aggiunsi al malloppo di due giorni prima.











3

La villa dei misteri









  Il giorno dopo, con mezz’ora di anticipo, piazzai la macchina a duecento metri dalla palazzina liberty. Rimasi all’interno dell’auto assalito da insopportabili scempiaggini radiofoniche. Guardai i pedoni di quell’ora lavorativa: giravano sederoni enormi in pantaloncini corti e canottiera, una coppia di finocchi con fotocamera e piantina della città, i soliti cani che portavano a spasso i padroni, un tipetto da multinazionale con telefonino incollato all’orecchio e borsa da manager in pelle nera più adatta a un becchino. Per me restava il popolo anonimo dei perditempo: pensionati, disoccupati, cassintegrati, nonni coi nipotini, zie con la vicina di casa.
   La bella giornata e la temperatura ancora mite favorivano passeggiate di pochi chilometri. Sulla panchina più distante un quotidiano restava aperto e immobile. Chi si celava dietro? All’inizio non pensai a un occhio di falco modello inseguimento; c’era già quando arrivai. Chi ti segue di solito non ti precede. Che mi stava appiccicato al culo me ne convinsi dopo cinque minuti. Volli accertarmene. Scesi, gli diedi le spalle fingendo di pulire l’interno dell’auto, tolsi lo specchietto del passeggero, lo sistemai sul cruscotto tenendo d’occhio il giornale, e poco dopo mi convinsi di essere il suo obiettivo.
   Presi la fotocamera, finsi di fotografare le roselline avvicinandomi lentamente. Teneva le gambe accavallate che entravano in jeans agonizzanti, niente calzini, i piedi abitavano in scarpe da tennis più unte di un addetto ai pozzi di petrolio. Osservai le mani e vidi quella differenza infinitesimale tipica dei mancini, quindi l’artiglieria, se l’aveva, stava nascosta alla sua destra.
   Mi tolsi il giubbino, lo posai sul braccio sinistro, mi piazzai a un metro fingendo di leggere i titoli del suo giornale. La sosta durò meno di un minuto, il giornale si abbassò e quello mugugnò:
   “Beh…” Era sulla trentina, con un’orribile camicia a quadri tipo scacchiera, lo spolverino troppo lungo, la faccia come il culo di una scimmia, gli occhi grandi e tondi tipo barbagianni imbalsamato. Spiegai:
    “Mi scusi ma non riesco a cominciare la giornata senza scorrere l’oroscopo. Credo nella fredda stupidità degli astri”. Mi guardò col bianco degli occhi e lampi d’ira.
   “Vuoi un euro per il giornale o un cazzotto sui denti?” ringhiò. Gradii la sua frase  come se fossi stato tamponato al semaforo.
   “Di euro ne ho pochi, i cazzotti li regalo e in questi giorni sono in offerta: due al prezzo di uno. Scusa se mi siedo, ma io do del tu a tutti coloro che non mi danno del lei.” Provai a sedermi, mi feci lo sgambetto e gli fui addosso. Il giornale si stropicciò, feci quello che dovevo fare subissato di parolacce, mi alzai a fatica. S’accese di brutto spingendomi sulla destra.
   “Perché non te ne vai all’inferno?” imprecò.
   “Non c’è posto, è pieno di gentaglia come te” risposi avviandomi verso Ellen puntualissima. S’era fermata a una trentina di metri, aveva visto la scena, lanciato un fischio da camionista. La salutai con la mano e prima di raggiungerla mi rivolsi al culo di scimmia:
   “Tieni il tuo pistolino e spara ai piccioni” dissi lanciandola nel più vicino cespuglio di rose. Era una Ruger SP 101, sei colpi, che teneva infilata nella cintura. Raggiunsi la rossa Ellen, le aprii la portiera con un finto inchino.
   “Cos’hai combinato con quello?”
   “È una calamita, ho voluto vederlo in faccia.”
   “Il tuo linguaggio è complicato; cos’è una calamita?”
   “Uno pagato per seguirti. Ti si incolla dietro al culo per tutto il giorno. Magari anche di notte.”
   “Forse hai sbagliato.”
   “Non quando hanno l’artiglieria.”
   “Poteva spararti.”
   “Non senza questi” precisai mettendole in mano sei proiettili. Rise divertita, aprì il cassetto del cruscotto e li lanciò dentro.
   “Sei troppo sveglio per essere un fotografo” insinuò. Provai a farle capire quello che non ero:
   “Un fotografo ferma la realtà con un occhio solo. Perciò quando guarda con tutti e due gli occhi vede il doppio”.
   “Dovrei crederti?”
   “Nient’affatto” rimandai.
   Prima di partire la percorsi tutta con due occhi: abito estivo leggerissimo quasi trasparente color pesca, cappello di paglia intrecciata bianco, a tesa larga con nastro rosso, decolletè in pelle rossa con decoro-gioiello. Trucco leggero tranne il rosso delle labbra, profumo superconcentrato tipo essenza con sfumature di ambra e mirra. Attorno al collo girava un doppio filo di sfere di corallo rosso, anello e orecchini a clips centrati da ovale cabochon dello stesso corallo. Il bracciale era in oro giallo lavorato a torciglione, l’orologio faceva pendant con se stesso. Grossa borsa rossa in pelle con quattro borsellini applicati. Aveva addosso più soldi lei che io in dieci anni di stipendio.
   Più che una femmina era un incendio che per spegnerlo chiunque si sarebbe improvvisato pompiere. Le riparavano gli occhi un paio di occhiali firmati stile hippy-chic con due perle coltivate nelle astine. Le consigliai di toglierli.
   “Perché dovrei toglierli?”
   “Nascondono i tuoi bellissimi occhi di tigre, m’impediscono di penetrarti, almeno con lo sguardo.”
   “Comincia a penetrare nel traffico e dirigiti qui” disse mostrandomi la cartina del Touring. Finsi di studiare un percorso che conoscevo a memoria. Guardò l’orologio, le nove e dieci, pretese velocità di crociera.
   “Complimenti, fischi meglio di un treno merci” le dissi al primo semaforo rosso.
   “Urlo anche meglio.”
   Uscimmo dal centro in pochi minuti, attraversammo la periferia polverosa poi infilammo l’aperta campagna. Vidi alcune mietitrebbia nei campi di grano, il granoturco sfiorava i due metri, mele pere e pesche maturavano al sole.
   “Offro musica classica, cioccolatini finissimi e liquori assortiti in mignonette. Gradisci?”
   “La tua musica non mi piace, il cioccolato ingrassa, le mignonette tienile per le tue mignotte. Mi sembri un barista.” Non raccolsi la provocazione.
   “Per il barista o cameriere vale la risposta di ieri. Nelle mignotte c’includo i presenti.”
   “Sei spiritoso quanto un cetriolo sott’aceto” rimandò alzando le spalle. Provai a ignorarla godendomi il paesaggio: le sponde dei fossi rosse di papaveri, i campi ordinati come giardini, le colline pettinate a vigneti. Lei aveva reclinato il sedile, allungato le gambe sul cruscotto, acceso la prima sigaretta. Si divertiva a soffiare anelli di fumo tutti perfetti. Ruppe il silenzio chiedendomi a bruciapelo:
   “Cosa cerchi esattamente?” La domanda, come una medaglia, aveva due facce.
   “Capita che nella vita cerchi quello che non trovi, o trovi quello che non cerchi. Per esempio, ho trovato te senza cercarti.”
   “Un bel guaio” rispose tra due anelli di fumo. “Parli senza dire niente, e dicendo niente sembra che parli. L’ho capito subito. Domanda: hai trovato quello che cerchi?”
   “Quasi mai. L’importante è continuare a cercare, ti fa sentire vivo, sempre in bilico.”
   “Allora cos’è che ti disturba? Perché parecchie cose ti disturbano in questo incarico.”
   “Per esempio, l’idea di sputtanarmi a pagamento.”
   “A me disturberebbe l’idea di sputtanarmi gratis. Se sarà necessario fallo bene. Meglio un buon amatore che un pessimo fotografo.”
   Portavo in tasca la piccola fotocamera digitale e nel cervello l’ansia di vedere il posto dove avrei cercato il bottino. A spaventarmi erano le dimensioni. Intanto, con la rossa di fianco, mi gustavo il suo profumo, la giornata di sole, la cupola del cielo che pareva dipinta da Raffaello, la gioia di vivere impegnato in una sfida enorme.
   All’improvviso si tolse le scarpe, posò i piedi sul cruscotto, abbassò il finestrino di una spanna lasciando che l’aria gonfiasse la gonna. La furbacchiona lo faceva apposta. Il cappello le volò dietro, la gonna svolazzò scoprendo fin troppo. Le mutandine erano un triangolino rosso da spogliarellista con perimetro nero. Glielo dissi, sorrise lusingata, aggiunsi:
   “Qui non ci sono ragazzini da provocare, ho visto di meglio”.
   “Ogni volta che ti guardo mi convinco che anch’io ho visto di meglio. Molto meglio.”
   “Dal punto di vista qualitativo ne dubito. Sulla quantità concordo: ti sarai fatta un esercito” esagerai apposta. Bisbigliò qualcosa che lo svolazzare della gonna m’impedì di comprendere. Finalmente fece come il giorno prima: aprì le gambe a forbice, c’infilò dentro il tessuto, chiuse il sipario. S’era abbassata gli occhiali sulla punta del naso, girata verso di me osando:
   “Posso far crollare un giovincello come te quando voglio. Come ieri”.
   “Ti ho messa alla prova, eri un frutto maturo che non ho voluto cogliere.”
   “Illuso. Forse t’intenderai di macchine fotografiche ma di donne capisci poco. Ricordati: la donna è una carrozza che fa salire i passeggeri scelti da lei. Ti piace?”
   “È bella ma antica. Oggi girano i fuoristrada, i SUV, e una mentalità opposta ai tempi delle carrozze.” Schiacciò la cicca nel portacenere.
   Era trascorsa oltre mezz’ora e quella guida da pensionato rincoglionito mi stava stufando. Per fortuna eravamo quasi arrivati. Quando vidi la villa dall’ultima collina mi fermai. Mi apparve in lontananza, al centro della valle, immensa e stupenda. Arte e natura si fondevano in una sintesi perfetta. Il sole obliquo del mattino la illuminava di lato, spingeva le ombre a destra, i chiaroscuri sapientemente dosati si rincorrevano, così le statue con le loro ombre e tutta l’architettura che si elevava in alto e i giardini che si sviluppavano in ampiezza. S’imponeva, superba ma aggraziata, su tre piani, finestre, statue, vuoti e pieni avvolti da un fossato colmo di acqua che il sole accendeva di brillii. Dietro la facciata, capace di togliere il respiro, vibrava il giardino fiorito, poi il parco, il labirinto di mirto quindi la fine, lontanissima negata alla vista da una leggera, galleggiante foschia.  Le statue, di diverse grandezze, erano centinaia e sorvegliavano mute qual capolavoro, poste in fila persino sul tetto, attorno al fossato, nel giardino e nel parco. L’avevo vista di striscio qualche volta sempre distrattamente ma ora, e per la prima volta, l’abbracciavo con gli occhi giusti. Quel complesso rappresentava la mia sfida, custodiva una valigia che nessuno aveva trovato e io dovevo trovare. Avevo dato parola, forse troppo in fretta, e mi stavo pentendo senza darlo a vedere.
   Quella bellezza imponente, superba e immensa, mi annullava ed ebbi paura cercando proprio di non darlo a vedere. Seguito da Ellen scesi dall’auto per abbracciarla con un solo sguardo assieme al paesaggio. Scattai alcune foto.
   Ellen m’informò che se l’insieme era bello i dettagli restavano meravigliosi, vedere per credere: il salone da ballo, quello degli specchi e quello dei concerti, quello degli abiti e altri per le chiacchiere. C’era un conservatorio chiuso, una biblioteca, la cappella e il ristorante. Purtroppo alcuni locali restavano chiusi, anche se non a tutti, Gli affreschi, gli stucchi, i legni, le statue, i mobili, quadri e quant’altro erano opere dei migliori artisti del tempo. All’esterno, anni addietro, si giocava nel labirinto, da tempo vietato per motivi di costo, funzionava malamente una peschiera, c’erano grotte artificiali, fontane, serre e scalinate, un galoppatoio senza cavalli.
   Si entrava a piedi camminando su un ponticello fiorito in compagnia di sei statue, tre per lato, che s’ingobbiva sul fossato. Finita la sua spiegazione dissi la mia:
   “Guarda, sopra tale bellezza sorveglia il cielo. Chi è il fortunato proprietario?” chiesi curioso.
   “Non lo so, ma anche se lo sapessi non te lo direi. Pensa agli affari tuoi e non sconfinare.”
   “Te lo dico io: si dice che la gestiscano una manciata di ricchi dai molti interessi. Non tutti chiari.” Si tolse gli occhiali fissandomi con occhi da belva:
   “Tu sai sempre troppo. Scherzi col fuoco e finirai per bruciarti”. Lasciai che si sfogasse, risalimmo in macchina, svoltammo dolcemente a destra, poi a sinistra per qualche volta, quindi arrivammo nel parcheggio reso ombroso dai tigli proprio davanti all’ingresso. I tigli erano secolari, posizionati in modo da non ostacolare il parcheggio. C’erano alcune panchine di legno, tre fontanelle, i raccoglitori per l’immondizia, niente giochi per bambini. Non scesi, non parcheggiai ma chiesi all’auto di procedere su una stradina di ghiaietto bianco. Speravo di vedere un altro lato, altri passaggi. Non l’avessi mai fatto.
   “Posso sapere dove stai andando?” mi chiese Ellen con voce felina.
   “Una simile meraviglia è come una bella donna; l’apprezzi vedendone tutti i lati; sopra e sotto: proprio come te.”
   “Stupido… torna al parcheggio.” Un portone di ferro, dipinto di verde, mi bloccava. Si apriva col telecomando, una telecamera lo sorvegliava, un cartello giallo ne vietava l’ingresso. Non a tutti perché vidi tracce di pneumatici, i cardini ben oliati, altezza di tre metri, liscio come un ghiacciaio quindi difficile da scavalcare.
   Memorizzai il tutto e parcheggiai dov’era previsto. In un attimo fummo davanti al ponticello ad arco: tre statue minacciose per lato, molti deliziosi vasi di gerani fin troppo fioriti, nove gradini per parte in serizzo martellinato, dalla pedata larga e alzata bassa. Imposi alla mia vista un bel giro di 360 gradi: da lì incominciavano i miei problemi, e forse lì sarebbero finiti. Quando e come non osai chiedermelo.
   Un uomo e una donna, entrambi sulla cinquantina, parlottavano oltre la porta di vetro infrangibile. Vestivano una divisa blu tipo custodi da museo e, a prima vista, avevano lo stesso sapore di un chiodo arrugginito. Entrammo. Lui era di media statura, magro, color stoccafisso, pochi capelli rastrellati all’indietro, l’aria triste di chi soffre di stomaco. Lei era una biondona adiposa, volgarotta, la bocca grande come un avocado, il piglio di chi ha combattuto molte battaglie tutte perse. Evitai le prime meraviglie impregnate nei muri concentrandomi sulle persone, la disposizione dell’ambiente e la sua conformazione. I tre si salutarono come vecchi amici sparando le solite balle di cui non frega niente a nessuno.
   Un ufficio a vetri conteneva sei monitor: quattro mostravano i punti critici della villa tutti all’esterno, due l’ampio giardino. Nessuna immagine riguardava l’interno della villa. Quattro ragazzini, di cui due occhialuti, stavano ingobbiti davanti agli schermi sognando chissà cosa. La biondona prese Ellen sottobraccio, mi guardarono, seguì una breve presentazione. Si chiamava Vanda e non le chiesi se con la V semplice o la W doppia. Faceva caldo, era sudata, il grasso che l’avvolgeva si stava sciogliendo. Mi porse la mano, gliela strinsi: era umida e viscida come una manciata di lombrichi.
   “Allora lui sarebbe quello nuovo” disse aprendo il forno.
   “È il tecnico del preventivo per l’allarme interno. Nella busta c’è la lettera del dottore e il resto.” La biondona-carampana guardò la busta poi mi prese le misure.
   “Non sono nuovo, ma di seconda mano. Però funziono meglio dei nuovi” provai a provocarla. Lei stropicciò le labbra scoccando un altro colpo:
   “In quale fabbrica di pirla lo hai prelevato?”
   “L’ultima che ha aperto” rispose Ellen divertita.
   “Siete piene di spirito, accendete una sigaretta e rischiate il falò” risposi. La carampana disse che amavano scherzare, provocare i nuovi arrivati, prendere la vita a braccetto con l’allegria. L’uomo si era distanziato di qualche metro, piazzato di fronte all’ingresso fissando il nulla, immobile come una scimmia imbalsamata.
   C’incamminammo per un corridoio lungo una quindicina di metri, poco illuminato, svoltammo a sinistra fermandoci davanti a un’antica porta di legno intarsiata. La carampana cercò la chiave, aprì lasciandola nella toppa all’esterno. Ellen era rimasta indietro, impegnata in una conversazione telefonica in tedesco. La luce illuminò un locale di circa duecento metri quadrati con affreschi sul soffitto e sulle pareti che inneggiavano alla natura: riconobbi fagiani e pavoni, alberi di melograni, volpi e cinghiali. Due finestre erano oscurate da tende antiche. C’era un tavolo con proiettore a sinistra, uno schermo a destra, dodici poltroncine color zafferano. Mi colpì un grande stipo antico con troppi cassetti tutti chiusi a chiave. Per esserne certo finsi di ammirarlo da vicino provando ad aprirne uno. Entrò Ellen e le due donne tolsero il contenuto della busta: le mie foto, la lettera del dottore, il certificato di buona salute. Feci suonare il telefonino, uscii subito, tolsi la chiave dalla toppa, la misi nella mano sinistra sul pacchetto di sigarette, la fotografai, la rimisi a posto e rientrai.
   “Sia la prima e l’ultima volta” mi rimproverò la biondona. “Prima di imboccare il ponticello spegnere il telefonino e accendere il cervello.” Infilò le carte nella busta, le chiuse nel cassetto del tavolo che conteneva il proiettore, mi tornò davanti pronta ad abbaiarmi in faccia:
   “Per la sicurezza delle signore tutti i giovani che incontrano vengono perquisiti. Sai qual è l’oggetto più temuto?” Finsi di pensarci un attimo:
   “Lo spermatozoo”. Non sapendo se arrabbiarsi o rallegrarsi rimase interdetta. Fu solo un attimo, poi ordinò:
   “Alza le braccia e allarga le gambe”. Ubbidii. Mi palpò tutto con l’abilità e la grinta di un sergente dei marine di pessimo umore. Mise sul tavolo tutta la mia mercanzia, separò la fotocamera e il telefonino dicendo:
   “Con queste in tasca nessuno è pulito. O rispetti le regole, o dirò al dottore di sostituirti”. Provai a metterci una pezza:
   “Il telefonino lo hanno pure i ragazzini delle elementari assieme alle brioches. La piccola fotocamera me la porto sempre dietro come il naso, la testa e quant’altro. Faccio il fotografo, ho capito l’antifona quindi finiamola. Un’ultima cosa: il dottore prima di sostituire me manderebbe a spasso voi” mi sfogai con la voce piuttosto alta. La biondona, che accusò il colpo, si tenne la busta, io intascai tutte le mie cose, ritornammo all’ingresso dove fui presentato a un tipo grande e grosso di nome Oscar con due badili al posto delle mani, la faccia color segatura, la grinta di chi si sente capace di stropicciare il mondo. Oscar era il contatto tre me e le eventuali signore. Non mi parve adatto, con quell’aria da buttafuori, la faccia fatta per non sorridere, il naso come il becco di un tucano. Mi chiesi da quale zoo fosse uscito. Seguì le due donne assieme a me, sfiorammo la scimmia sempre imbalsamata entrammo in un vestibolo con gli armadietti e diversi specchi, poi le docce, quindi i gabinetti.
   Otto armadietti erano per gli abiti, il nono conteneva saponi profumati, confezioni di shampoo, deodoranti, spray per l’alito, profumi leggeri e altre schifezze per migliorare se stessi. M’incuriosirono le dimensioni esagerate dei water e dei bidé. Li osservai da vicino e notai che tra loro e il muro la polvere era parecchio stagionata. Ebbi un’idea, ma feci finta di niente. Seguì la visita a tre camere adibite ad alcova. Non mi fu possibile godere gli affreschi: i miei accompagnatori volevano che capissi come muovermi e, nel caso fossi bendato, senza fare danni.
   Tutti i mobili stavano contro le pareti: il letto a due piazze, il frigorifero vicino all’impianto stereo con di fianco il tavolino col telefono, un piccolo armadio con funzione da guardaroba di fronte al letto. Tutte le camere disponevano di un piccolo bagno con l’indispensabile. Al centro tre poltroncine, un tavolino rotondo con il telecomando per filmini destinati ad alzare il morale e qualcos’altro. Le immagini finivano nel televisore di fronte al letto. Precisarono che il volume era volutamente basso. Le finestre delle tre camere guardavano ad Ovest e le tende spiegate attutivano la luce. Trovai i locali “puliti”, senza telecamere di sorveglianza né microfoni, né polvere. Assieme alla chiave della macchina avevo applicato un rivelatore di microspie grande quanto un gianduiotto. Passai vicino ai telefoni con indifferenza e quel prodigio miniaturizzato mi disse che i tre telefoni portavano nel pancino una microspia; quindi tutto era controllato da un occhio e un orecchio invisibili.
   Quando le due donne furono certe che tutto mi fosse ben chiaro tornammo all’ingresso, attraversammo il locale dei computer, ci appartammo in un ufficetto che sapeva di muffa e di chiuso dove diedi i miei recapiti: telefono fisso, cellulare, indirizzo di posta elettronica.
   All’ingresso mi fu chiesto di aspettare qualche minuto: Ellen e combriccola dovevano parlottare lontano dalle mie orecchie. Feci un breve esame di coscienza, ammesso che avessi una coscienza, provando per me stesso una manciata di vergogna. Abituato all’azione, al rischio, alla luce del sole come alle tenebre della notte, ero finito in una specie di casa d’appuntamenti disposto a prostituirmi. Ma come sempre guardai avanti, la lunga strada accidentata che avrei percorso in fondo alla quale brillava un milione di euro. Quando si accettano certe missioni a senso unico si deve arrivare fino in fondo; e questo avrei fatto, a qualunque costo.
   Mi riportò alla realtà una voce che chiedeva permesso. Mi girai e vidi un giovanotto in divisa addetto alle pulizie. Gli lasciai spazio, lo scrutai attentamente.  Portava un cappellino con visiera, spingeva un carrellino di acciaio inox con bidoncino luccicante. Mi colpì il giubbino troppo largo per essere suo che lo rendeva simile a un limone enorme, e altri particolari che memorizzai dettagliatamente. Fossi venuto solo per quello ne sarebbe valsa la pena.
   “Quando ti chiamerò dovrai essere pronto” stabilì la biondona un metro prima dei saluti. Feci sì con la testa.
   “Quando sarò pronto per studiare il segnale d’allarme verrò senza chiamarti. E sarà molto presto.” Lanciai un’ultima occhiata alla saletta dei computer, ai ragazzi dall’aria infelice, salutai la bocca grande come un avocado, aprii la porta a Ellen e uscimmo ad assorbire il profumo dei fiori e il calore di un sole abbagliante. La campana di un lontano campanile suonò mezzogiorno.
   Infilammo la via del ritorno senza parlare, ma dopo qualche minuto di quel mortorio feci partire il primo CD che mi capitò sottomano. Lei spense subito ricordandomi:
   “Ti ho già detto che…”
   “Non ti piace la mia musica. Ho capito. A me non piace il tuo silenzio; ci attende un’eternità fatta di silenzio.” Invece di rispondermi accese due sigarette, me ne offrì una.
   “Grazie. Devo intenderlo come un invito?”
   “Un invito a comportarti meglio. Là dentro non hai brillato in cortesia e potresti avere vita difficile” borbottò ammonendomi.
   “Le imprese facili non mi soddisfano, quelle difficili mi incendiano.” Scosse la testa in segno di compatimento, soffiò il fumo contro il tettuccio aggiungendo:
   “Comincia a non incendiarti da solo. Se sbagli lo faranno gli altri”. Lo avevo capito. Rallentai davanti a un bar di bell’aspetto.
   “Posso offrirti l’aperitivo, o il pranzo, disposto ad ascoltare la storia della tua vita.” Sorpresa per l’insperato invito inarcò le sopracciglia.
   “Sei un cameriere mancato. Cosa vuoi sapere?”
   “Quello che sta dentro l’uovo di Pasqua; conosco solo la confezione. Lavoro, amori, ambizioni, eccetera.” Si prese una finta pausa di riflessione, infilò il mozzicone nel portacicche, mi rispose:
   “Faccio la traduttrice per un grande editore: traduco dal tedesco, dall’italiano e dal francese”.
   “Dai pochi libri che tieni in casa non si direbbe.”
   “Il tempo delle carrozze dista oltre un secolo. Svegliati! Siamo nell’era dei computer e lì dentro ci trovi l’universo.”
   “Mariti?” la incalzai.
   “Alcuni li ho avuti. Per me i mariti sono come le ciabatte: funzionano quando sono nuovi, poi fanno male ai piedi. Allora li butto… proprio come le ciabatte.”
   Venti minuti dopo fermai l’auto davanti alla palazzina Liberty. Le porsi il cappello e la borsetta dicendo:
   “Ciao, buon appetito. Tu mangerai sola nel tuo appartamento, io solo in trattoria”.
   “Posso avere tanta compagnia che manco te lo immagini.”
   “Il piacere della varietà all’insegna del provvisorio. È una scelta” rimandai. Mi sfiorò le labbra con un bacio che sapeva di niente, uscì e s’incamminò con passo deciso verso il portone. Mi staccai lentamente dal marciapiedi, girai in seconda attorno al palazzo senza vedere inseguitori. Partii a tavoletta verso il cibo dell’amico Plimpo.


   Che ero affamato lo capì subito. M’invitò nel retro illustrandomi il menu:
   “Oggi è venerdì, la casa offre merluzzo alla livornese oppure, a scelta, merluzzo alla livornese, vino bianco frizzante fresco di frigo e le grandi specialità di sempre”.               Le grandi specialità a cui alludeva erano i soliti formaggi, i soliti salumi, i soliti contorni dall’aria stanca: pomodori, lattuga, cicoria. Qualche volta i fiori di zucca che la moglie farciva di fontina, impanava e friggeva. Erano una squisitezza.
   “Come stai a meloni?” dissi puntando subito sul mio frutto preferito.
   “Ne ho sei, grandi come la tua testa ma molto più pieni.” La moglie lo sostituì al banco, lui mi preparò un piatto abbondante di merluzzo alla livornese poi si lasciò cadere sulla sedia di fronte. Con la forchetta mossi la salsa, ribaltai due tranci di pesce, dissi la mia:
   “Sembrano due saponette affogate nella vernice rossa”.
   “Allora vanno bene. Ora mangia.” Mangiai volentieri due pezzi di filetto di merluzzo alto due centimetri. La salsa, con abbondante cipolla e senza spezie, era ottima. Plimpo aveva capito che le mie critiche erano complimenti e i suoi rimbrotti la risposta al mio scherzare. La nostra era un’amicizia impostata sui contrari. Pagai quattro soldi per un ottimo pranzetto e me ne andai.


   A casa passai le foto nel computer, le ingrandii, eliminai i fronzoli e le stampai con la data: venerdì 30 giugno. Una foto della villa la infilai nel giubbino. Alla foto con in mano la chiave della carampana aggiunsi le misure della mano e del pacchetto di sigarette per agevolare il lavoro di chi l’avrebbe duplicata. Chiusi tutto dietro la blindata dello sgabuzzino, presi la pistola del committente, me la infilai vicino al rene destro, la coprii col giubbino e andai al poligono di tiro.
   Non abituato a quell’arma, troppo pesante per i miei gusti, sparai malissimo. Cominciai a migliorare dopo una decina di caricatori. Dovetti subirmi gli sberleffi dei tiratori da quattro soldi. Accettai le battute idiote riservandomi di sputtanarli a breve. Il mio portafoglio sorrideva e con lui la vita che vivevo alla grande, come non mai.


   Verso sera parcheggiai in centro, nei paraggi di quella che ritenevo la migliore libreria della città. Feci quattro passi nei paraggi, non vidi calamite dietro il sedere, entrai. Alla cassa sedeva la solita ragazza occhialuta con una coda di cavallo lunga quanto un trotter, gli zigomi rossi come i mandarini, le labbra troppo dipinte, la disponibilità commovente.
   “Cerco qualche libro su questa villa” dissi mostrandole la foto formato 20 x 30. La coda di cavallo guardò la foto, poi me, quindi il computer. Le sue dita sfarfallarono sulla tastiera a velocità supersonica.
   “Villa… ville antiche… le grandi ville” bisbigliò col ticchettio in sottofondo. Durò qualche minuto, inutilmente.
   “Disciùlati, maledetto impiastro” miagolò continuando a pigiare. Dopo altri due o tre minuti si arrese con l’aria imbronciata.
   “Questa testa di cazzo del computer è andato fuori di testa” m’informò con un sorriso di traverso. “Devo sentire la signora.” Chiuse il cassetto della cassa, sfilò la chiave passò nell’altro locale.
   Tornò quasi subito con colei che mi parve la padrona. La coda di cavallo le mostrò la foto spiegando quello che cercavo e l’impiastro, cioè il computer, le negava. L’altra scrutò la foto dicendo:
   “Ah… la famosa villa. Mi segua”. La seguii, fece un interrogatorio di terzo grado all’impiastro suo quindi concluse:
   “Abbiamo alcuni volumi che trattano le ville, compresa questa. Ricordo una grossa monografia sulla villa che lei cerca, e il computer me la segnala, ma l’abbiamo esaurita. Qui dice che è fuori catalogo. Devo sentire l’editore o il magazzino del distributore. Qui dice anche che costava centosessanta euro”.
   “Sarà sicuramente aumentata, ma il prezzo non m’interessa e la monografia la voglio, ad ogni costo. Le lascio un acconto” precisai posando cinquanta euro sul banco. “Intanto prendo i volumi che la trattano anche se con altre.” Intascò la banconota poi mi chiese:
   “Mi dia il suo telefono, la chiamerò appena arriva. Ammesso che la trovi”.
   “Mi dia il suo biglietto, scriva l’acconto, la chiamerò io, tutti i giorni.” Ubbidì, mi mise sul banco tre volumi dedicati alle ville, pagai un conto salato, ringraziai e la salutai. Mi fermai davanti alla coda di cavallo, la ringraziai dicendole che quello giusto, forse, sarebbe arrivato. Potevo contarci?
   “Lascia fare a Melissa” mi tranquillizzò “e quando telefoni chiedi di…”
   “Melissa. Grazie Melissa, che sei un tesoro l’ho capito dal’altra parte della strada” osai esagerare. Lei arrossì piacevolmente, sorrise compiaciuta, e in quel momento vidi il suo interno come una nave trasparente. Salutandola mi regalò un sorriso lungo quanto un racconto rosa.  






4

Il primo sopralluogo









   L’indomani era sabato e mi chiesi chi avrei trovato in villa. Nel dubbio decisi di rispondermi nell’unico modo: andandoci. Controllai l’attrezzatura e corsi alla macchina.
   Alle nove mi presentai all’ingresso. I tre esemplari del giorno prima erano assenti. Al loro posto un fighetto sopraffino, con l’aria di chi vuol fare carriera, mi mitragliò di domande: chi ero, perché ero lì, a cosa serviva l’ambaradan che mi portavo dietro. Lo lasciai parlare senza interromperlo poi, invece di rispondergli, gli mostrai la lettera del dottor Magistrali dicendogli che dovevo lavorare e non avevo tempo da perdere.
   Aveva un simpatico faccino da bertuccia, i capelli viscidi concimati con troppo gel, la camicia col colletto bicolore e la parola boy, tra due rametti di alloro, ricamata sul taschino. Si era rasato in fretta e furia facendosi due taglietti sotto il mento. Tagliai corto:
   “Senti boy, il mio lavoro è di moda e ne ho parecchio. Il mio tempo è poco e costa molto. Per favore, non farmene perdere troppo”. Si allontanò pregandomi di pazientare pochi minuti. Mentre pazientai pochi minuti mi guardai attorno rivedendo il menu del giorno prima. Dietro ai vetri dell’ufficio gli stessi giovani incollati a monitor e tastiere. Con mio grande piacere non mi degnarono di uno sguardo. Erano in rete col computer in simbiosi perfetta; i file al posto del cervello, un motore di ricerca al posto del cuore.
   Un camion per la raccolta dei rifiuti transitò davanti al ponticello. Corsi fuori e lo vidi entrare nel portone del giorno prima, quello vietato ai nessuno come me. Erano le nove e un quarto.
   Il boy ritornò facendomi cenno di seguirlo. Con tono amichevole gli chiesi un’informazione:
   “Sul camion dell’immondizia ho intravisto un vecchio conoscente perso di vista”. Aggiunsi che magari un altro giorno l’avrei aspettato davanti al ponticello, volevo salutarlo, avere sue notizie. Mi serviva un dato preciso che arrivò quasi subito:
   “Ritirano un giorno sì e l’altro no, compreso il sabato”.
   “E l’orario?”
   “Quasi sempre lo stesso” aggiunse informato. Lo ringraziai con una mano sulla spalla. Ripassammo davanti alla saletta proiezioni, continuammo lungo un corridoio poco illuminato, superammo quattro porte chiuse a chiave, ci fermammo davanti a una porta molto antica e molto intarsiata. Il boy bussò delicatamente due volte, una voce all’interno disse “avanti”, il ragazzo aprì, mi fece entrare e sparì. L’uomo rimase dietro la scrivania, si alzò di pochi centimetri, mi porse la mano dicendo buongiorno. Dimostrava una cinquantina d’anni, la fronte alta, i capelli lunghi all’indietro, gli occhiali senza montatura, la carnagione color senape. Il pizzetto curatissimo tendeva al grigio, gli occhi erano da pesce guasto, gli abiti giovanili e molto eleganti.
   Mi chiese notizie del dottor Magistrali; io scelsi e gli regalai, solo le migliori. Mi chiese notizie del mio lavoro, gli offrii l’essenziale scivolando subito alla mia grande passione: la fotografia.
  “Tutto qua dentro stimola una bella foto: la luce, l’ambiente nel suo insieme, il vaso di ciclamini.” La fede al dito mi suggerì il finale: “La sua signora  sarà piacevolmente sorpresa” aggiunsi soffiando sul fuoco della sua vanità profumata di gelsomino. Guardò l’orologio, ma non gli lasciai il tempo di replicare:
   “Cinque minuti per un piccolo capolavoro. Una bella foto è per sempre” conclusi piazzando il cavalletto.  Presi il vaso di ciclamini che oziava alla luce della finestra e lo posai alla sua destra. Erano di un rosa arrogante, i petali come ali di farfalla. Nella sinistra gli misi la cornetta del telefono, la stilografica nell’altra mano, lo sguardo concentrato sul nulla. Controllai l’inquadratura, la luce, l’insieme e scattai. Sfilai la fotocamera dal cavalletto, accesi il display, gliela mostrai facendomelo amico. Raccolsi la fotocamera dalla scrivania fregandogli un biglietto da visita tra i tanti sistemati in una elegante scatoletta.
   Mi fece accomodare di fronte a lui così guardai i faldoni di carte sulla scrivania coperti dal Corriere, un portacenere ricavato dal carapace di una tartaruga, il portapenne di onice, il telefonino, la scatoletta coi biglietti da visita.
   “Visto che il suo tempo è prezioso, come pure il mio, veniamo subito al punto” mi punzecchiò dimostrandosi informato. “Il dottor Magistrali e altri sono per un allarme all’interno della villa. Vero?”
   “Verissimo, sono qui per questo.”
   “Io e altri dirigenti siamo contrari. Lei faccia il suo lavoro rapidamente, proponga un preventivo dettagliato che includa i tempi di una eventuale esecuzione dei lavori. Questo accontenterà loro, e un nostro comprensibile veto, semmai, soddisferà noi. Anche se la decisione finale la prenderemo assieme.”
   Parlò chiaro ma scoprì le sue carte anzitempo. Squillò il telefonino, fissò il display, rispose:
   “Scusami, cara, ma sono impegnato. Ti richiamo tra dieci minuti, ciao” chiuse, guardò l’orologio, mi fissò col solito sguardo da pesce stantio chiedendomi:
   “Ha una pianta della villa?”
   “Purtroppo no.”
   “E come può lavorare senza quella?”
   “L’avrei chiesta all’ingresso ma mi è mancato il tempo.” Scosse la testa piuttosto deluso, aprì un’antina della sua scrivania, prese un foglio patinato formato A3 piegato a fisarmonica e disse:
   “E’ stata fatta per i turisti; c’è tutto ciò che le serve. Se la guardi bene, scelga i punti più adatti e torni col preventivo. Attenzione… nei locali chiusi è vietato entrare.” Lo tranquillizzai, ringraziai per la piantina poi chiesi:
   “Posso sapere perché non è d’accordo?”
   “Certo; per tre motivi.  Primo, qua dentro c’è gente giorno e notte quindi la vita è dura per i ladri. Secondo, l’esterno è coperto da un’ottima rete di videosorveglianza. Terzo, queste pareti, i soffitti, i pavimenti e persino l’aria che si respira sono opere d’arte, e non ammettono stupri tecnologici.” Lo calmai guardando il mio orologio. Proposi una rapida spiegazione:
   “La tecnologia moderna funziona a onde radio, quindi niente fili, niente buchi, ma sensori piccolissimi fissati sulle porte. Ci faccia un pensierino, visto che la sua casa ha un modello vecchiotto capace di procurare problemi in caso di temporali o mancanza di corrente”. La sorpresa lo irrigidì piacevolmente. Almeno mi parve.
   “E lei come lo sa?”
   “Posso?” gli chiesi prendendo le chiavi chiuse in un anello col ciondolo dell’Ariete.
   “Segno zodiacale molto raffinato, chiave della macchina, spinotto per attivare e disattivare un segnale d’allarme modello anni Ottanta con fili dovunque e sensori grandi quanto un pacchetto di sigarette in ogni camera. Dico bene?”
   “Dice benissimo” rispose seriamente sorpreso.
   “Se desidera aggiornarlo sarò a sua disposizione.” Meditò rigido, per un attimo, la mia proposta, poi mi chiese:
   “Allora posso contare sulla sua disponibilità?”
   “Ci può contare. Non ora che devo onorare alcune scadenze. Diciamo… dopo le ferie.”
   “Andato, sarà senz’altro per dopo le ferie.” Mi strinse la mano in modo decente, mi regalò un sorriso migliore del primo accompagnandomi alla porta.
   Cominciai subito, a casaccio: la fotocamera sul cavalletto, il distanziometro a laser appeso al collo, gli occhiali spinti sulla testa, un pennarello rosso e uno blu con punta finissima nel taschino del giubbino. Mi piazzavo all’inizio di un locale, lo fotografavo col grandangolo, ricavavo le misure col distanziometro che scrivevo sulla pianta. M’imposi di procedere senza infastidire nessuno, restando calmo e concentrato. Vidi poche persone e fotografai anche quelle: un paio di custodi, due donne e uomo delle pulizie, due signori dall’aria manageriale. Trovai due porte chiuse, purtroppo senza chiave nella toppa. Scattai altre foto.
   Alle undici e trenta entrai in un salone da gustare col naso all’insù: un enorme mostro con arco mi fissava con occhi di fuoco. L’arco era teso, la freccia pronta a scoccare, un esercito di mostriciattoli incattiviti lo seguivano. Tutto il soffitto trasmetteva inquietudine. Non ho mai creduto al purgatorio, ma se quella ne era l’anticamera avrei fatto meglio a pensarci.
   Non sono neppure superstizioso, ma quell’insieme di mostri fu capace di turbarmi parecchio.  Mi spostai a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra. Da qualunque punto osservassi quell’affresco la freccia mi seguiva minacciosa, incombente, pronta a trafiggermi. Per quel salone usai lo stesso trattamento degli altri: fotografie, misurazione dell’altezza, larghezza e lunghezza.
   Dopo un paio d’ore di lavoro, al massimo della concentrazione, un sottile prurito mi scese lungo la schiena. Ogni tanto mi capitava, e ogni volta qualcuno mi stava osservando. La prima regola era continuare tranquillamente fingendo di ignorarlo. Avevo commesso lo sbaglio di non accorgermi, di non padroneggiare i 360 gradi intorno a me. In una situazione critica l’avrei pagata cara. Con calma feci tutto ciò che si fa a lavoro finito: girai la fotocamera nella sua direzione, la misi lentamente nella borsa fotografandolo, chiusi il cavalletto. Rispose a due telefonate con suoneria bassissima, ne fece due impartendo ordini con l’aria di chi non ama ripetersi. Finsi di vederlo proprio in quel momento mentre lui, guardando l’orologio, mi fece capire che mi teneva d’occhio da parecchio tempo, senza fingere. Mi avvicinai, vidi una rosellina gialla infilata nell’occhiello della giacca, gli offrii la mano presentandomi. Lui mi porse la sua quasi malvolentieri.
   “Sono il tecnico incaricato di studiare il segnale d’allarme all’interno della villa” dissi gentilmente.
   “Lo so.”
   “L’affresco del soffitto è artisticamente inquietante” aggiunsi indicandolo con l’indice.
   “Lo so.”
   “Allora saprà anche da chi sono stato autorizzato, per quale motivo, eccetera eccetera.”
   “So anche questo.” Guardò gli occhiali che tenevo appesi al collo.
   “Complimenti, c’è forse qualcosa che non sa?” gli chiesi con un sorriso quasi amichevole.
   “Non so a cosa servono questi orribili paraocchi che mette e toglie.” Finalmente qualcosa che non sapeva, o fingeva di non sapere.
   “Servono per vedere il raggio laser nelle zone con troppa luce.” Dalla borsa ancora aperta sfilò la cartina, l’aprì e chiese:
   “A cosa servono le misure tanto precise, più adatte a un grattacielo moderno che a una villa antica?” Mi stava prendendo per il culo, ma dovevo sopportarlo.
   “Servono a stabilire le dimensioni dello spazio, quindi il calcolo del volume in base al quale dimensionare l’allarme.” Non era vero, ma glielo dissi come se lo fosse. Si sorbì la mia risposta come un aperitivo. Trasudava la supponenza del pesce grosso che nuota tra pesci piccoli. Aveva circa trentacinque anni, abiti estivi molto leggeri, giacca di lusso, la camicia aperta con ciuffetto di peli inopportuno, niente cravatta. Dalla pettinatura spuntava il ricciolo tirabaci, la barbetta sottilissima correva sotto il mento e sotto il naso. Le sopracciglia troppo arcuate dicevano che sotto non ci stavano due occhi ma un binocolo. Gli chiesi:
   “Cos’altro sa che io non so?”
   “So che è quasi mezzogiorno, tra poco scatta l’intervallo e, tranne il personale autorizzato, nessun estraneo può girare per la villa. Torni un altro giorno.”
  “Lo so” risposi con un sorriso. Mi appesi la borsa alla spalla, afferrai il cavalletto, lo salutai dicendo:
   “Conosco la strada che porta sotto il sole”.
   “Lo so” concluse ambiguo e, visto che sapeva tutto, mi avviai verso l’aria pura seguito dai suoi passi felpati. Prima di varcare la soglia della luce riservai un ultimo sguardo al duro da quattro soldi col fiore all’occhiello.
   

   A casa feci il riassunto della mattinata. Passai nel computer la scheda della fotocamera e stampai tutto in formato A4. All’uomo color senape riservai un trattamento raffinato nonostante fosse un paraculo che approfitta di una certa situazione per trarne vantaggi. Pazienza. Gli cancellai due peli sotto il naso, alcune macchioline sulla fronte, un ciuffetto di capelli sopra l’orecchio destro. Quando fui soddisfatto ne stampai quattro copie. Il suo biglietto da visita diceva: dottor Fletcher Hughes, the book of memory, Italy Germany England. Seguivano i numeri di un cellulare italiano, due numeri tedeschi e due inglesi. Per me il signor Fletcher era tutto tranne quello con cui avevo parlato. Affari suoi.
   Confrontai le mie misurazioni con la pianta del committente, apportai alcune correzioni, scrissi data, ora e altri appunti poi chiusi tutto dietro la blindata dello sgabuzzino. Era quasi l’ora della merenda ed ero a stomaco vuoto.
Ispezionai il frigorifero, presi un melone dall’aria giusta, l’ultima vaschetta di prosciutto crudo dai colori ambigui, vino bianco mosso e minerale gasata. Ma prima di gustarmi il tutto feci partire il meglio del mio amico Mendelssohn.



















5

Il primo servizio









   Il giorno dopo era domenica; mi svegliai presto, andai sul balconcino in pigiama, l’aria era ancora fresca, il sole limpido e tiepido, il cielo pulitissimo. La città mezza vuota, in quell’inizio di luglio, restava un mostro appisolato: meno rumoroso, meno puzzolente, per niente nevrotica. Sorseggiando il caffè stesi sul tavolo la carta della villa, e davanti a quella pianta provai a digerire i primi dubbi, a subire alcuni ripensamenti, a combattere certi timori. Il desiderio del montepremi stava diventando una gabbia in cui mi ero volontariamente chiuso. Finii il caffè percorrendo quegli spazi enormi chiedendomi da dove avrei cominciato.
   Pensai di trascorrere quella domenica in dolce compagnia, abbozzare un programma, fare qualche telefonata scuotendo il giusto timpano femminile. Alle otto feci partire Il Barbiere di Rossini, tenni il volume basso, la porta del bagno aperta e cominciai a radermi. Alle otto e dieci squillò il telefono: una nota voce femminile mi disse di trovarmi in villa alle tre del pomeriggio. Aggiunse che per certi appuntamenti era indispensabile la massima puntualità. Sulle due ultime parole alzò il volume.
   “E spegni quel funerale di musica” sbraitò nella cornetta.
   “Posso conoscere il motivo?”
   “Una signora vuole conoscerti. Sei abbastanza sveglio per capire? Accendi il computer che hai nel cervello.” Fui tentato di reagire malamente ma, per mia fortuna, riattaccò prima. Meglio così. Finii di radermi, feci lo stesso coi peli sotto le ascelle, provai ad appiccicarci, con un grosso nastro adesivo, il più piccolo telefonino dell’ultima generazione. Funzionò.
   Accantonata l’idea di uscire con un fiorellino femminile m’impegnai in un’ora di ginnastica sul tappeto. Aggiunsi un’ora di corsa sui marciapiedi quasi deserti, acquistai un paio di quotidiani e rientrai.
   Come da istruzioni rispettai la procedura: piazzai la macchina nel parcheggio davanti alla villa, superai il ponticello fiorito, entrai trovando la biondona con la bocca formato avocado. Ero sobriamente elegante, col borsone pieno di roba, compresa la tuta ginnica e scarpe da tennis. Di proposito arrivai con un’ora di anticipo sperando di conoscere spazi nuovi, magari all’aperto dove come tecnico dell’allarme ero fuori posto. Rincorrevo l’idea che accende la prima lampadina.
   “Qualcosa nel tuo cervellino non funziona. Sei in anticipo di un’ora” mi ammonì subito.
   “Le persone puntuali arrivano sempre in anticipo.”
   “Forse al tuo paese. Qui le persone puntuali arrivano in orario.”
   “Solo quando gli va bene. Al primo imprevisto ritardano, io mai.” Mi chiese di seguirla nella vicina sala di proiezione per la perquisizione. Cominciò aprendo il borsone ma visto il contenuto rovesciò tutto sul tavolo. Disse:
   “La bancarella per questo negozio ambulante la tieni in macchina?”
   “Trovami una cosa inutile e ti metto a 90 gradi.”
   “Lascia perdere” bofonchiò tristemente “mi sono stufata anche di quella posizione.” Lo capii. Sembrava una manza che aveva pascolato in troppe mandrie di bisonti. Posai le mani contro la parete, allargai le gambe, mi alzai sulle punte dei piedi lasciandomi perquisire. Andò bene; le sua mani sfiorarono il telefonino senza sentirlo. Addolcii le mie parole chiedendole il permesso di continuare gli esercizi ginnici che l’imprevisto appuntamento m’impediva. Un angolo di giardino mi sarebbe andato benissimo.
   “Ci ho rimesso la palestra pagata” calcai la mano. Mi guardò di traverso dicendo:
   “È domenica, e le palestre sono chiuse”.
   “Non tutte, e non la mia” risposi preparando tuta e scarpe. Provai a giocare un’altra carta.
   “A quale razza appartiene la signora in dolce attesa?” Cambiò tono.
   “Senti bello, mi hai scambiata per un ufficio informazioni?” Posai sul tavolo una banconota da cento euro, ci tenni sopra la mano, guardò la banconota, poi me, poi ancora la banconota.
   “Sono più muta di una statua” soffiò falsamente professionale.
   “Niente informazioni, solo consigli” alleggerii il dialogo.
   “Per esempio?”
   “Se è signorina, la domenica avrà il mandrillo. Se è sposata, non è detto che il marito vada alla partita” allargai le mani.
   “Si vede che il marito è lontano per affari. Magari telefona dall’albergo, lei vede il numero sul display che conferma la lontananza, scatta il desiderio di evasione.”
   “E poi?”
   “Magari ama conoscere il soggetto, volare alto fumando ciò che spinge verso il cielo.”
   “Capisco. E poi?”
   “Magari ha grosse possibilità, conoscenze importanti, amici pericolosi per i suoi nemici. Meglio tenerla buona.”
   “E poi?”
   “Il seguito è roba tua” concluse. Spinsi la banconota verso la sua mano che la fece sparire nella tasca. Mi tolsi scarpe e pantaloni, infilai la tuta e le scarpe ginniche, lasciai tutto nel borsone e la seguii. Ritornammo all’ingresso, lei entrò in ufficio, la vidi riflessa nel grande vetro mentre parlava con un giovincello. Gesticolarono parecchio, lei guardò l’orologio, ne ricavai una buona impressione. Uno dei tre computerizzati uscì dicendomi:
   “Vieni, mister muscolo”. Lo seguii per il solito corridoio, girammo a sinistra, attraversammo una specie di ripostiglio incasinato e puzzolente, ci fermammo davanti a una porta di legno malconcia, girò una chiave grossa come un manico di scopa, l’aprì regalandomi un bagno di sole.
   “Resta in questa zona per quaranta minuti, poi rientra. Dovrai fare la doccia” avanzò con aria poco simpatica. Lo trovai pruriginoso come le ortiche.
   “L’orologio mi è stato momentaneamente sequestrato” lo informai.
   “Regolati con quella. Sai cos’è?” si fece bello mostrandomi una meridiana stupenda con affrescati i quattro venti. Gli misi una mano sulla spalla, imposi alle mie labbra un sorriso d’occasione, lo avvertii:
   “Senti, piccolo mouse, se continui a fare lo stronzetto, mister muscolo, al ferro di quella meridiana, potrebbe appenderti”. Se ne andò sorpreso per l’inaspettata reazione. Misi gli occhiali scuri, mi sfilai i pantaloni lunghi restando in pantaloncini, staccai il telefonino da sotto l’ascella, lo nascosi nel fagottino che misi bene in vista. Cominciai a muovere braccia e gambe, guardai il sole, ero nella zona sud del giardino parecchio distante dal parco. Trotterellando in tutte le direzioni scrutai e memorizzai il vecchio contatore del gas, quello dell’acqua. Il quadro elettrico stava all’ingresso nella saletta dei computer. I giardini avevano i colori della bandiera italiana più quelli di mezzo mondo. Vidi i ripostigli degli attrezzi per il giardinaggio, girai attorno ad aiuole fiorite perfettamente pettinate, statue consumate dai secoli e patinate di muschio, due grotte artificiali, simili ad enormi gusci con vasche zampillanti, ninfee e pesciolini rossi. Di fianco un vialetto di cipressi nani che parevano fatti con lo stampo.
   Ogni tanto mi fermavo, eseguivo torsioni, pompavo flessioni e tutto il repertorio del palestrato. Mai in vita mia avevo respirato il profumo tanto forte di menta e rosmarino. Un meraviglioso cancello in ferro battuto, più elaborato di un labirinto,  impediva l’ingresso al parco; cardini e serratura erano perfettamente ingrassati. Colui che lo aveva fatto meritava almeno una targa, ma targhe per i fabbri non sono ammesse.
   Di essere sorvegliato ne ero certo per quella specie di prurito che mi ha sempre avvertito prima e mai deluso. Infatti, puntando la villa, vidi un occhio di falco dietro una finestra attraversata dal sole. Non si mosse, continuò a fissarmi facendomi capire che era là per me.
   Ripresi a trotterellare, individuai quattro telecamere di sorveglianza, una recinzione facile da saltare, un ripostiglio con ingresso buio tipo catacomba ma facile nascondiglio. Allo scadere dei quaranta minuti mi sedetti dietro una fontana, appiccicai il telefonino sotto l’ascella, infilai i pantaloni lunghi e rientrai.
   La biondona mi mostrò le docce, posò i miei abiti su uno sgabello, disse che avevo un quarto d’ora. Feci la doccia in pochi minuti, uscii e guardai dappertutto. Nel locale adatto a una piccola caserma c’erano tre docce, tre gabinetti con sanitari enormi già adocchiati che mi parvero parecchio antichi, due specchi di fronte alle docce, una panca, due sgabelli, un armadio con salviette, saponette, acqua di colonia e mentine per l’alito. Su uno dei tanti ripiani due asciugacapelli; sul pavimento tre tappetini di gomma antiscivolo.
   Una doccia era occupata da un giovanotto del quale la plastica quasi trasparente mi mostrava solo la sagoma. Come le toilette di tutto il mondo quei locali densi di puzze e profumi, a basso prezzo,  mi parvero l’anticamera dei disperati. Rischiai di perdere la poca stima che avevo di me stesso, ma reagii.
   Poco dopo ebbi la compagnia del giovincello che aveva scelto di percorrere la mia stessa strada; quella che forse portava verso il nulla. Aveva un bel faccino triste da cagnolino spaventato, un ciuffo di capelli gli sfiorava l’occhio destro, portava l’orecchino e un drago tatuato sull’avambraccio sinistro. Forse un anatroccolo sarebbe stato più adatto. Era sui venticinque anni, piuttosto agitato, l’aria parecchio insicura. Si era messo a sfogliare una rivista porno alla ricerca di un desiderio che la tensione gli negava. Più lo guardavo più lui evitava di guardarmi. Sbottai:
   “Rilassati e guardami negli occhi. La tensione gioca brutti scherzi e temi di fare cilecca”.
   “E tu… come lo sai?”
   “Lo porti scritto in faccia e nelle mani.”
   “Perché nelle mani?”
   “Non sai dove metterle.” Posò la rivista, si ripassò la salvietta sui capelli ancora umidi, si asciugò per bene volto e mani dicendo:
   “La scorsa settimana non sono stato all’altezza della situazione. La signora pesava quasi un quintale e sono andato assieme come la panna montata troppo sbattuta. Se cicco ancora mi cacciano” disse contrito mettendosi davanti allo specchio.
   “Scommetto che hai problemi finanziari, qualcuno a casa da mantenere, nessun lavoro e molte esigenze.”
   “Come fai a saperlo?”
   “Le storie della vita sembrano diverse ma, alla fine, s’assomigliano tutte. Prendi, non sbaglierai” e gli diedi una pastiglia che tenevo nascosta nella fibbia della cintura. “Guadagna tempo, ti servirà mezz’ora poi partirai come un missile” lo rincuorai. Si aprì dicendo anche ciò che avrebbe fatto meglio a tacere. Lo trovai un irrecuperabile groviglio di complessi.
   Finalmente comparve la biondona che mi fece cenno di seguirla. Salutai il pappamolla avviandomi verso la prima avventura.
   Percorremmo un corridoio deserto lungo una quindicina di metri, calpestammo un’antica passatoia a disegni geometrici, sfiorammo due leoni in marmo rosso, ci fermammo davanti a una porta senza pretese. Quella porta si apriva su una camera non vista due giorni prima. Pazienza. La biondona mi mise la benda bisbigliando:
   “La signora si chiama Begonia, ripeti.”
   “Non ripeto mai ciò che capisco al volo.” I cento euro di un’ora prima le impedirono di offendermi. Bussò tre volte, delicatamente. Dall’interno una voce in falsetto rispose “avanti”. La biondona mi accompagnò dentro, mi fece sedere su una poltrona, salutò la signora dicendo che le lasciava la copia della chiave, uscì e chiuse con tre mandate. Quel buio che mi avvolgeva mi fece sentire impotente come un pupazzo su un lastrone di ghiaccio inclinato.
   “Buon pomeriggio signora Begonia, come sta?”
   “Io benissimo, e tu?”
   “Anch’io benissimo; proprio come te.”
   “Siamo già al tu?”
   “È pratico, riduce le distanze, facilita l’approccio” chiarii subito. Evitai di spiegarle la mia teoria sui pronomi, sui titoli veri o fasulli, sull’ipocrisia di certi dialoghi.
   “Posso sapere a cosa devo il piacere di essere stato scelto?” le chiesi fingendomi curioso.
   “Ho visto le tue foto, mi sei piaciuto” sospese la frase. “Senti… se ti lascio togliere la benda, e mi dovessi incontrare assieme ad altre persone cosa faresti?” Risposi mantenendo la benda sugli occhi:
   “Fuori da questo posto non conosco nessuno. E spero che nessuno mi riconosca”. Silenzio.
   “Sei sposato?”
   “Non ancora.”
   “Allora sei fidanzato.”
   “Sono felicemente fidanzato” mentii.
   “Lei sa cosa vieni qui a fare?”
   “Sa che vengo a fare il mio mestiere: tecnico dei segnali d’allarme.”
   “Anche la domenica… come oggi?”
   “I segnali d’allarme quando impazziscono non guardano né il calendario, né l’orologio.” Si alzò, mi venne vicino, mi tolse la benda riportandomi nel mondo della luce. La ringraziai con un bacio sulla guancia. Il suo alito era ad alta gradazione alcolica. Era una di quelle che bevono per lubrificare l’idroguida del cervello.
   La osservai alla luce della finestra; una luce forte e di taglio in un salottino volutamente in penombra. Era magra, bruttina, con  i tratti pesanti come una scultura ricavata da un tronco d’ulivo, carica d’oro quanto la vetrina di un orefice. Si accomodò sulla poltroncina di fronte, la luce alle spalle, accavallò le gambe secche come manici di scopa, i seni flaccidi e cascanti, la pelle appassita nonostante i restauri. Pensai all’uomo che l’aveva scelta, forse per i soldi, alla sessualità di questa donna avvizzita, moglie oltre la sessantina, e allo sforzo di lei per riattizzarla ricorrendo al sesso a pagamento. Mi squadrò dall’alto in basso, da destra a sinistra imponendosi un sorrisetto provvisorio.
   “Vieni qui per arrotondare lo stipendio?” chiese agevolandomi il compito.
   “Nient’affatto. Vengo qui per una curiosità lunga quanto la mia vita. Inseguo favole per calibrarne la verità e la fantasia.” La vidi piacevolmente sorpresa.
   “Ma non mi dire… anzi… dimmi tutto. La mia curiosità potrebbe risentirne.”
   “Il barone e il tesoro della villa. Mio padre me ne parlò quando funzionavo col succhiotto.”  Sul suo volto s’accese una risata improvvisa e sonora. Stropicciò le labbra, inarcò le sopracciglia, alzò e abbassò la testa più volte.
   “E cosa sai di questo tesoro che io ignoro?” mi chiese aprendo la borsetta e sfilando sigarette e accendino. Allargai le braccia:
   “Qualcuno parla di un quadro prezioso, altri di una statua inestimabile, altri ancora di un cofanetto di pietre preziose. Tu di cosa parli?” provai a stuzzicarla.
   “La fantasia ha stravolto una verità sconosciuta” disse sottolineando le parole col gesto delle mani. “Un quadro no di certo, forse una statua, pietre preziose può darsi. L’ultima versione parla di antichi manoscritti.” S’era fermata, aveva aperto il pacchetto di sigarette, ne aveva estratte due dall’aria ambigua.
   “Continua, ti prego.”
   “Ma non mi dire… un altro cacciatore di tesori. Vuoi fumare?”
   “Dipende da quello che passa la tabaccheria” dissi pentendomi subito. Vidi subito che non gradì la parola tabaccheria.
   “Vuoi uno spinello? Vuoi sniffare? Ho il meglio ed è tutto pagato. Certe polverine fanno miracoli: ti portano sul tesoro senza volerlo.”
   “Non ora, grazie, sono e resto per il tradizionale. Se permetti mi prendo da bere. Cosa gradisci?”
   “Il meglio che abita in quella specie di frigo da quattro soldi” disse malamente. Mi presi una bottiglietta di acqua tonica, per lei tre dita di whisky con un solo cubetto di ghiaccio. Accese il suo veleno, me lo soffiò in faccia divertita; un alito caldo che sapeva di marijuana dall’odore intenso e speziato.
   “Non fumi, non sniffi, non bevi. Si può sapere che cazzo fai?”
   “Aspetto la tua versione sul tesoro della villa. Poi farò tutto ciò che vuoi.” Allungò le gambe, chiuse gli occhi pregustando quella specie di orgasmo velenoso, aspirò quella schifezza con professionalità. Disse:
   “In cosa consista quel tesoro nessuno lo sa. Troppe versioni sono volate tra queste mura. Di sicuro ti posso dire che la storia passa in eredità da padre in figlio, da illuso a deluso. In molti, in troppi hanno cercato un tesoro mai trovato”. Le feci tintinnare il whisky nel bicchiere, glielo avvicinai.
   “Non lo hanno trovato perché hanno cercato nei posti sbagliati” la incalzai sperando che continuasse.
   “Tu credi? Pensi da ingenuo. Chi lo ha fatto lo ha fatto bene: prima dentro, poi fuori, sotto i tetti, persino attorno alle fondamenta. Niente. Lascia perdere, è una stella troppo distante e finirà per spegnersi.” Lasciai che si avvelenasse in silenzio e quando finì le presi il mozzicone di veleno, lo schiacciai nel portacenere, le rimisi in mano il bicchiere di whisky.
   “Pensi che qualche irriducibile lo stia ancora cercando?” continuai a insistere.
   “Non credo. Che io sappia non si vedono movimenti sospetti. Se qualcuno lo fa lo fa di nascosto. Il modo migliore per non trovare un cazzo di niente.” Sorseggiò il liquore che dopo lo spinello avrebbe addormentato un bisonte. Alle mie domande alzò le spalle come chi ha esaurito ogni risposta. Smisi di insistere, mi accesi una delle mie superleggere, la guardai mentre navigava nel mondo dei sogni. Dalla tasca posteriore dei pantaloni presi la bustina di plastica, c’infilai il suo mozzicone, finsi di metterla comoda, infilai un cuscino sotto la sua testolina recuperando un paio di capelli, nascosi la bustina nel calzino sinistro. Le ascoltai il respiro, sentii il polso, mi parve in uno stato di dormiveglia. Accesi la luce, mi assicurai che non ci fossero microtelecamere di sorveglianza e col mio telefonino la fotografai, spedii le foto al mio computer e le cancellai dal telefonino.
   Poco dopo cominciò a russare piano, il respiro affannoso e triste col fischio di ritorno. Quando mi convinsi che non fingeva le aprii la borsetta: c’erano gomme da masticare, cipria e rossetti, la lima per le unghie, e tutta la mercanzia femminile.
   Il telefono che oziava sul tavolo dello stereo era simile al mio: colore grigio cenere, la cornetta inclinata, il cubetto di plastica che apriva la comunicazione e stava sotto la parte della cornetta destinata all’ascolto. Tenni la mano sinistra sul ricevitore, con la destra sollevai il microfono fin quando vidi spuntare il cubetto di plastica che apre la comunicazione. Lo bloccai con la gomma masticata, staccai il filo. Con la lima per le unghie della signora Begonia svitai l’unico vitino a forma stellare. La cornetta si aprì come una scatola di scarpe mostrandomi tutto il meccanismo interno. Vicino all’alloggiamento  del trasmettitore ci abitava una cimice. Misi tutto a posto, cancellai le impronte, spensi la luce, portai la borsa della signora Begonia vicino alla finestra per un esame accurato. Fotografai la carta d’identità che spedii e cancellai. La borsa era in coccodrillo beige, un manico vistoso, pietre semipreziose applicate nei punti critici, la firma di una grande stilista. Conteneva la chiave della Mercedes, il portafogli con quattro banconote da cinquecento euro più dieci di piccolo e medio taglio, il telefonino spento, cosmetici assortiti, un pacchetto di sigarette con due canne e due bustine per volare in orbita. Rimisi tutto a posto, andai alla finestra guardando uno spicchio di giardino sconosciuto.
   Dopo un’attesa di mezz’ora cominciai a stufarmi. Le andai vicino, il suo orologio segnava quasi le sei, l’accarezzai con una salvietta fin quando si svegliò, ritornando a fatica sulla pista di atterraggio.
   “Che ore sono?” farfugliò. 
   “Quasi le sei.” Si mise seduta per bene strofinandosi il volto.
   “Quanto tempo ho dormito?”
   “Parecchio.”
   “Cos’hai fatto mentre dormivo?”
   “Mi sono appisolato anch’io” mentii. Cercò la borsa, andai alla finestra lasciando che controllasse. Quando fu certa che tutto era in ordine andò dietro il paravento si sciacquò la faccia.
   “Per questa volta è andata così, la prossima sarà diversa. Ora devo andare, ti dispiace?”
   “Ci rifaremo la prossima volta” risposi baciandola sulla guancia. Prese la chiave arrivò alla porta, l’aprì. Mi mise in mano una banconota da cento euro dicendo:
   “Un regalo per te”.
   “Non ho fatto niente per meritarle, non sono un cameriere, non accetto mance.”
   “Potrei anche offendermi” bisbigliò cambiando espressione.
   “Il mio silenzio è una garanzia, anche senza compenso. Stai tranquilla.” M’infilò la banconota tra le dita, aprì la porta facendomi uscire e aggiungendo un semplice “ciao”.


   A casa feci il riepilogo. Stampai le foto, etichettai la bustina coi reperti della signora Begonia. Sulla pianta della villa segnai il contatore dell’acqua, quello del gas, le telecamere di sorveglianza e il quadro elettrico di fronte ai computer. Continuai con la recinzione, i punti più bassi, i possibili nascondigli. Trasferii tutto su dischetto, ci misi la data del 2 luglio, cancellai i dati dal computer e riposi il dischetto dietro la blindata dello sgabuzzino. Mi abbandonai sul divano pensando alle parole della signora Begonia: “La fantasia ha stravolto una verità sconosciuta. In molti, in troppi hanno cercato un tesoro mai trovato”.
   Per la prima volta rimasi sul divano senza sottofondo musicale. Capii che era grave. Come potevo io trovare ciò che molti altri cercarono inutilmente? Mi diedi inutilmente del pazzo. Indossai la fondina ascellare, c’infilai l’artiglieria, indossai il giubbino e cominciai a scendere. Plimpo era chiuso, cercai un posto per andare a cena, uno qualunque.

  




























6

Un socio di nome Alfio









   Alfio aveva i capelli d’argento, un cuore d’oro, i muscoli d’acciaio. Ma guai a pestargli i calli. Una vera macchina da guerra. Vantava anche parecchio cervello grazie al quale aveva collezionato risultati rari e difficili. Ma la macchina da guerra aveva compiuto sessant’anni e l’efficienza era tutta da verificare. Arrivato dal Sud coi pantaloni corti e povero in canna, s’era fatto una discreta posizione con unghie e denti. Si diplomò in ragioneria studiando di sera, entrò nell’Investigativa  divenendo un gallo i cui chicchiricchì sbalordirono capponi e galline del reparto.
   Lo ricordavo risparmiatore esagerato con due piccoli vizi: le granite al limone d’estate, il torrone d’inverno. Sul fumo si dichiarò felicemente sconfitto: non riuscì mai a smettere ma non superò mai le dieci fumate al giorno.
   A lui pensai davanti al tondo con le tre lepri; chiodo fisso piantato in testa. Pensavo:  quale invisibile filo legava animali e persone? Non lo sapevo. Ma qualcosa dentro di me mi suggeriva che era in quella direzione che andava puntata la bussola.
   Nella villa ero entrato tre volte, di quell’immensa struttura avevo visto poco, un piano per iniziare la ricerca della valigia non riuscivo manco a imbastirlo. Nuotavo nelle sabbie mobili e faticavo a stare a galla. Pensavo: indietro non si torna, così non si avanza. Che fare?
   Mi serviva un aiuto fidato, ma l’idea di dividere il bottino mi procurava l’orticaria. Sfogliai la rubrica dei ricordi alla ricerca del manico giusto; sfilarono nella mia mente amicizie, conoscenze, elementi pieni di parole, pochi soggetti buoni per i fatti. Scoprii la sorpresa della selezione: setacci, setacci, e alla fine resta una manciata di sabbia. C’era il tignoso Lionello; bravo e deciso, ma troppo avido. Per i soldi avrebbe rapinato una pesca di beneficenza. Mi ricordai di Angelino, soprannominato l’Intellettuale; uomo dalla mentalità contorta come una vite senza fine. Poteva bloccarti mezz’ora per spiegarti come si pettinano le tartarughe. C’era Bruno, soprannominato Bruto, sempre a caccia di sottane: “Selvaggina da ferma con due belle gambe e…” continuava a ripetere fino alla noia. Sostai mentalmente una decina di minuti su Gianluca; dinamico, intraprendente, sempre teso e sempre di corsa. Chissà se trovava il tempo di grattarsi dove gli prudeva. Era in ritardo su tutto, vita compresa. Aveva sempre un sacco di cose da fare tipo il pieno alla stilografica o la punta alla matita. Alla fine mi dissi che quelli che parevano i migliori erano solo una massa di coglionazzi.
   Alfio Portalupi mi parve l’unico: ex poliziotto dell’Investigativa, da poco in pensione, riservato e capace. Ogni tanto lo incontravo al poligono di tiro, scambiavo quattro chiacchiere, sapevo che si annoiava a morte, accettava piccoli incarichi pur di essere impegnato e guadagnare qualche euro. Frequentava la mia stessa palestra, faceva nuoto, correva attraverso i campi. Il fisico era da quarantenne, come lui sosteneva, il cervello pareva ancora scattante, aveva tantissima esperienza e un carattere al peperoncino. Era l’uomo giusto? Gli telefonai. Mi disse di raggiungerlo dopo cena davanti a casa sua.
   “Come te la passi da pensionato?” gli chiesi stringendogli la mano.
   “Male. Mi manca il lavoro e certe giornate d’inverno mi pare  d’impazzire. Temo di rincoglionire giorno dopo giorno. Qualche volta mi gratto anche dove non mi prude.” Portava scarpe da tennis, jeans troppo larghi, t-shirt pulitissima, una camicia con maniche corte troppo scura. M’invitò a salire per il caffè ma rifiutai dicendogli che l’avevo già preso e preferivo camminare. Volevo tener fuori la moglie.
   “Qualche giorno fa ho compiuto sessant’anni e sono nella discarica come un ferrovecchio.”
   “Allora avrete festeggiato” dissi provando a sollevargli il morale che gli era caduto nel tombino.
   “Non festeggio l’invecchiamento come i vini pregiati.”
   “Caro Alfio, ti porti sul corpo i segni della verità del tempo. E te li porti benissimo.    Lavori?” gli chiesi posandogli una mano sulla spalla.
   “Se lavoro? Pesco nel torbido per restare impegnato e arrotondare la pensione.”
   “Che significa pesco nel torbido?”
   “Accetto quattro soldi per scoprire le infedeltà coniugali. La cosa mi schifa, ma i soldi no. Alla mia età sei considerato vecchio per tutto e tutti. Oggi è così; ti mettono la data di scadenza come l’insalata russa del supermercato e quando scadi buonanotte. Un giorno capirai.”
   “E questa schifezza di lavoro la fai da solo?”
   “Nooo, con una equipe di guardoni al mio servizio” rispose con un sorriso triste  come il cielo della Finlandia quando è brutto. Non si era seduto, anzi, la voglia di lottare gli era rimasta. Dopo una chiacchierata di dieci minuti mi convinsi che portava a spasso un testone ancora pimpante. Lo facevo parlare studiandolo, lui rispondeva studiando me. Stavamo al gioco.
   Erano le otto e mezza di una calda sera d’estate. M’informò che con lui si camminava; gli risposi che con me si correva.
   “Visto che sei venuto a cercarmi, posso sapere cosa fai di bello?” mi chiese a bruciapelo.
   “Ho accettato un incarico.”
   “Un incarico… vuoi dire una missione?”
   “Qualcosa del genere.”
   “Me ne vuoi parlare?”
   “Non ancora, è presto.”
   “Non ancora, è presto, vaffanculo. Cos’è, top secret?”
   “Esatto. E come te sono solo. In questo sporco mondo un uomo solo è niente. Guardiamoci: non siamo niente, non siamo nessuno” dichiarai con enfasi.
   “C’è chi nasce ricco e bello senza meriti, e chi nasce povero e brutto senza colpe. Tu sei nato pirla e basta” aggiunse con lo spirito giusto.
   “Senti Alfio, esci dal buco. C’è ancora posto nel tuo cervello per una proposta?”
   “Volentieri, paghi tu?”
   “Pago io, ma non molto.”
   “Lo sapevo. Prima del sì o del no voglio elementi.” Eravamo arrivati vicino a una specie di parco giochi bombardato dalla maleducazione: erba secca, i cestini dell’immondizia stracolmi e puzzolenti, uno scivolo sbilenco, una giostra a spinta arrugginita, un’altalena da rompersi l’osso del collo, cartacce e plastica dovunque. Funzionava la fontanella col pulsante. C’erano alcune madri col pupo, un paio di nonni coi nipotini, un pompiere in divisa chissà perché, due ragazzini col biciclettino bardati come professionisti. Ci rinfrescammo alla fontanella. Mentre spiegava il fazzoletto per asciugarsi disse:
   “Oggi si lavora coi computer, palmari, GPS e tutta l’elettronica che cambia generazione ogni mese. Tu questa tecnologia l’hai afferrata al momento giusto e ci giochi, io ho difficoltà col telefonino. Pensaci bene”. Imboccammo una via con qualche vetrina ancora accesa; si fermò a guardare  i televisori, poi un’erboristeria, infine una ditta di bruciatori per l’inverno e aria condizionata per l’estate. Più avanti sostò davanti a una ferramenta.
   “Alfio, sono qui perché sei l’uomo giusto.”
   “Chi lo dice?”
   “Il mio fiuto… e quello non sbaglia mai.” Mi offrì una gomma da masticare mugugnando:
   “Allora siamo fritti come due porzioni di calamari” scherzò tirandomi un pugno leggero sulla spalla. “Ripeto: prima di decidere voglio elementi, sapere di cosa si tratta e niente trucchi.”
   “Giusto” ne convenni “ho tutto il materiale in macchina, vuoi vederlo?”
   “Certo che lo voglio. Dove lo vediamo?”
   “In macchina.” Si guardò attorno.
   “Non si guardano certe carte chiusi in una scatola” rispose deciso.
   “Chi c’è a casa tua?”
   “L’aquila, ovvero mia moglie, forse mio figlio, il secondo. Lasciamoli fuori.” Pretese di tornare alla mia macchina con passo spedito. M’informò che conosceva un bar con tre salette, chiuso la domenica ma aperto il lunedì.
   “È la zona più malfamata della città. È piena di pirla che stanno a ravanare giorno e notte. Ti va bene?”
   “Mi va benissimo” risposi sorridendo sul suo modo di parlare settentrionale.
   Ci arrivammo in una decina di minuti a velocità di crociera. Durante il tragitto prese la cartella con le carte, la nascose in un vecchio giornale.
   Entrammo, parlò col proprietario come a un amico che ci precedette in un localino deserto. C’erano tre divanetti con tre tavolini, ognuno avvolto da un traballante separé, il tutto color verde lattuga. Le luci erano per pomiciate improvvisate, lui chiese più sole e fu accontentato. Ordinammo una granita al limone per lui e un’aranciata amara per me. Quando arrivarono le bevande gli chiese se potevamo fumare.
   “Per l’amico Alfio questo e altro” rispose, portandoci subito un portacenere. Il proprietario era di carnagione chiara tanto che pareva scolpito nel marmo di Carrara, il sorriso sincero sotto il naso, le rughe profonde tracciate sulla fronte. Anche i capelli erano bianchi nonostante arrivasse sì e no alla cinquantina. Quando fummo soli cominciai con le foto messe in ordine.
   “Questo è il dottor Magistrali, diciamo il committente.” Spiegai l’incarico brevemente. Infilò il cucchiaino nella granita, mise la foto bene in luce, l’analizzò in silenzio per un paio di minuti. Senza staccargli gli occhi disse:
   “Descrivimelo”.
   “È un dinosauro sopravvissuto a se stesso, ai suoi desideri, pronto a sbavare per un foglio di carta. Non è un mangiacrauti. Si ciba di aragoste, caviale e tartufi. Il tutto innaffiato di Dom Perignon. È uno di quelli che non dimentica, molto teatrale. Mi ha fatto percorrere quella specie di aeroporto avanti e indietro per sbalordirmi. Ha uno sguardo capace di dilaniarti, scivola sulle difficoltà come un rettile sulla sabbia.” Aggiunsi altre mie impressioni sull’uomo, descrissi l’ambiente, le tre valigie, l’incarico accettato. Pretese una maggiore descrizione delle mie impressioni sull’uomo. Continuò a guardare la foto poi disse:
   “È uno di quelli che non ammettono sbagli, vero?”
   “Gli infallibili non esistono; neanche per lui” risposi.
   “Mi sembri troppo superficiale. Davanti a un incarico del genere dovevi tirarlo fuori dal guscio.” Continuò a guardare la foto, si grattò le sopracciglia poi, spostando l’immagine di fianco disse: “Ha lo sguardo volpino di chi capisce tutto e conclude velocemente”.
   Lasciai perdere e andai avanti.
   “Questo è Abdel, domestico extracomunitario con tanto di pedigree: tre merdine nere tatuate tra il pollice e l’indice della mano destra. Credo me le abbia mostrate di proposito.”
    Lasciò per un attimo la granita, inspirò aria poi, guardando la foto, disse:
   “È stato in un supercarcere e se ne vanta. È, o è stato, un delinquentello; i giovani riflettono poco, sparano subito, muoiono prematuramente. Trovano il coraggio nelle polverine o nelle siringhe. Gli hai visto dei buchi nelle braccia?”
   “Impossibile: aveva le maniche lunghe.” S’infilò un dito nell’orecchio sinistro poi disse:
   “Andiamo avanti.” Passai alla foto successiva.
   “Di questo ghigno ignoro il nome, ma preferirei dormire in una tana di serpenti che vicino a lui. L’ho chiamato il Tagliagole.” Posò la foto contro il mio bicchiere, la studiò in silenzio per un paio di minuti, continuò con  la granita poi disse:
   “Questa faccia non mi piace. È la grinta di un delinquente professionista: sguardo tagliente tipo ghigliottina, espressione priva di umanità, baffi ferrosi. Pessimo soggetto: me lo dice il mio fiuto con quarant’anni di esperienza. Questo succhia le sue vittime come una vongola e se si ricorda sputa il guscio”.
   “Concordo in pieno” risposi alzando meglio la foto.
   “Bisognerebbe sapere da quale letamaia è uscito.”
   “Provaci.”
   “Provaci un cazzo. Fai presto tu. Sono fuori dall’arma e ho solo una mediocre foto.” Provò ad arrabbiarsi.
   “Piagnucoli come una vedova per alzare il prezzo.” Finse di non sentire la battuta cattiva detta senza cattive intenzioni. Continuai con le immagini.
   “E questo spermatozoo chi è?” esclamò.
   “Mi aspettava davanti a una palazzina liberty. È un occhio di falco.”
   “Per me è solo un occhio di pernice, quelli che crescono sulle dita dei piedi e procurano solo fastidio. Continua.”
   Passai alla foto di Ellen, la palazzina liberty vista dai giardinetti, la prima visita in villa. Tirò fuori le sigarette e partimmo con la prima fumata della sera. Lui finì la granita, io l’aranciata amara.
   “Pare una cocotte d’alto bordo, stagionata ma capace di svuotare portafogli importanti. Dimmi la tua impressione” mi chiese studiando l’immagine.
   “Si da più arie di Trieste con la bora” risposi.
  Le foto scattate in villa gli parvero meno interessanti e meno pericolose. Tirò un paio di boccate elaborando in silenzio tutti i dati nel suo cervellone. Conoscendolo ne ero certo. Prima di parlare si fumò mezza sigaretta, calmo, impenetrabile, come niente fosse.
   “Quest’immagine della villa la conosce il mondo intero. L’ho sempre vista da fuori… hai una pianta?”
   “Certo, ma a casa.”
   “La villa è enorme, lo spazio che la circonda immenso. Hai un piano?”
   “Non ancora, solo molte idee.” Silenzio. Finì la sigaretta guardando l’ultimo filo di fumo, scosse tristemente la testa poi disse:
   “Riassumo: in questa missione il cui bottino sono carte antiche girano troppe brutte facce e parecchie armi. Tu hai accettato di trovare una valigia in questa immensità. Una valigia che altri hanno cercato invano per uno o due secoli, o tre poco importa. Darti del pazzo è farti un complimento. Datti alla fotografia, o all’ippica”.
   “Senti Alfio, non ti ho cercato per giudizi negativi o consigli folli. Cerco un socio.” Scrollò la testa in un modo che non lasciava dubbi.
   “Se non la trovi dovrai rendergli gli anticipi, magari anche i soldi per le spese, con gli interessi. Per la delusione, e per tapparti la bocca, ti apriranno in due come un’anguria.”
   “Senti Alfio, si muore una sola volta, ma non in questa missione.”
   Avevo tenuto per ultime la foto con le tre lepri, e quella con la chiave in mano. Con davanti la penultima chiese:
   “È il distintivo dei giovani leprotti? Ti dai alla caccia?”.
   “Esatto. Alla caccia del significato dei tre leprotti” risposi seccato.
   “E al collegamento che ci sarebbe tra persone e selvaggina. Perché, secondo te, un collegamento esiste” disse grattando il fondo del bicchiere. “Tre animali, forse tre persone, tre problemi forse…” buttò là. Mise le mani in tasca, allungò le gambe, spinse indietro la sedia restando in equilibrio sulle gambe posteriori. Guardò il soffitto mordendosi le labbra.
   “Ti pago il disturbo se mi scopri il significato del tondo con le tre lepri” provai a coinvolgerlo. Poi gli misi in mano la foto in cui tenevo il pacchetto di sigarette con la chiave del salottino. Dissi:
   “Mi serve una chiave come questa. Le misure sono ricavabili dal pacchetto di sigarette. Ci stai?”
   “Quanto tempo mi dai?”
   “Il meno possibile.”
   “Lo immaginavo. Guarda cosa ti capita a finire pensionato. Da dove comincio?”
   “Dal primo ristorante che offre la lepre” rimandai spiritoso.
   “Ti propongo di chiamare questo casino di missione Operazione Lepre in Salmì. Ti piace?” Mi faceva semplicemente schifo, ma concordai con entusiasmo.
   “Ora ti sparo qualche domanda; risposte sincere e guardami negli occhi” pretese in tono perentorio. E in quel momento capii che me lo stavo giocando.
   “Spara.”
   “Di questa missione a chi devi rendere conto?”
   “A me stesso, sono in vacanza.” Sospirò forte, si grattò la fronte, scosse il capo.
   “Cominciamo male. Ti pianto subito. Ripeto: i dati di questa missione a chi li presenti?”
   “Al solito capo.”
   “Vuoi dire Anaconda?”
   “Proprio lui.”
   “Fin dove ti ha permesso di spingerti?”
   “Fin dove voglio, nessun limite.”
   “Cavolo… stento a crederci. Quello non è tipo da…”
   “In questo caso lo è” risposi con orgoglio.
   “Sarà… ma io stento a crederci.” Gli spiegai che si prevedeva un bottino talmente importante che lo aveva convinto a optare per una specie di infiltrato concordato col committente. Un bottino talmente importante che, se scoperto, non doveva assolutamente lasciare l’Italia.
   “A fine missione lascio l’Arma, mi metto in proprio, entro in società con un vecchio amico proprietario stanco di una palestra. Un anticipo, il resto un tanto al mese fino all’esaurimento del debito.”
   “Complimenti; cominci bene. Io sarò il tuo primo cliente.” Il finale della missione lo recitò lui che aveva colto al volo l’epilogo della storia.
   “Se le cose vanno bene il merito è loro, se vanno male la colpa è tua, vero?”
   “Verissimo. A me resterà il compenso” rimandai.
   “Certo. Ne parleremo quando lo avrai in mano” concluse da menagramo. Ragionò in silenzio per un paio di minuti. Bussarono. Rapido come un fulmine ammucchiò le foto, io corsi davanti alla porta dicendo avanti. Era il proprietario, chiese se gradivamo ancora qualcosa, guardò l’orologio.
   “A che ora chiude?” lo anticipai.
   “Tra dieci minuti. È lunedì e non c’è più nessuno.” Alfio prese un’altra granita, io un Crodino con molto ghiaccio.
   “Anaconda ti ha mostrato il dossier del committente?”
   “Me lo ha mostrato, anche se dice poco” precisai.
   “Il committente sa da chi prendi ordini?”
   “Sa che sono in vacanza, mi considera fuori dall’Arma e non prendo ordini da nessuno. Il mio nome glielo ha fatto Anaconda.”
   “Quindi i due si conoscono, magari sono pure amici” disse centrando l’obiettivo. “È un gran casino, sento puzza di bruciato, in quella valigia c’è qualcosa di grosso, molto grosso” bofonchiò. “Accetto di far luce sui leprotti e di farti fare la chiave se rispondi alla domanda più importante guardandomi dritto negli occhi.” Piantai i miei occhi nei suoi.
   “Quanta grana ti verrà in tasca se trovi la valigia?”
   “Mezzo milione di euro” mentii. Continuò a fissarmi in silenzio.
   “E se per caso accettassi, dico per caso, che fetta avrei della torta?”
   “Quando lo accetterai lo decideremo di comune accordo.” Rimase immobile con la faccia di pietra. Si passò le mani sui capelli grigi, scosse il testone dicendo:
   “Una missione la si può risolvere in un solo modo: quello giusto. Gli altri cento sono tutti sbagliati. Andiamo” disse alzandosi.
   Pagai le consumazioni e uscimmo con le foto nascoste nel giornale. Gli dissi che poteva tenerle, io ne avevo copia. Salimmo in macchina e in pochi minuti fummo dalle parti della sua casa. Accennai alla foto della chiave.
   “Non amo parlare chiuso in macchina; usciamo” pretese deciso. Smontammo subito.
   “Ho messo le misure esatte della mano, delle dita e del pacchetto di sigarette. Il laboratorio in cui facevate quei lavoretti favolosi me ne dovrebbe fare una copia. Pago il disturbo.”
   “Me lo hai già detto, sarà fatto.” Mi chiese di prolungare la passeggiata; non aveva sonno e camminare faceva bene alla salute. Accendemmo l’ultima, tirò un paio di boccate poi disse:
   “La mia impressione è che sei entrato in un labirinto. Conosci le regole per uscirne? Ammesso che da questo tu ne possa uscire”.
   “Certo, col filo come quel tale; come si chiamava?”
   “Teseo si chiamava, somaro.” Finimmo la sigaretta vicino alla fontanella. Una prostituta extra-large ancheggiava sul cordolo del marciapiede. Ci lanciò un’occhiata invitante, capì che non era aria, si concentrò sulle rare macchine che transitavano in seconda.
   “I primi dati sull’Operazione Lepre in Salmì te li telefono?” mi chiese guardandosi attorno.
   “Meglio di no. Ci vediamo, oppure me li infili sotto la porta. Evita la cassetta della posta, chiaro?”
   “Hai la porta blindata?”
   “Ne ho due: quella d’ingresso e quella del ripostiglio dove tengo l’artiglieria, i debiti e i ricordi. Materiale che non deve vedere il sole, ma solo i miei sentimenti.” Sorrise spingendo in fuori le labbra.
   “Le mie carte passano sotto la blindata?” chiese con pignoleria.
   “Certo, purché non siano spesse come un mattone.”
   “Tutto chiarissimo: telefono controllato, cassetta sorvegliata proprio come noi in questo momento. E magari fotografati con pellicola agli infrarossi.”
   “Ne sei sicuro?” gli chiesi sorpreso.
   “Sicurissimo. Prima regola: comportarsi come chi non si sente sorvegliato. Seconda regola: abbassare la voce. Vedi, caro amico, con trent’anni meno di me, tu sei bravo a seguire senza farti notare, io sono bravo a notare chi mi segue senza darlo a vedere. E’ da quando sei arrivato che hai una calamita attaccata al culo.” Era ancora sveglio come un tempo.  Gli chiesi:
   “Quanti sono e su che mezzo?”
   “Per ora solo un motociclista.” Mi venne la solita sciocca idea e gliela proposi:
   “Fingiamo di litigare, se quello ci crede tu ne resti fuori”.
   “Fingiamo di non averlo visto; non mi vanno i tuoi cazzotti per quello stronzo.” Camminammo ancora a vanvera senza voltarci puntando verso una via qualunque.
   “Più che una missione mi pare un gran casino” disse agitando le mani. “E’ un palcoscenico troppo affollato. Se non mi apri il sipario dopo le informazioni sui leprotti ti mollo.” Mi convinsi che faceva sul serio. Era in pensione, teneva famiglia e certi rischi non erano per chi aveva superato la data di scadenza. Dovevo tenermelo buono per non perderlo.
   “Dopo le informazioni ne parliamo. Ti voglio al mio fianco, in due come i testicoli.”
   “Bravo, come due coglioni, questa mi piace. Intanto vedi di capire chi sono i tuoi alleati e chi gli avversari. Se ne sei capace.” Buttammo la cicca, ci rinfrescammo ancora alla fontanella e, guardandomi indietro vidi il motociclista a una trentina di metri.
   “Ora andiamo a nanna” propose finalmente. “Domani mi muovo. Farò un lavoretto che potevi benissimo fare tu, ma ho capito il tuo gioco. Dovremo dare aria al cervello, risolvere questo caso sarà come scalare l’Everest.”
   “Ciao nonno, buonanotte. Quello me lo tiro dietro io, così non vedrà dove abiti.”
   “Ciao nipote, non dormire troppo, questo è un caso per uomini svegli.”
   Me ne stavo andando verso la macchina quando mi raggiunse al piccolo trotto.
   “Senti, nipote, ho appena letto un romanzo in cui il capo li bidona tutti e scappa con bottino e amante. Te lo presto?”
   “No grazie, messaggio ricevuto.” Erano le due, molte stelle bucavano il telo nero della notte, entrai in macchina, finsi di fare un paio di manovre, mi mossi lentamente. Alfio era già sparito, e quando vidi il faro dell’inseguitore alle mie spalle lasciai che mi seguisse.
7

Un vecchio libro sulla villa









   La mattina dopo mi svegliai prima delle otto, preparai il caffè che sorseggiai sul balconcino con sottofondo di telegiornali, dialoghi tra inquilini, il pianto ostinato del solito pupo ostinato, passi sulle scale. Da qualche parte un segnale d’allarme ricordò a qualcuno di esistere. Durò poco. Il sole era tiepido, l’aria trasparente, la vita sempre bella.
   Decisi di lavorare al segnale d’allarme per arrivare a un preventivo meditato. Dovevo improvvisarmi tecnico di un lavoro mai fatto. Ormai mi ero convinto che nessuna proposta sarebbe passata, e chi ne era contrario aveva validi motivi per esserlo. Ma questo era un altro problema. Nel faldone datomi dal committente avevo tutto: prezzi delle centraline via radio, sirene esterne, perimetrali via radio, telecomandi, costo delle ore lavorative dei tecnici e degli aiutanti, molti altri dettagli. Il bello di questa soluzione consisteva nel fatto che i rivelatori via radio si fissavano alle porte, alle finestre, alle portefinestre senza toccare i muri. E quelli della villa, quasi completamente affrescati da grandi artisti, erano muri preziosi.
   Allargai la pianta della villa, segnai i serramenti a cui fissare i rivelatori, calcolai il numero, i tempi di posa, i tempi morti. Scelsi la centralina che immaginai ubicata nell’ufficio dei computerizzati. Cominciai a scrivere una brutta copia a mano usando un linguaggio chiaro, sintetico, volutamente commerciale. A destra del foglio i singoli pezzi col prezzo, a parte elencai le ore presunte. Arrivare al totale fu facile; applicai lo sconto per un pagamento in contanti, niente sconto per un pagamento dilazionato in quattro mesi, con ricevute bancarie, a partire dalla fine dei lavori.
   Di manuale delle istruzioni ne avevo una sola copia e lo avrei fotocopiato assieme ad altri dettagli. Quella abbozzata di corsa mi parve una buona proposta. Ma per entrare là dentro più volte pensai di prepararne una più sofisticata, quindi più costosa, e una terza più economica. Più che una fatica mi parve un divertimento. Stavo rileggendo il tutto quando suonò il campanello della porta. Mi avvicinai alla blindata senza posare l’occhio sullo spioncino. Il ricordo di un amico che si era fatto trapassare il cranio con una calibro 45 lo tenni sempre presente.
   “Chi è ?” chiesi tanto per chiedere.
   “Sono Iole… l’ho vista sul balconcino” feci scattare la ferraglia di sicurezza immaginando la sua richiesta.
   “Volevo sapere quando posso ripulire la porcilaia” disse entrando senza essere invitata.
   “Oggi pomeriggio dopo le tre, le va bene?” Le andava bene. Guardò dovunque, come un ufficiale d’ispezione, scuotendo malamente la testa. Era una gran ficcanaso, più curiosa di una moglie gelosa.
   “La biancheria sporca la lava e stira la Iole o il signorino va in lavanderia?”
   “Lavata e stirata dalla signora Iole. La lascio nella borsa sullo zerbino.” Non l’avessi mai detto: alzò gli occhi al cielo imponendomi di evitare lo zerbino perché pieno di bestioline invisibili. Sul letto la voleva, sul letto l’avrei lasciata.
   Avevo da fare, ma la feci accomodare sperando che quella comodità durasse poco. Aveva i capelli tinti di nero, la pettinatura ad onde marine tipo Tsunami, la bocca ridicola per la mancanza di un canino. Indossava un vestito leggero tipo giardino fiorito. Lo guardai con piacere sentendomi chiedere:
   “Le piace vero?”
   “Moltissimo. Con tutti quei fiori addosso faccia attenzione alle api.” Sorrise appena per non mostrare i denti.
Che il mio piccolo regno fosse quasi una porcilaia era vero. Lei era stata via otto giorni e l’unica pulizia che avevo fatto era stato il sacchetto dell’immondizia. Non avendo un tavolino da salotto le misi davanti la sedia del computer, presi il centrotavola pieno di cioccolatini sopra lo stereo e lo posai sulla sedia. Ne gustammo uno a testa. La pregai di prendere qualcuno per il marito che stava rintanato al piano di sopra.
   “Com’è andata a Sanremo?” le chiesi appena le vidi la bocca in pausa.
   “Bene e male. Bene il viaggio e tutto il resto. Male per mia sorella…”  sospirò alzando le mani al cielo “conciata com’è ci vorrebbe un santo più importante di Sanremo. Sant’Antonio, san Francesco o chi so io.” Mi risparmiò l’elenco delle sue devozioni. Sapevo che la sorella era malmessa, ma evitai i dettagli.
   Per la terza volta mi ricordò che le due settimane a cavallo del Ferragosto sarebbe tornata a Sanremo, con quel bue di suo marito. Il bue, come diceva lei, era un bonaccione settantenne, pompiere in pensione con la casa piena di estintori. Quattro li aveva venduti pure a me. Ne parlava con tale foga e passione come chi è convinto, con gli estintori, di salvare il mondo. Collezionava distintivi, mostrine e fregi militari, frequentava tutti i mercatini che esponevano cianfrusaglie.
   Lei aveva sessantacinque anni, magra come un trampoliere, fumava come un turco, beveva come un russo, era grintosa e rompicoglioni come un sergente dei marine. Come il marito era pensionata, onesta nelle pretese, precisa nelle pulizie. Mi trattava come il figlio discolo e disordinato, mi beveva il limoncello, il bianco frizzante nel frigo, ma non toccava l’aranciata amara. A fine mese mi lasciava sul divano il biglietto delle ore dedicate alla pulizia, più l’importo lava e stira.
   “Una raccomandazione” le dissi in tono minaccioso ma offrendole altri cioccolatini “lei ha la chiave; non la dia a nessuno, per nessun motivo. Chiaro?”
   “Capito. A nessuno e per nessun motivo. E quando vado a Sanremo?”
   “Se la porta dietro chiusa in valigia” dissi alzandomi. “Chiaro?” La salutai con un bacio sulla fronte, l’accompagnai alla porta, se ne andò borbottando contro le mie insistenze.
   Tornai al lavoro. Feci l’elenco delle fotocopie, ci aggiunsi il manuale delle istruzioni pure da fotocopiare e verso mezzogiorno andai da Pier, l’amico fotografo.       Appena mi vide lanciò la solita frase idiota:
   “Fermi tutti, è arrivato il treno ad alta velocità”. Scivolai dietro al banco, presi un raccoglitore, ci agganciai all’interno cento buste trasparenti, gli mostrai il materiale da fotocopiare. Guardò, riguardo, spinse in fuori il labbro inferiore poi, dall’alto delle sue capacità fotografiche, mise a fuoco la vista ma non il cervello. Non convinto girò ancora i fogli, strabuzzò gli occhi, sparò un’altra cazzata:
   “Segnali d’allarme per la famosa villa. Bene… benissimo. L’amico si è trovato un secondo lavoro”.
   “Senti Pier, invece di faro lo stronzo fammi le fotocopie” tagliai corto. Stava servendo una coppia di giovani innamorati in partenza per l’Egitto. Erano in orbita, sognavano notti d’amore al chiaro di luna cullati dalle dolci onde del Nilo, il richiamo lamentoso del muezzin, il fascino delle mille e una notte. Trattavano l’acquisto di una fotocamera digitale che trovavano difficile da usare e costosa da acquistare. Intervenni a favore di entrambi sproloquiando:
   “Questo che avete davanti è un raro esemplare umano di grande fotografo: una specie di scimmia estinta. Siete in buone mai” calcai la mano indicandolo. “Gli ingrandimenti alle pareti sono il suo biglietto da visita: degni di un grande museo.” Presi la fotocamera, controllai che ci fossero scheda e batterie, studiai un attimo l’obiettivo, impostai il programma automatico e fotografai i due piccioncini innamorati. Il risultato che ammirarono sul display li convinse all’acquisto. A quel punto il giovane pendeva dalle labbra di Pier, lei pendeva dalle labbra di lui, l’agendina pendeva dalle mani di lei che la riempiva di appunti. Nessuno pendeva dalle mie labbra che fui la causa dell’acquisto. Pagarono e se ne andarono convinti e soddisfatti.
   “Ciao Pier, sembri un pesce surgelato spacciato per fresco.”
   “E tu uno stronzo andato a male” sorrise di traverso. Conoscendolo sapevo che tutto il suo spirito era una maschera che metteva entrando in negozio la mattina e la toglieva quando abbassava la saracinesca.
   Ci piazzammo davanti alla fotocopiatrice che iniziò a sputare fogli tra lame di luce.
   “Qualche volta spari troppe domande. E per  giunta a voce alta” dissi sottovoce.
   “E tu mi ricambi con troppi silenzi.” Gli spiegai che stavo facendo un favore a un amico e che, proprio per questo, non volevo sbandierare la cosa. Aggiunsi che lui, Pier, era una filodiffusione.
   “Quell’amico vuole la fattura?”
   “Sei già tu una fattura, Pier. Basta lo scontrino, si fida.”
   “Allora mi hai raccontato una balla. Fa niente, ti conosco.”
   Dieci minuti dopo mi consegnò il malloppo, pagai il conto e lo invitai al bar. Volevo sentire le ultima notizie sulla salute della moglie. Siccome era l’ora dell’aperitivo ordinai due Crodini; il mio con parecchio ghiaccio.
   “Voglio buone notizie sulla salute di tua moglie” dissi subito fingendomi carico di ottimismo.
   “Sono quelle della settimana scorsa. Di giorno faccio tutto il possibile, la notte prego.”
   “Ti sono vicino” lo incoraggiai posandogli una mano sulla spalla. “Il mio fiuto dice che guarirà.”
   “Chissà che il tuo fiuto, una volta tanto, ci azzecchi. Ti ringrazio” bisbigliò commosso dandomi una pacca sulla spalla.



   A casa suddivisi il materiale in due raccoglitori; uno per la villa, l’altro per me. L’offerta in bella copia l’avrei scritta col computer la sera stessa. Erano le due del pomeriggio e lo stomaco reclamava i propri diritti. Svaligiai il frigo, bagnai tutto con un buon bianco frizzante e acqua minerale. Mezzo melone da favola chiuse una malinconica mangiata solitaria.
   Telefonai alla libreria; il librone sulla villa era arrivato. Presi la valigetta con la pistola del committente ma siccome dava troppo nell’occhio la infilai in una borsa del supermercato. Informai la signora Iole che la tana era libera, scesi dall’amico Plimpo per un caffè che rimediasse al dispiacere dei panini.
   “Caffè normale o super?” mi chiese voltandosi verso la vaporiera.
   “Fammelo Diesel, visto il sapore da carburante che hanno tutti i tuoi caffè.”
   “Allora spingi il culo fino al distributore”  aggiunse prontamente. Per le tre gocce di grappa mi passò la bottiglia.
   “Correggitelo tu, visto che io sbaglio sempre dose” mugugnò. Lo guardai mentre sorseggiavo la delizia nera: i goccioloni di sudore che gli colavano dalla fronte, il faccione da bull-dog più gommoso del solito, l’espressione talmente triste che con le lacrime avrebbe potuto farsi il bagno. Era proprio vero che sorrideva a Natale, Pasqua e Ferragosto; ma a Ferragosto mancava un mese e mezzo. Serviva i clienti, fingeva di parlare coi perditempo, dava brevi ordini al garzoncino, sorvegliava i videogiochi  con un occhio al televisore e l’altro al giornale. Sognava di arricchirsi col gioco, di fare il colpo grosso, ma quel punto debole gli ripuliva le tasche. Quando vide che stavo per andarmene sentenziò:
   “Se non ti è piaciuto significa che era buonissimo” e aveva ragione; conosceva i miei gusti e il mio carattere.



   Dopo neanche mezz’ora ero nella libreria. La ragazza piazzata dietro alla cassa e davanti al computer mi regalò un sorriso che era un programma, un invito e quant’altro. Gli occhiali le si appannarono, la coda di cavallo sventolò.
   “Il suo libro sulla villa è arrivato; per fortuna il distributore ne aveva ancora una copia. L’aspettavamo” nitrì rovesciando gli occhi. Uscì dal gabbiotto, fece quattro passi, recuperò una borsa, sfilò il volume, me lo mostrò solfeggiando:
   “È bellissimo ma costa un casino: duecento euro meno cinquanta di acconto fanno centocinquanta”. Si stropicciò le labbra, si guardò attorno, bisbigliò:
   “Purtroppo la libreria non è mia. Se lo fosse le farei un supersconto. Mi spiace” finse d’intristirsi.
   “Il piacere di vedere lei è lo sconto più bello della mia vita” aggiunsi più falso di un quadro copiato. La sua faccia divenne colorata come un campionario di pennarelli. Posai sul banco tre banconote da cinquanta continuando a fissarla.
   “Glielo incarto o lo divora subito?” chiese maliziosa.
   “Lo tengo per cena.”
   “Tornerà a trovarci?”
   “Sicuramente, per vedere lei, magari a cavallo.” Sorrise lei, sorrisi io, sorrise la padrona arrivata all’ultimo momento, sorrise la sua coda di cavallo che prese a svolazzare. Mi salutò con una specie di nitrito indimenticabile.
   Chiusi quei duecento euro nel baule e corsi al poligono di tiro.
   Arrivai in un parcheggio quasi vuoto, passai dal bar, mi feci un caffè freddo con aggiunta di ghiaccio, il tutto buono per sturare un lavandino. Un tiratardi notò la valigetta nel sacchetto di plastica, immaginò il contenuto, provò a fare lo spiritoso:
   “Scommetto che l’hai comprata al supermercato”.
   “Bravo” risposi aprendo il gioiello “erano in offerta: due al prezzo di una. Svegliati.”
   “I migliori tiratori usano sempre la solita, e per tutta la vita” disse credendosi intelligente.
   “Spari troppe cazzate, perciò sbagli sempre bersaglio” risposi dandogli le spalle e lasciandolo riflettere. Ammesso che avesse il cervello per farlo. Quattro sparatori tra i più raffinati facevano comunella appartati in un angolo: un medico, un imprenditore, un notaio e un avvocato. Elencavano i brutti problemi del’Italia di oggi con la ricetta per salvare il Paese. Erano capaci di rendersi insopportabili dopo solo due minuti.
   Cominciai a sparare cinque caricatori e il risultato fu modesto. Mi concessi una pausa tenendomi appartato. Giravano troppe facce antipatiche: un cacciatore che si credeva Bufalo Bill, un altro che sognava le olimpiadi e avrebbe continuato a sognarle, un altro ancora che ti faceva mille complimenti davanti e li tramutava in critiche dietro.
   Sparai altri cinque caricatori e il risultato fu leggermente migliore. Per raggiungere il traguardo che mi ero imposto avrei dovuto premere il grilletto ancora parecchio. Che i più bravi usavano sempre la stessa arma era vero. Lo sapevano tutti; il rapporto uomo arma doveva diventare una specie di matrimonio, e la pistola non un corpo estraneo ma un proseguimento della mano, un corpo unico. Provai ad aumentare la confidenza con l’arma infilando l’indice nella guardia del grilletto; la facevo roteare in avanti poi all’indietro; mosse dette la rovesciata e il frullo del bandito. Non avevo la fondina quindi la infilavo nella cintura davanti all’ombelico. Breve pausa, concentrazione poi, velocissimo, estraevo, la facevo roteare, caricavo puntavo e sparavo.
   Ripetei le mosse per altri cinque caricatori e il risultato cominciò a soddisfarmi. Tolsi la cuffia antirumore e il pistolotto che mi stava dietro sparò la sua bordata:
   “Un furbetto come te, senza fondina, s’è fatto saltare i coglioni”. Lo fissai malamente compiangendo la sua infinita stupidità.
   “Posso vedere se tu li hai ancora?” dissi tanto per rispondergli. Si sbottonò la cintura fingendo di rispondermi coi fatti ma io ero già dal direttore di tiro. Scelsi quattro scatole di proiettili per la mia Beretta e una scatola a salve per la Desert Eagle.
   “Devi spaventare i topi?” disse consultando il listino prezzi.
   “Provo la scena del mio suicidio” gli risposi col portafoglio in mano.
   “Non l’ho mai detto ma l’avevo capito” osò strafare.
   “Bravo, il suicidio è l’unica cosa che ti si addice” conclusi lasciandogli i soldi del conto, resto compreso.



   A casa chiesi notizie della villa al computer. Una delusione. La storia del meraviglioso edificio si riduceva a mezza paginetta malfatta. Le tre pagine seguenti vantavano alberghi, ristoranti, negozi, agriturismi e itinerari limitrofi. Mi concentrai sul volumone appena acquistato, lo sorseggiai dalla prima all’ultima pagina, sottolineai a matita tutto ciò che mi sarebbe tornato utile, ci feci le ore piccole. Alla fine mi convinsi che acquistarlo ne era valsa la pena e quel tomo fu molto generoso.



















8


 Dubbi e  timori








   I tre fogli piegati stavano due metri oltre la porta  d’ingresso. Chi li aveva spinti dentro ce l’aveva messa tutta. Li aprii, erano di Alfio e scritti col computer. Cominciai a leggere:

   Caro amico,                                                                                                     
                       come vedi ho fatto presto, è stato più facile del previsto. Trascrivo le spiegazioni sintetizzandole. I dettagli te li dirò a voce. Le tre lepri simboleggiano la triplicità che tutto sente, tutto vede, su tutto veglia. Ora guarda la fotocopia a colori: i tre animaletti formano tre triangoli, ma se guardi bene le zampine i triangoli paiono sei. Il tre è ritenuto numero perfetto e richiama la Santissima Trinità, il sei rappresenta l’anticristo.
   Ma restiamo alla nostra selvaggina. Ti sintetizzo un’ora di colloquio su una certezza: tre lepri quindi il numero tre. Alcuni significati: Padre, Figlio, Spirito Santo. La resurrezione avviene il terzo giorno e Gesù risorto appare tre volte ai discepoli. I Magi sono tre e qui tralascio il lungo elenco che, se vorrai, ti leggerò quando ci vedremo.
   Insomma, un numero attorno al quale orbitano storia, simbologia e allegoria. Se vuoi ti regalo la mia impressione, se non vuoi te la scrivo lo stesso. Eccola:  per me quel tondo è una specie di stemma, un distintivo da portare all’occhiello della giacca tipo Lions, Rotary o Circolo dei cacciatori.
   Attenzione: il pittore Albrecht Dürer ha tirato un’acquaforte intitolata “Sacra Famiglia Con Tre Lepri” e una copia si trova a Bologna. La stampa a colori viene dal duomo di Paderborn, cittadina tedesca famosa per l’industria alimentare, conciaria, del tabacco, strumenti di precisione ed editoria.
   Tutte queste notizie le ho avute da un insegnante universitario indicatomi da mio figlio, l’ingegnere. Tra questa immagine e il tuo committente non vedo nessi, tranne il distintivo di un club o baggianate del genere. Comunque io davanti a questa immagine brancolo nel buio; l’importante è che almeno tu ti muova nella luce. Ne parleremo.
   Adesso spunta questo aggancio con la Germania, prima l’inseguitore, poi alcuni segnali sinistri e il tutto mi procura un prurito molto fastidioso. Mi sembra che ti stia cacciando in una di quelle trappole dall’ingresso facile ma dall’uscita difficile. Cavoli tuoi.
   Ora vado sul concreto. Il cameriere che esibisce i tre puntini tatuati sulla mano è un duro fragile come un savoiardo. E’ uscito da un supercarcere grazie all’indulto. È tenuto sotto osservazione e si pensa che in carcere ci tornerà presto. Non capisco perché il committente si appoggi a simili mediocrità. Però, se ci pensi bene, potrebbe avere buoni motivi.
   La chiave sarà pronta tra qualche giorno. La tua foto è nelle mani giuste, quelle di un super tecnico, uno che lavora coi computer, esegue lavori al micron.
   Ora non mi dire di andare a Paderborn perché ti mando affanculo. Conosco dieci parole di quella lingua e tanto mi basta.
   In attesa di vederti ti saluto con un calcio in quel posto.
                     Ciao, A.

Consegnata a mano mercoledì 5 luglio alle dieci e trenta. Sono venuto di persona per vedere dove abiti e conoscere i dintorni. Non si sa mai.

   Le ultime due righe erano scritte a mano. Rimasi a meditare sulle conclusioni spiritose dell’amico. Due elementi misero in fibrillazione i miei pensieri: la città tedesca con le lepri, e l’editoria. Il committente aveva parlato di documenti antichi molto preziosi, quindi manoscritti e quelli che mi avevano incantato nel suo museo erano una conferma. L’editoria aveva stampato ciò che fino ad allora era stato vergato a mano. E in quello i tedeschi furono maestri.
   Accesi il computer e mi collegai col mondo. Trovai Gutenberg e la sua Bibbia stampata nel 1455; una meraviglia. Volai in Germania, atterrai a Paderborn, mi piazzai davanti alla cattedrale romano-gotica. Due minuti dopo la stampante mi regalò l’immagine a colori simile a quella di Alfio. Il tondo con le tre lepri spiccava in rilievo sotto la cuspide di una vetrata. Confrontai la stampa con la foto fatta dal committente e l’altra fregata in casa di Ellen. A parte le dimensioni, erano identiche, quindi dicevano la stessa cosa. Ma cosa dicevano?
   Ritornai sull’immagine della cattedrale: colore tra il violaceo e il grigio cenere, in rilievo e in ottime condizioni. Dietro s’intravvedevano i vetri colorati fissati col piombo. Un collegamento, seppur distante parecchi chilometri, c’era sicuramente. Me ne convinsi con quella forza che non lascia tentennamenti né dubbi. Altro che distintivo da portare all’occhiello, come diceva Alfio. Cercai altre notizie, ma la barriera della lingua me le negò.
   Accantonai la Germania e tornai a concentrarmi sul librone della villa. Passeggiai con lo sguardo dovunque, m’infilai persino dentro i ripostigli sperando d’individuare una idea da cui partire con la ricerca. Fu tutto inutile; uno valeva l’altro e tutti insieme valevano nulla. Dopo un paio d’ore ebbi l’impressione d’impazzire ma tenni duro. Decisi di escludere l’esterno: giardino, orto, parco, serre, grotte artificiali, scuderie e casottini vari. Un bottino tanto prezioso doveva assolutamente stare all’interno. Il mio intuito, quello che non mi aveva mai tradito, mi diceva all’interno.  Se sbagliavo ero fritto.
   Erano le sette quando decisi di concedermi una pausa. Scesi al mini market a comprarmi frutta e pane, prosciutto e latte, vino e acqua più un regalino per Alfio. Cenai malamente; un occhio al cibo, l’altro alla villa, il cervello grippato. Continuai di malavoglia ancora per un’oretta, poi scesi. Avevo bisogno di aria, molto moto e ossigenare il cervello.
   Camminai, fumai una sigaretta, entrai in un bar qualunque per un caffè che fu delusione, continuai a pensare concludendo nulla. Erano le undici passate quando decisi di chiamare Alfio, disposto a subire le sue ire.
   “Mi sembri quel pirla di James Bond con licenza di rompere i coglioni a qualunque ora” m’investì.
   “Smetti di fare il pensionato, esci dal buco e ci vediamo al solito posto.”
   “Sii preciso: quello dell’altra sera?”
   “Esatto.”
   “Nient’affatto. Non vicino a casa mia ma alla fontanella.”
   “La fontanella mi va benissimo” accettai.
   “Quando?”
   “Tra venti minuti, anche meno.”
   “Signorsì! Vaffanculo!”
   Lo ringraziai per le informazioni, messe per iscritto col computer, mettendogli in mano duecento euro.
   “Per il tuo disturbo. Vanno bene?”
   “Grazie, vanno benissimo.” Dal giubbino sfilai un torrone incartato e circondato da un nastrino giallo. Sapevo che amava il meglio e lo andava a cercare anche distante.
   “Il mio motto sul torrone è: poco ma buonissimo” e io lo sapevo. Era il meglio che avessi trovato e glielo dissi. Mi ringraziò ricordandomi le sue tre marche preferite.
   “È una di quelle” confermai soddisfatto. Era fuori stagione, ma lo gradiva parecchio. Ritornammo ai nostri problemi: Ellen negli archivi delle forze dell’ordine non esisteva. Lo stesso valeva per il mammalucco fotografato davanti alla palazzina Liberty. Il problema restava il Tagliagole.
   “L’ho mostrato a una vecchia volpe che lo ha definito un pessimo soggetto. Poi ha scorso l’archivio al computer, non figura tra i ricercati, né i segnalati. Per loro non è italiano, viene da fuori, propendono per il Medio Oriente. L’Italia è piccola, ma il mondo è grande. Se è un professionista, e lo è sicuramente, potrà cambiare faccia tutte le domeniche assieme alla cravatta.”
   Faceva caldo, una pesante cappa di afa si era adagiata sulla città agevolando zanzare e sudore. Tornammo alla mia macchina, mi liberai del giubbino e della camicia, rimasi in t-shirt.
   “Vedo con dispiacere che sei senza artiglieria. Ecco un primo sbaglio” disse l’amico.
   “Ero fuori casa, era già tardi” mi scusai.
   “Ecco il secondo sbaglio: una risposta idiota, da dilettante. Non portarla per offendere, ma per difenderti.” Aveva ragione.
   “Tu sei armato?” gli chiesi immaginando la risposta.
   “Certo. Guarda” m’invitò alzando il giubbino. Dietro, all’altezza del rene destro, luccicò la sua vecchia, fedele e amata Beretta.
   Gli proposi una bibita fresca. Disse che il bar più vicino distava dieci minuti a piedi.
   “È un postaccio, lavora solo di notte. Un negro lo gestisce come una portaerei.”
   “Spiegati meglio.”
   “Atterrano e decollano ragazze straniere che si vendono per pochi euro. Il negro ha un’aria molto pericolosa. Ha il testone pelato come un melone e ricoperto di cioccolato.”
   “Bene, quindi non avrà nessun diavolo per capello” risposi tranquillo.
Decidemmo di andarci, parlando dei fatti nostri, con una marcia da passeggio. Cominciò con l’aggiungere a voce ciò che non aveva scritto sui leprotti. Fu preciso come un cronometro svizzero di alta precisione. Il sapientone che aveva trovato la sapeva lunga.
   “Bravo Alfio, hai trovato uno in gamba.”
   “Lo è, forse un tantino vanitoso. Ha i calli sulla lingua. Me lo ha indicato mio figlio, l’ingegnere.” Che di quel figlio fosse orgoglioso lo avevo capito.
   Passammo davanti al bar senza entrare. Le auto nelle vicinanze avevano targhe rumene, bulgare, polacche. L’interno era poco illuminato e il buio cancellava il negro. Due ragazze più nude che vestite ancheggiavano sulla porta: carnagione bianca, trucco a badilate, capelli stopposi dai colori assurdi, zeppe di almeno 25 centimetri. Una fumava come una ciminiera, l’altra leccava un ghiacciolo spingendo fuori la lingua lunga una spanna. Non arrivavano a vent’anni. All’interno di un’auto con targa romena fumava l’importatore di carne umana, sorvegliava i tempi di affitto, controllava arrivi e partenze, annotava il numero di targa, parlava al telefonino.
   “È una fogna da retata” pensai ad alta voce.
   “Lascia perdere; la città è piena di fogne come questa.” Tenemmo d’occhio il lupanare a una distanza di cinquanta metri. Quando decidemmo di andarci ci trovammo, all’improvviso, il marciapiede sbarrato da un’ombra che non prometteva nulla di buono. Avanzammo senza rallentare, con marcia da passeggio notturno, senza dimostrargli ripensamenti né tentennamenti. A pochi metri ci apparve per quello che era: talmente brutto che avrebbe spaventato un ippopotamo. E, mi parve, volutamente. Alfio cominciò a distanziarsi.
   “Stammi vicino e passa alla  mia destra” gli bisbigliai.
   “È uno sbaglio, lo sai vero?”
   “Lo so, ma ho una mia idea.”
   “Vediamo la tua idea” disse ritornando a sfiorarmi il gomito. L’uomo si piazzò al centro del marciapiede, allargò le gambe, incrociò le braccia muscolose sul petto. A due metri dovemmo fermarci, il marciapiede era stretto e non saremmo passati, scendere  equivaleva a mettere per iscritto una paura che non avevamo. Ma lui non lo sapeva.
   Lo guardai con lo stesso interesse con cui si guarda una merda secca, e feci in modo che lo capisse. La testa era liscia e gialla come un melone troppo maturo. La canottiera scura mostrava collo, spalle e braccia con un labirinto di tatuaggi. Era peggio di una Tangka tibetana. Le mani che teneva sul petto scivolarono nelle tasche posteriori dei pantaloni.
   “Dammi una sigaretta” disse con una voce più ruvida della carta vetrata. Mi concessi una pausa di silenzio tenendo il mio sguardo piantato nei suoi occhi.
   “Allora?” grufolò. Gli regalai altro silenzio poi provai a rispondergli:
   “Certo; quando chiederai per piacere. E dopo che avrai sfilato lentamente le mani dalle saccocce posteriori. Molto lentamente”. Lo fece lentamente con un ghigno trasversale, e quando le due braccia gli penzolarono davanti veloce come un fulmine presi la pistola di Alfio e gliela puntai sapendo che Alfio non mandava il colpo in canna e teneva la sicura.
   “Vuoi la guerra? Non ci spaventa. Posso farti ingoiare la notte” gli dissi senza un attimo di titubanza. “E mi fa sorridere il coltello che tieni dietro la mano destra.  Guarda.” Infilai la pistola nei pantaloni di Alfio e velocissimo presi il mio serramanico dal calzino sinistro. Lo feci ballare sulla punta delle dita, quello ebbe un attimo d’indecisione poi corse via. Era diventato simile a un cretino col mal di pancia.  “Guarda, duro da circo equestre, dove ti lascio le sigarette” gli urlai. Si voltò restando immobile sull’altro lato della strada. Tre sigarette gliele misi sul davanzale della finestra più vicina e continuammo per la nostra strada.
   Arrivammo davanti al lugubre bar, entrammo.
   Il negro ci regalò un falso sorriso e, dandoci del tu, chiese cosa volevamo. La testa era una palla di cioccolato, due orecchini luccicavano nell’orecchio sinistro, quattro braccialetti da quattro soldi cingevano il polso destro, la dentiera esagerata da coccodrillo. Le pale di un ventilatore giravano traballanti incollate al soffitto. Un grassone formato ippopotamo stava stravaccato su un lercio divano nell’angolo più buio. Teneva la mani sul tavolino e nell’anulare sinistro brillava una pietra rossa grande quanto il bocciolo di una rosa. Una donna matura sedeva al suo fianco, si alzò prese la borsetta dalla parte di lui, recuperò l’accendino e si accese una sigaretta mostrandoci l’ancora attraente lato B.  Stimai una giornata di lavoro per tutto quel trucco e due secondi per denudarsi. Si mise seduta di fianco al bestione, spostò il tavolino davanti alle sue gambe, tenne la sigaretta nella destra, infilò la sinistra sotto il tavolo. Era mancina.
   Dietro di noi due giovanotti e una ragazza mi parvero il peggio del bestiario umano.
Lei puntava gli occhi sul nulla, lui un enigma con sopra cuoio capelluto. La testa di cioccolato buttò via il sorriso ripetendo cosa volevamo.
   “Una granita al limone per il mio amico, possibilmente buona, e un’aranciata amara per chi ti sta parlando. Possibilmente buonissima. Non badiamo a spese.” Sul banco comparve una granita dal nome talmente sconosciuto che poteva essere piovuta dallo spazio, seguì l’aranciata amara dal nome e cognome sconosciuti. Me la rigirai tra le mani, la rimisi sul banco.
   “Senti… io con questa non lavo manco l’automobile. Figurati lo stomaco.” Il cioccolato tacque fulminandomi con lo sguardo. Alfio prese un’altra granita, due cucchiaini di plastica, pagò e mi spinse fuori.
   “La tua strada è quella della missione. Evita le pozzanghere” disse saggiamente. Era una brutta strada, con brutta gente, belle puttanelle e guai facili.
   Finimmo la schifosa granita in una specie di parco con tigli risalenti all’imperatore Adriano, panchine da Unità d’Italia, siepi di mirto messe a casaccio. Ci fumammo una sigaretta vicino al rudere di un vespasiano ovale che la distrazione di qualche politico aveva dimenticato. L’amico mi parve teso, cercava di non darlo a vedere ma lo intuivo. Disse:
   “Adesso andiamo nel vespasiano, facciamo pipì poi usciamo da sotto, fiancheggiamo la siepe carponi e ci andiamo a nascondere dietro al cespuglio, là in fondo, vicino alla panchina.”
   “Senti puzza di segugio?” gli chiesi immaginando la risposta.
   “Certo, come l’altra sera. È un dono di natura.”
   Eseguimmo, e quando fummo in postazione mi mostrò l’orologio.
   “Tempo cinque minuti, se uno arriva in quel pisciatoio schifoso ti dico che ci stava seguendo.” Di minuti ne trascorsero sette e di uomini ne spuntarono due. Venivano da opposte direzioni e si diressero verso il vespasiano.
   “Sparami le tue conclusioni” bisbigliò Alfio.
   “Potrebbero essere due finocchi.”
   “Né finocchi né carciofi. Se fossero finocchi verrebbero dalla stessa parte, uno davanti e l’altro venti metri dietro.”
   “Conclusione?”
   “Sono due perché seguono anche me. Ormai ci sono dentro anch’io, ma con questa…”
   “È sempre la stessa?”
   “Sempre. Come la moglie e i coglioni, Beretta 92, una delle migliori. Ci sono cose che ti porti dietro con amore per tutta la vita. Guardala… calibro 9, 15 colpi.”.
   “L’ho appena accarezzata e condivido” gli dissi. Aggiunse che non dovevamo muoverci.
   “Fingono di pisciare, si guardano attorno, decidono cosa fare. Non capiscono perché ci hanno persi. Li hai già visti?” bisbigliò. Distavano circa trenta metri, i lampioni, pochi e fiochi, ne facevano due sagome nere senza volto né nome. Scossi il capo. Lui aggiunse che se erano segugi professionisti avrebbero finto di andarsene per opposte direzioni ricongiungendosi poi nel punto concordato. Puntò l’indice verso un lampione a una cinquantina di metri.
   “Raggiungiamolo e continuiamo a parlare, come niente fosse, dandogli le spalle. Loro ci vedono credendo di non essere stati scoperti. Sai cosa penso?” mi chiese sottovoce quando cominciammo a camminare verso il lampione.
   “Lo immagino ma preferisco sentirtelo dire.”
   “Penso che a quella valigia siano interessate troppe persone. Per ora non corriamo pericoli. Le grane cominceranno quando la troverai. Se la troverai.”
   A un tiro di schioppo qualcuno si agitava su una panchina. I suoi lamenti ci giunsero confusi. Qualche attimo prima una moto si era allontanata sgommando a tutta birra. Era successo qualcosa. L’amico mi diede di gomito; corremmo assieme. L’uomo che si lamentava era uno di quei relitti umani definito brutalmente barbone. Abitava all’interno di stracci che furono abiti, il lampione a cinque metri, l’immondizia del consumismo un po’ dovunque. L’uomo si stendeva su una panchina con la fontanella a quattro passi. Il suo patrimonio stava in una borsa che usava come cuscino, i giornali al posto delle lenzuola, i cartoni per coperta. Piangeva colpendosi la fronte con pugni e parolacce.
   Era sulla sessantina, tutto barba e capelli. Ci guardò con occhi semichiusi inzuppati di lacrime, l’aria intronata, il faccione confuso come un barbagianni abbagliato dal sole. Davanti a noi provò a darsi un contegno. Mi parve uno di quei profeti biblici come li immaginavo da ragazzo.
   “Come ti butta, amico?” gli chiese Alfio.
   “La mia odissea ha molte più pagine, più zolle e fossi di quella di Omero.”
   “Allora chiudi l’Odissea e apri l’Iliade. Forse ti butta meglio” gli consigliò Alfio sedendosi sul bordo della panchina.
   “Tu la notte dormi schiacciato dal soffitto, io abbraccio il cielo e parlo con le stelle.” Alfio mi guardò sorpreso. Gli chiese:
   “Parli come uno che ha studiato.”
   “Ho studiato… più di quanto tu possa immaginare.” Smise di inveire contro i due ladruncoli che, avendogli rubato tutto,  lo avevano, come dire,  buttato sul lastrico. Si asciugò gli occhi con uno straccio che fu camicia, disse che lui non infastidiva nessuno.
   “Con quei soldi campavo fino a Natale. Tutto mi hanno preso: soldi, sigarette, i fregamuri, la foto del mio Argo.”
   “Chi era Argo?” gli chiesi accovacciandomi.
   “Il mio cane; un rudere abbandonato che io, a mie spese, ho restaurato come un’opera d’arte.” Alfio gli mise una mano sulla spalla chiedendogli:
   “La targa, hai visto il numero di targa?”
   “Niente ho visto, stavo dormendo, sono un barbone che non dà fastidio a nessuno io.” Alfio gli offrì una sigaretta, fumammo assieme ascoltando le sue lamentele.
   “Di giorno passeri, colombi, fringuelli e verdoni vengono a mangiare le briciole sulle mie mani. I bambini si divertono, le mamme mi regalano qualche soldo, pane, biscotti, marmellata. Avevo un sacchetto pieno di monete, ci campavo fino a Natale. Avevo la foto del mio Argo, mi accendeva il cuore nelle notti d’inverno.” Guardai l’amico in segno d’intesa dicendo:
   “Ti piace il torrone?” Quello annuì col capo mentre qualche lacrima gli cadeva sulla gamba. Alfio glielo mise sulla panchina poi mise mano al portafogli ma lo fermai.
   “Faccio io, tu hai famiglia” e aprendo il mio portafogli gli diedi tutte le banconote che avevo. Lo feci volentieri.
   “Con questi ti auguro di arrivare fino a Pasqua.” Poi, pensando alla cifra che gli donavo con piacere aggiunsi: “Forse riesci pure a comprarti un altro Argo.”
   L’uomo guardò incredulo quelle banconote, cercò di baciarci le mani, non smise di ringraziarci. Gli battemmo qualche colpetto sulla spalla e tornammo sui nostri passi.
   Dopo qualche minuto di opportuno silenzio dissi ad Alfio che mi serviva un filologo disposto a farsi un viaggetto in Germania. Destinazione Paderborn.
   “Ci avrei scommesso” disse allargando le braccia. “Siccome non vado a spasso col vocabolario puoi dirmi cos’è un filologo?”
   “Certo, un filologo è un filologo.” Si passò le mani sul capoccione con l’evidente voglia d’investirmi di parolacce. Rimediai buttandola in ridere.
   “È un esperto di materie letterarie, uno che s’intende di lingua, letteratura moderna e antica. L’opposto di te che t’intendi solo di torroni e granite.”
   “Cosa dovrà cercare in Germania?”
   “Informazioni” precisai.
   “Informazioni su tre leprotti schifosi in corsa contro il nulla? Sappiamo tutto, hai soldi e tempo da buttare? Ti sei fuso il cervellino?” Lui non raccoglieva le mie provocazioni, io non raccoglievo le sue.
   “Senti, Alfio, non so da dove cominciare, non riesco a imbastire un piano. Quando guardo quegli spazi immensi ci affogo dentro. Perciò mi aggrappo a tutti i ganci a cui posso appendere le mie speranze.”
   Gli riparlai della collezione del committente, delle novità apprese dal volumone sulla villa, aggiunsi che il nobile che la ebbe in proprietà per oltre settant’anni era un burlone di origine germanica. Calcai la mano sull’invisibile filo conduttore che correva dalla villa a Paderborn.
   “Io non lo vedo, è invisibile, ma tu lo vedi correre da qui a là. Questa missione ti sta grippando la scheda madre.”
   Continuai per la mia strada dicendo che poteva essere una prima pista, non avendo altro dovevo sfruttarla. L’amico ci pensò brevemente, stropicciò le labbra, scosse la testa dicendo:
   “I professori sanno parlare, è il loro mestiere. Carpire informazioni al prossimo è un’arte da poliziotto esperto. Ammesso che lo troviamo, il pollo adatto, tornerà a casa col distintivo dei leprotti nell’occhiello della giacca”. Forse aveva ragione, forse no. Però io sentivo che bisognava provare.
   “Ascolta, sei stato nell’università, uno lo hai conosciuto, tuo figlio ne conosce parecchi, trovamelo.” Si passò il fazzoletto sulla fronte sudata, sbuffò.
   “Ci provo. Un filologo che conosca il tedesco, che ami i wurstel con crauti, che sappia fare parecchie altre cose. Quanto gli offri?”
   “La cifra la concorderemo. Tu trovalo, pagarlo sarà compito mio.”
   “Domattina ci provo” rispose, guardò l’orologio, sorrise dicendo che era già domattina. Infatti era l’una passata e decidemmo di tornare alla mia macchina.            Incurante dei due inseguitori ricominciò a parlare, sottovoce, dei soliti problemi: pedinamenti, telefono e posta controllati, poi la frecciata finale:
   “Ormai ci sono dentro anch’io, per duecento miserabili euro”. Fu come ricevere una coltellata. Glielo dissi e fummo sul punto di rompere una collaborazione appena iniziata. Continuammo a camminare nel peggior silenzio; quello più adatto a troncare un rapporto che ad aggiustarlo.
   “Questa missione è un labirinto; troppi inseguitori, da parte tua troppi silenzi” gracchiò.
   “Alfio, sentimi bene. A te ho detto tutto contravvenendo ai patti col committente; patti che prevedevano un mio silenzio assoluto.”
   “E se non li rispetti ti fanno la pelle?”
   “Questo io non l’ho detto.”
   “Vaffanculo… ho fatto il piedipiatti per quarant’anni e certi silenzi dicono più delle parole. Lo sai vero?” Lo sapevo, eccome. “La prima cosa che fanno i delinquenti è tradire i patti. Per questo sono delinquenti. Hai sempre una o due calamite incollate al culo, questo te lo disse?”
   “Mi disse che la concorrenza teneva i radar accesi.” Una lattina vuota luccicava sul cordolo del marciapiedi. La colpì con un calcio troppo forte e molto cattivo. Volò dall’altra parte della strada. Gli offrii l’ultima sigaretta che rifiutò. Aggiunse:
   “Sei venuto a cercarmi per quisquilie che potevi risolvere benissimo da solo. Perché non hai giocato pulito subito? Bastava dire questo è il premio finale; lo si divide a metà assieme ai rischi. Lo sai perché sei venuto a cercarmi?”
   “Dimmelo” risposi seccato.
   “Perché quando apri la pianta della villa non sai da dove cominciare.”
   “È vero. Ti voglio come socio ma nel modo giusto: convinto e deciso. Per ora mi accontento della tua collaborazione e ti ringrazio.”
   Sbottonai la tasca sinistra dei pantaloni, tolsi la mazzetta di banconote, gliela infilai nel giubbino.
   “Sono cinquemila euro per la tua collaborazione. Forse ne seguiranno molti altri. Dipende da te. Buonanotte.” Gli diedi due colpetti sulla spalla e senza dargli il tempo di rispondere m’infilai in macchina e volai via.

















9

Floriana detta Flory









   C’era un centro commerciale alla periferia della città piantato tra la provinciale piena di concessionarie e la tangenziale sempre satura di macchine. La sfilata dei mostruosi capannoni era lunga qualche chilometro e, in pochi anni, aveva divorato gli ultimi boschi, i campi di grano coi papaveri, due allevamenti di cavalli che correvano felici nei recinti ed erano gioia per gli occhi. Siccome i cavalli fiscali tiravano più dei quadrupedi, i primi soppiantarono i secondi.
   Grande e brutto come l’hangar di un aeroporto, il Paradiso Della Moda offriva, assieme a migliaia di articoli, riscaldamento d’inverno, aria condizionata d’estate, ristorante self-service a buon prezzo, sconti quasi sempre e, al cambio di stagione, prodotti “sottocosto”. Era uno di quei posti che proponeva sempre il peggio dell’utile e il meglio dell’inutile.
   Più che un Paradiso Della Moda pareva l’inferno del portafoglio e il purgatorio dei genitori in lotta con le pretese dei figli. Un piccolo ma efficiente laboratorio sistemava capi in pelle, riparava bagagli, sistemava i tacchi alle signore.
   Si poteva entrare con addosso due stracci e uscire abbigliati “made in China” con poca spesa, o mettersi elegantissimi “made in Italy”, spendendo tre mesi di stipendio. Di giorno avvenenti commesse vendevano di tutto, di notte belle ragazze molto svestite vendevano se stesse. La zona era sempre molto trafficata.
   Quella che, segretamente, consideravo una meraviglia della natura lavorava là e la trovai subito di una bellezza luminosa e irresistibile. L’avevo adocchiata un paio di mesi prima e l’accelerazione delle pulsazioni mi suggerì che era il mio tipo: bella e preziosa come il contenuto della cassaforte di un orefice.
   Dalle sue colleghe avevo saputo il nome, la marca dell’automobile, l’età e qualche altro piccolo elemento. Ma quel poco mi era più che sufficiente.
   Si chiamava Floriana detta in Flory, aveva venticinque anni, non era sposata né fidanzata ma subiva l’assalto di parecchi mandrilli. Statura leggermente superiore alla media, taglia quarantadue leggermente abbondante, nasino sottile perfettamente diritto, labbra sensuali ben modellate, capelli biondi lunghi oltre le spalle, occhi color champagne con due pupille verdi come la malachite, sguardo pieno di astuzia. Per vederla e parlarle comprai anche cose inutili; lei aveva capito, io avevo capito che lei se n’era accorta ed entrai nel gruppo degli assedianti. Sgambettava, sempre disponibile, tra banchi e scaffali del reparto sport e questo mi agevolò, almeno negli acquisti: scarpe ginniche, felpe, magliette.
   Ogni tanto le aggregavano un precario, giovincelli impacciati che annegavano in un bicchiere d’acqua, e lei gli faceva da salvagente.
   Quella mattina non la vidi. Mi aggirai nelle vicinanze per un quarto d’ora; guardai profumi, scarpe, cravatte, senza vederli. Il mio sguardo finiva sempre là dove lei non c’era. Lo spazio più vicino vendeva profumi e all’interno ci sculettava una bambolotta che ruminava gomma, sfogliava un catalogo e da qualche minuto mi scrutava con diffidenza. Era gentile ma bruttina, disponibile ma arrogante, un carattere da non augurarsi neanche in offerta speciale.
   “Buongiorno” le dissi col sorrisetto calibrato “cerco la signorina che mi ha sempre servito.”
   “E dalla quale intende farsi servire” rispose spostando la gomma sulla destra.
   “Complimenti, legge il catalogo e il pensiero dei clienti.”
   “Capisco semplicemente ciò che frulla nella testa di certi clienti e quello che gira sotto la cintura” si sbilanciò più maliziosa che mai.
   “E chi sarebbero questi clienti?” le chiesi con un sorriso.
   “Quelli che hanno il complesso del rettile” sparò simulando il serpente con una serpentina della mano.
   “Lei ha capito come gira la vita e afferrato il lato giusto” rimandai.
   “Sono solo felice perché stasera vado in ferie e sentirò il profumo del mare, il sudore del mio compagno, e mangeremo spaghetti con le vongole. Flory è, momentaneamente, al reparto lampadari. Lo stanno inaugurando proprio adesso. Chi acquista avrà in omaggio due lampade a basso consumo. L’aiuteranno a non smarrirsi nella notte dell’amore. Può arrivarci seguendo le frecce o col navigatore satellitare” mi prese per i fondelli allungando il braccio nella direzione giusta.
   All’ingresso del nuovo reparto c’erano due responsabili in divisa con targhette all’altezza del cuore: una donna matura regalava due lampadine a chi aveva acquistato, un giovanotto con parole invitanti leccava i probabili clienti. Vestiva in bianco e nero e con la pancetta pareva un pinguino fuori dall’acqua. C’era anche una guardia giurata con l’aria cattiva, la divisa appena stirata, la pistola bene in vista, l’abbronzatura fuori ordinanza. Lo trovai interessante quanto una buca in mezzo alla strada.
   Entrai, girai qualche minuto tra i lampadari accecato dallo sfavillio di luci. Dagli altoparlanti una voce che la sapeva lunga, a volume troppo alto, elogiava i prodotti, vantava i prezzi super convenienti, ricordava l’omaggio. La vidi in lontananza impegnata con tre persone, mi avvicinai e quando fu libera acquistai tre torce elettriche in tre formati diversi: piccola media e grande, ci aggiunsi le batterie e quando fui davanti alla cassa mancò la luce.
   Il nuovo reparto piombò nel buio. Rimasero accese le luci di emergenza, la mia pila grande, e Flory più luminosa che mai.
   “Questo buio non promette nulla di buono” disse un responsabile superstizioso.
   “È solo un problema di sovraccarico” gli rispose un collega più ottimista. Ci furono alcuni minuti di bagarre poi, finalmente, la luce tornò. Pagai, ritirai le due lampade omaggio e tornai all’ingresso dal pinguino che per rimediare alla figuraccia della luce regalava sorrisi e strette di mano come fossero sottocosto o saldi di fine stagione. Gli spiegai il mio problema, gli dissi che intendevo comprare da quella commessa che ritenevo la migliore, mi ascoltò con la concentrazione di un confessore poi m’informò:
   “Non sarebbe possibile ma faccio un’eccezione, venga.” Lo seguii e quando fummo davanti a Flory le spiegò il mio problema autorizzandola a servirmi nel solito reparto. Lei mi guardò salutandomi con la cortesia riservata ai clienti che non meritano confidenza. La seguii nel suo reparto ammirando il suo lato B più volte, incantato dalla sua camminata che era un incedere fin troppo elegante. Le sue curve nei punti strategici erano da capogiro. Tutto in lei era fresco come un giardino fiorito appena innaffiato. Mi chiesi inutilmente in quale angolo di mondo s’imparava a camminare a quel modo.
   Arrivati alla sua postazione le mostrai il borsone che avevo scelto, ritirai lo scontrino, pagai. Dal giubbino sfilai due metri di frangia alta venticinque centimetri; era roba mia, visto che loro non trattavano simili fronzoli. Le spiegai che mi serviva cucita vicino alla base e per tutto il perimetro. Doveva pendere sotto il fondo per almeno quindici centimetri.
   “Ci vorranno alcuni giorni, ha premura?” chiese palpando il tessuto.
   “Faccia con comodo purché lo faccia subito” feci lo spiritoso.
   “Stai scherzando vero?” Mi aveva dato del tu, forse sbagliando. Le risposi che il tu andava benissimo, era di moda, semplificava e avvicinava. Rispose con un’alzatina di spalle.
   “Non sto scherzando, per favore mi servirebbe subito” risposi posando sul banco una banconota da cento euro. La vidi confusa, titubante, senza risposta. Glieli spinsi verso la mano bisbigliando:
   “È un grosso favore, ti prego di accettarli”. Si guardò attorno, prese i soldi con la sinistra, il borsone con la destra e si allontanò. Girai con la mia borsettina delle pile tra gli scaffali vicini e appena la vidi piombai là. Mi pregò di aspettare mezz’ora al massimo, quindi aggiunse:
   “È un’idea originale, tipo western. Farà colpo?”
   “Spero di no” risposi dispiaciuto nel contraddirla “c’incollo sotto torroni e cioccolatini. Secondo te la professoressa li vedrà?”
   “Non li vedrà, ne sono sicura” confermò scuotendo la testolina. Un giovanottone vestito stile secchione-campus s’avvicinò piuttosto agitato chiedendole:
   “Senti, sei libera? Vado di fretta”. Lei guardò prima lui, poi me che intervenni:
   “È impegnata con un cliente. Guardami… ti sembro forse un marziano?”
   “Quando sei libera? Ho una fretta del diavolo” replicò insistente.
   “Il diavolo non ha fretta. La signorina sarà libera a Natale, di quest’anno” rimandai guardandolo malamente.
   “E tu chi sei, la befana? Alla faccia del cazzo” imprecò allontanandosi risentito.
   “Prima mi fai cambiare reparto, poi i soldi, ora i clienti. Tu mi fai perdere il posto, maledizione! Torna tra mezz’ora” s’arrabbiò rincorrendo il secchione. Guardai l’orologio, andai al bar, mi sorseggiai un caffè e divorai un trancio di crostata di albicocca che, guarda caso, sapeva di albicocca. Tornai esattamente dopo mezz’ora: era sola. Mi mostrò il borsone dicendomi che non dovevo pagare niente.
   “Perché prima tutti quei soldi? Se volevi fare colpo hai sbagliato bersaglio. Sono e resto volentieri un tipo all’antica. Perciò te li rendo subito” prese la borsetta ma riuscii a bloccarla.
   “Il cuore non conta gli spiccioli” dissi romantico. “Ascolta, Flory, posso parlare seriamente?” La sua espressione divenne felina.
   “Come sai il mio nome? I capi non gradiscono, io meno di loro.”
   “Ti chiami Floriana abbreviato in Flory, hai fatto il liceo classico e hai studiato economia e commercio all’università senza finirla. Però alla laurea non hai ancora rinunciato, eccetera eccetera.” Si guardò attorno con sguardo fiammeggiante, non vide capi nei dintorni, avvicinò la sua testolina alla mia ringhiando:
   “Come ti sei permesso di ficcare il naso nella mia vita privata? Sei qui per rimorchiare? Cosa intendi con quell’eccetera eccetera? A questo punto scordami” disse con una cattiveria che mai avrei immaginato.
   Il primo approccio lo avevo sbagliato. Lei rimase immobile come una statua in attesa di clienti, lo sguardo lontano, l’espressione di pietra. Provai a rimediare.
   “Frequento uno dei più bei giardini d’Italia ma nessun fiore è pari alla tua bellezza.” Arrossì. Si voltò verso la cassa, spostò alcune biro e una scatoletta di mentine. Dopo un minuto di silenzio affrontò la mia umiliazione.
   “Prima i soldi, poi i complimenti. È arrivato il giardiniere spendaccione” dichiarò.
   “Sono uno spendaccione, ma non un giardiniere.”
   “Allora, oltre a essere un ficcanaso, cosa sei?” ringhiò fulminandomi coi suoi insolenti occhi celesti.
   “Risolvo problemi per conto terzi. Un lavoro difficile, ma rende bene.” Rispose a una cliente che non trovava il reparto intimo, salutò un collega che smontava.
   “Non mi piacciono le risposte che non dicono niente” replicò seccamente. “Tutti noi, per lo stipendio, risolviamo problemi al prossimo: il medico, l’idraulico, il meccanico.” Si concesse un’altra pausa, scambiò uno sguardo con la bambolotta che masticava gomma. La sua durezza mi ferì; ci rimasi male, se ne accorse, si rilassò. Ero un rompiscatole ma restavo un cliente.
   “Ascolta… la mia vita non è mai stata una vacanza, e la mia giornata non è una passeggiata. Non sono tipo da avventure.” Aprii la cerniera del borsone, c’infilai  dentro il sacchetto con pile e lampadine e le dissi:
   “Scusami… non volevo farti arrabbiare. Posso avere uno di quei  vostri sacchi  di plastica?” e ci aggiunsi un sorriso. Mi accontentò subito. “Fai talmente bene il tuo lavoro che sicuramente ti piace molto.”
   “E il tuo, ti piace?”
   “Parecchio, anche se…”
   “Anche se qualcuno in famiglia non è contento. Forse i tuoi?”
   “Il mio lavoro mi piace, i miei spero siano contenti… sono morti da anni. Vivo solo.” Alzò le sottili sopracciglia, reclinò il capo, disse che le dispiaceva. Poi, guardando il vetro del banco aggiunse:
   “Dicono che la solitudine è un’amante gelida e pericolosa. Chi è solo è sempre in cattiva compagnia. Attenzione!”
   “È vero. Forse per questo cerco la tua.” Finse di non sentire.
   Un capetto dall’aria altezzosa s’intromise chiedendomi se ero finalmente a posto. Alto, magro, la testa spelacchiata, la targhetta sul cuore con scritto “responsabile”, la pelle color nocciola, mi guardò col piglio riservato ai tiratardi. Mi parve uno che aveva dormito male e soffriva di mal di pancia.
   “È la terza volta che mi punta il mirino del suo sguardo” partii deciso “questa signorina, che mi ha risolto alcuni problemi” dissi battendo la mano sul sacco “è la miglior commessa d’Italia. Tenetela di conto.” Ringraziò appena, scantonò subito.
   “È un capo senza speranza” mugugnai rivolto a lei.
   “Per quale motivo?”
   “La bocca… pare fatta per non sorridere.” Sorridemmo noi. Dovevo darci un taglio. I minuti erano volati a velocità supersonica.
   “Senti Flory, quanti capi dovrò ancora acquistare prima d’invitarti a cena?”
   “Credo parecchi. Però le porte sono aperte a tutti, lustrarsi la vista non costa niente. E’ la politica della società.”
   “Bene” risposi aprendo il telefonino “comincerò a lustrarmela con la tua foto. Prego, un sorriso.” Fui accontentato, le feci un primo piano, ci stringemmo la mano, puntai deciso verso la macchina. Quella donna aveva illuminato i ripostigli più oscuri del mio animo.
   Uscii sul piazzale pieno di macchine; faceva caldo, il sole picchiava senza pietà, il cielo era una calotta di seta azzurra. Finalmente avevo rotto il ghiaccio con una tipa meravigliosa che,  purtroppo, o per fortuna, era un tipo all’antica.


   Appena fui a casa accesi lo stereo; ciò che dovevo fare mi consentiva la gioia di ascoltare musica. Scelsi, tra le dieci sinfonie di Mahler, la Numero 4 in sol maggiore: morbida e piena di languore, capace di rapirmi come una composizione italianissima. Non ho mai capito le parole del soprano solista che descrive le gioie del paradiso,   ma le ho sempre sentite come un piacere pari a quello del cibo e del sesso. L’orchestra la eseguiva in modo molto moderno e alla grande: ottima edizione. Tenni il volume basso, mi mangiai uno squisito melone, preparai il caffè con tre gocce di grappa veneta. Passai la foto di Floriana dal telefonino al computer, ne stampai una piccola per il portafoglio e due formato 20 x 30 che posai sul comodino in camera da letto.
   Dal ripostiglio presi una vecchia Browning MK3 che avevo requisito, due anni prima, a un delinquente e me l’ero tenuta. Le diedi un’ultima controllata: matricola limata pulizia ottima, funzionamento perfetto, tredici confetti nel caricatore bifilare. La smontai, posai i sei pezzi sul tappeto, riempii il caricatore, lo infilai nell’impugnatura, la molla la misi da parte.
   I pezzi da nascondere restavano quattro: carrello, ponticello del grilletto, impugnatura, leva hold open. Capovolsi il borsone, ci misi sopra i quattro pezzi, segnai i punti col pennarello e li trasformai in tanti buchi. Infilai i guanti di lattice, cancellai le impronte sull’arma e con dei robusti elastici neri legai la pistola disassemblata. Da un giaccone invernale tolsi l’imbottitura nera, la tagliai seguendo il perimetro e la fissai con la cucitrice metallica. Capovolsi il borsone mettendolo diritto: andava bene. La frangia che pendeva al di sotto per quindici centimetri nascondeva ottimamente quel doppio fondo alla rovescia. Mi controllai allo specchio ripetendo:
   “Secondo te, la professoressa li vedrà?”
   “Non li vedrà, ne sono certa.” Questo rispose Floriana, questo mi confermava lo specchio. Ogni tanto mi fermavo, chiudevo gli occhi, mi lasciavo accarezzare dalle note di Mahler, magari seguendo il tempo con la mano destra.
   Per la molla di recupero con l’asta di guida, l’ultimo pezzo della pistola disassemblata, ebbi un’altra idea: misurai diametro e lunghezza, cercai qualcosa di simile tra penne, matite e pennarelli. Trovai una stilografica dello stesso diametro ma leggermente più lunga.  Chiesi scusa a Mahler per dover arrestare, così bruscamente, la sua estasi sonora, e corsi giù.
   Il negozio di pelletteria distava un paio di chilometri; la considerai una piacevole passeggiata. Lo conoscevo bene, e per i titolari la mia faccia era quella di un cliente, seppur saltuario. Mi piaceva l’odore delle pelli che saliva su per le narici appena si entrava. Infatti entrai, respirai un attimo gli insoliti odori tra due scaffali di profumi, dopobarba e creme varie. C’erano due trespoli girevoli zeppi di cinture: uno per donna, l’altro per uomo. Pendevano in tutta la loro lunghezza appese alle fibbie, che, se troppo lunghe, le accorciavano in un minuto. Un cartellino legato a ogni pezzo descriveva il prodotto e mostrava il prezzo.
   Cominciai a girare la giostrina maschile mentre una stagionata signora descriveva i propri acciacchi. Dietro al banco il proprietario fingeva di ascoltarla augurandosi che finisse al più presto. Il figlio maggiore pigiava sul computer portatile tenendomi d’occhio.
   “Prendo questa” dissi posandola vicino alla tastiera. “Me la può accorciare?” Si mosse verso l’uscita del banco dicendo che non era un problema. Me la girò attorno ai fianchi proponendomi un taglio di dodici centimetri.
   “Meglio venti” proposi.
   “Dovrà allacciarla al primo buco.”
   “È quello che voglio.”
   “Contento lei…” Gli mostrai la stilografica spiegandogli che la dovevo nascondere all’interno. Le pelli erano due sovrapposte: doveva togliere una striscia di quella interna, infilarci la penna e tenerla ferma con un rettangolo di velcro. Mi guardò titubante grattandosi la fronte.
   “Per un lavoretto fatto bene le offro cento euro” lo incoraggiai posando la banconota di fianco al computer. Divenne subito disponibile.
   “Per quando la vuole?”
   “Diciamo subito.”
   “Ho capito. Lo faccio immediatamente” rispose infilandosi nel retrobottega.
   Attesi una decina di minuti respirando l’odore di finta pelle, finti coccodrilli, finte tartarughe, falsi pitoni e vitelli maltrattati. Dalla noiosa signora appresi notizie sull’osteoporosi, la cervicale, la prostata del marito grossa e dura. Una rompiballe da medaglia d’oro.
   Ricomparve il giovane con in viso la soddisfazione del lavoretto fatto bene, il sorrisetto malizioso di chi ha capito tutto. Mi mostrò la parte interna della cintura, lo spazio vicino alla fibbia, c’infilò la stilografica, abbassò la striscia di velcro. Andava benissimo. Il giovanotto, troppo curioso, provò a fare il furbo dicendomi sottovoce:
   “La sa l’ultima?”
   “Purtroppo no, sono rimasto alla penultima.”
   “I metal detector degli aeroporti sono taratissimi. Attenzione.”
   “Grazie per l’informazione” stetti al gioco “ci nascondo quattro datteri.”
   “D’oro, immagino.”
   “Sta scherzando? Diamanti. Diamanti a forma di dattero, frutti da milioni di euro.” Rimase pensieroso mentre uscivo con la mia borsina di plastica con la cintura elaborata.
   Appena a casa telefonai alla signora Iole, quella delle pulizie e del piano di sopra. Rispose il pompiere in pensione:
   La Pantera è fuori per la spesa” muggì il Bue. “A proposito, come stanno i suoi estintori?”
   “Bene: pressione normale, pulsazioni buone, piastrine e trigliceridi nella norma.”
   “La sa lunga, lei. Quando gli diamo una controllata?”
   “Dopo le ferie. Posso salire?” Fu lieto di vedermi. Gli portai tre paia di pantaloni spiegandogli che i passanti della cintura bisognava allungarli da cinque a otto centimetri. Sopportai per un quarto d’ora l’esposizione dei suoi ultimi acquisti: mostrine, fregi, croci di ferro di primo e secondo grado, distintivi più qualche strano cordone poi, a fatica, guadagnai l’uscita.
   Presi un ingrandimento della foto di Flory, dietro ci scrissi la data: sabato 8 luglio, e scesi a cercare una cornice degna della sua bellezza.













10

Il secondo servizio









   Il lunedì sera, dopo una cena veloce e disordinata, mi misi a sfogliare per la seconda volta il librone sulla villa. Quando lo aprivo e passeggiavo con lo sguardo in quegli spazi sconfinati subivo l’assalto dello sconforto. Il tentativo era sempre quello: imbastire un piano per una ricerca mirata. Anche il risultato era sempre quello: chiudere il libro senza sapere da dove partire. Certo; partendo da dove?
   Erano le nove quando suonò il telefono. Era la biondona della villa che mi convocava per un altro “servizio”.
   “Domattina, martedì 11 luglio, ore 10 precise. Ripeti.” L’accontentai per tenermela buona. Riconoscevo la sua voce dalla prima sillaba, ma la intuivo già dal trillo del telefono. Presi il borsone, lo posai sul tappeto e ci ragionai sopra qualche minuto. Alla fine decisi che prima di entrare con l’artiglieria era meglio una prova. Tolsi l’arma disassemblata, lasciai la frangia, misi dentro tutto l’occorrente e ci aggiunsi un omaggio.



   “Se un uomo ti regala dieci presto o tardi pretenderà venti” borbottò osservando la scatola di compensato abbellita da un’etichetta colorata e una cordicella per maniglia. Il borsone stava posato sul tavolo con quella frangia che a un occhio attento avrebbe potuto accendere qualche sospetto. Lei lo guardo con un pizzico di curiosità, non pensò affatto ad esaminarlo sotto, magari ribaltandolo, lo aprì posando il contenuto sul tavolo. Il desiderio di svestire il regalo della scatola era troppo forte. L’aprì. Si trovò in mano una lussuosa bottiglia di una bevanda che non conosceva.
   “Diffido dei donnaioli al chewing-gum come te. Se non è veleno, vuoi spiegarmi cos’è?”  pretese controllando il tappo e la fascetta che lo avvolgeva.
   “Specialità torinese, bevanda rara. Si chiama Bicerin ed è composto da caffè, cioccolato e panna in parti uguali. Ingredienti di primissima qualità. È come me: chi lo assaggia, ritorna.” La sua risposta fu una risata da ippopotamo. Ammesso che gli ippopotami ridano.
  “L’assaggerò stasera stessa” decise curiosa “però voglio sapere cosa vorrai in cambio. E lo voglio sapere subito.”
   “Niente” affermai deciso “il piacere di donare è per me superiore a quello di ricevere.” Guardai l’orologio, ero in anticipo, lei capì e disse:
   “Ti regalo l’anteprima, come la volta scorsa, così siamo pari”. In pochi minuti mi descrisse colei che mi aveva scelto, aggiunse un paio di consigli, poi mi porse le maniglie del borsone dicendomi di andare.
   La ragazza che mi aveva scelto era una giovane quasi trentenne, più larga che lunga, ricca e vogliosa, di molte parole e con l’arroganza di certi ricchi. Il nome che aveva scelto era Ibisco.
   Il salottino in cui mi attendeva non era quello della prima volta e appena fui dentro e bendato la salutai.
   “Tu come ti chiami?” mi chiese investendomi con una vampata di alito caldo e profumato di menta.
   “Visto che vanno di moda i fiori, chiamami Girasole” proposi. Rise sonoramente, mi prese le mani facendosi cingere i fianchi.
   “Scoppi di salute” esclamai sentendola grossa e pneumatica come l’omino della Michelin.
   “Balle” rispose senza complessi “scoppio di ciccia. E sai perché?” Feci no col capo.                         “Pecco di gola. La voglia arrapante di squisitezze mi tormenta: al mattino, al pomeriggio, pure la notte. Adoro il cioccolato. Se poi ci aggiungiamo qualche disfunzione, il risultato è che sono una mongolfiera. Senti” disse guidandomi le mani sulle sue circonferenze.
   Aveva una voce fresca e giovanile, tanta voglia di parlare. Le diedi corda agevolando il suo sfogo. Ventotto anni, parecchi studi fatti in modo disordinato e senza un traguardo, un padre industriale sempre in giro per i cinque continenti, la madre disposta a tutto per accontentarla. Candidamente aggiunse che fui scelto dalla loro complicità. La ragazza faceva nuoto, palestra, studiava pianoforte anche se era parecchio in ritardo visto l’età, ma un giovane che la mandasse in tilt non lo trovava. Mi chiese se la sua mole mi creava problemi, se mi sentivo a disagio. La tranquillizzai. Volle sapere il peso della donna più grossa con cui ero stato.
   “Non le ho mai pesate, non erano trote salmonate. Comunque tra un grissino scricchiolante e un budino gigante preferisco il budino.” Le sollevai il morale, anche se lo aveva già alto.
   Mi fece sedere su un divano foderato di tessuto morbidissimo, la spalliera alta e comoda, lei mi si mise vicino, allegra e disinibita, parecchio sicura di sé. M’informò che amava i rapporti sessuali mattutini, protetta dalla complicità della madre che, sempre secondo lei, li amava pomeridiani protetta dalla lontananza del marito. Mi chiese se gradivo un drink che avrebbe preparato lei stessa vantandosi di saperci fare. Accettai volentieri. A mia volta le chiesi se possibile, e se gradiva, un sottile sottofondo musicale.
   “Pazienta un attimo e sarai accontentato” mi rispose mentre armeggiava con bottiglie, bicchieri e cubetti di ghiaccio. Due minuti dopo mi mise in mano un bicchiere grande quanto un vaso di gerani. Per fortuna il liquido era poco e poco alcolico. Lei sprofondò al mio fianco proponendo un brindisi al nostro incontro. Sorseggiammo la sua bevanda dal sapore misterioso, ma ghiacciata. Prese i due bicchieroni, li posò da qualche parte; la sentii muovere alcuni CD, mi lese i titoli dei brani che avremmo ascoltato: Bob Dylan, Blowin in the wind, Time aut of mind, Things have changed, Love and theft. Rolling Stones, I can’t get no satisfaction, e via a questo livello. Seguì il meglio di Jimi Hendrix, David Bowie, Bruce Springsteen, Joan Baez. Il suo inglese era perfetto, levigato e dolce come i cioccolatini che scartava, succhiava e, inutilmente, mi offriva.
   Lentamente la portai sul campo minato della villa. Partii dal dispiacere di godere la sua bellezza solo dall’esterno; l’interno mi era negato dal lavoro che avevo accettato di svolgere. Accennai al tesoro che si diceva nascosto sperando nella sua ingenuità. Abboccò.
   “Se ne parla. Chi dice gioielli antichi, chi dice pietre preziose, chi dice grandi quadri di piccole dimensioni ma d’immenso valore. Tutta opera di uno strano nobile che possedette la villa tempo addietro. Amava far ammattire il prossimo con scherzi, indovinelli, trabocchetti.”
   “Tu cosa dici?” le chiesi accarezzandola dolcemente.
   “Quello che dicono i miei genitori.”
   “E cosa dicono i tuoi genitori?”
   “Mio padre più di una volta parlò di antichi manoscritti molto importanti. Aggiunse che questo tesoro o era già stato trovato o non sarà mai trovato. Non so altro.” Ebbi l’impressione che a lei nulla importasse del tesoro. Feci ancora un tentativo.
   “Chi lo ha cercato avrà proceduto in maniera scientifica. Non si cerca a caso in spazi enormi come la villa e il suo esterno.”
   “Mio padre dice che il famoso barone ha lasciato degli scritti che paiono una traccia, ma nessuno è riuscito a decifrarli” concluse avvolgendomi con le sue braccia enormi.
   Aveva pagato e voleva riscuotere. S’era stufata di parlare e desiderava passare all’azione. Partii deciso accompagnato dalle melodie di Bob Dylan: “Prima che arrivi sul bordo, perciò sto andando, sto proprio andando, sono andato. Going, going, gone.”
   Quando ebbe riscosso,  tra sospiri, lamenti, squittii e miagolii rimase immobile con un fiatone da mucca al pascolo dopo una corsa in collina. Le proposi un sonnellino rilassante mentre le accarezzavo la criniera. Tacque. Attesi che il respiro le tornasse normale. Bob Dylan ricomparve come sigla nel suo telefonino. Prima rispose per monosillabi, poi sparò una sequela di parolacce, alla fine rise come un’oca giuliva.
   Quando scese dal letto per poco non lo ribaltò; raccolse i CD, disse a se stessa che doveva prepararsi e aggiunse:
   “La musica aiuta, accentua, esalta”. Quella che piaceva a lei. M’impose di starmene buono mentre lei si lavava il corpo e l’anima. Disse proprio così: il corpo e l’anima. La sentii aprire e chiudere una porta che immaginai del bagno, e quando corse l’acqua alzai la benda, le guardai nella borsetta, fotografai la sua carta d’identità e nel mio telefonino chiusi tre suoi capelli che mi erano rimasti tra le dita mentre le accarezzavo, di proposito in modo un po’ rude, la sua folta criniera. M’infilai slip, pantaloni e calzini nascondendo in questi ultimi il mio telefonino. Andai alla finestra tenendo le mani sulla benda, scrutai lo spicchio di cortile, vidi una vecchia cabina elettrica che mi parve funzionante. Mi misi seduto sul bordo del letto, presi il suo telefonino e cominciai a esaminarlo. Uscì all’improvviso; la porta che si aprì mi diede appena il tempo di abbassare la benda sugli occhi ma mi pizzicò col telefonino troppo vicino per non dubitare. Ebbi la sensazione che stesse per rimproverarmi. Volli precederla dicendo:
   “Non lo vedo ma mi pare molto bello. Un gioiello che non mi posso permettere”. Attimi di silenzio.
   “Magari la prossima volta te lo regalo” disse tanto per dire.
   “Grazie, ma non accetto regali.”
   “Coi soldi che guadagni te lo potrai comprare” rispose seccamente.
   “È la seconda volta che vengo qua dentro e non ho ancora visto un euro.”
   “Allora svegliati e fatti pagare. A me costi un casino.” Per fortuna non mi lasciò il tempo di rispondere. Mi sfiorò le labbra con la punta delle dita bisbigliando:
   “Non ti bacio per il rossetto. Scusami. Ci vediamo la settimana ventura”.
   “Impossibile. Sarò via per lavoro.”  Ebbi la sensazione che non gradisse quel rifiuto tanto perentorio. Seguì un’altra breve pausa durante la quale mi mise in mano la camicia.
   “Cosa fai di bello… se è lecito saperlo?”
   “Vendo segnali d’allarme, ho accumulato tutti gli impegni prima delle ferie, sarò via” dissi in modo seccato.
   “Pago per avere e avrò” tagliò corto. Mi accompagnò alla porta, l’aprì e mentre uscivo disse solo “ciao”.


   Arrivai a casa poco prima dell’una. Chiusi i capelli di Ibisco in un sacchettino di plastica, passai le foto della sua carta d’identità nel computer, le ingrandii e le stampai. Misi tutto in una busta, ci scrissi nome e data. Nella pianta della villa segnai il punto esatto della cabina elettrica e qualche altro elemento interessante.
   Scesi alla ricerca di un posto per mangiare. Plimpo era chiuso; apriva alle quattro del pomeriggio, e di farmi maledire passando dietro non me la sentii. Di proposito evitai la macchina preferendo molto moto e un telefono “pulito”.
   Erano le due di un pomeriggio rovente; il sole picchiava senza pietà, il cielo era color cenere, l’afa al massimo. Trovai una pizzeria con tre napoletani abbioccati e in un bagno di sudore: il forno a legna acceso, niente aria condizionata né ventilatori. Quattro giovani, che mi parvero agenti di commercio, s’erano piazzati in quattro tavolini diversi in compagnia dei loro listini, dei loro problemi e delle proprie solitudini.
   Rimediai una spaghettata allo scoglio con cozze e vongole che mi fissavano malinconiche dai loro gusci unticci. Bagnai il tutto con una birra gelata, aggiunsi un caffè lungo e cattivo, rimasi a pensare a Flory. Mi ero impresso nel cervello una sua frase che continuava a circuitare. “Come ti sei permesso di ficcare il naso nella mia vita privata? Cosa intendi con quell’eccetera eccetera?” Ogni volta che ci pensavo rivedevo l’ira che in un lampo le aveva deformato il volto. Aveva reagìto come punta da dieci vespe. Ancora una volta avevo sbagliato. Mai scoprire le proprie carte anzitempo. La sua vita privata, quella regalatami dalle sue colleghe, era di una normalità disarmante. E allora? Perché tanta ira? Avevo chiuso la frase nel modo più sciocco e banale con cui si può chiudere una frase: “…eccetera eccetera”. Era martedì, l’episodio risaliva a sabato, erano passati tre giorni e più ci pensavo più mi convincevo che quell’eccetera, ripetuto due volte, lei lo aveva interpretato come qualcosa di taciuto. Ma io nulla avevo da tacere. Non pensarci più, mi dissi, e chiesi un’aranciata amara  per togliere il cattivo sapore del caffè, e il loro telefonino.
   “Scusate, ho dimenticato il mio. Vi pago la telefonata” mentii, e chiamai Alfio.
   “Dove sei?” mi chiese pimpante.
   “In pizzeria. Ci vediamo a casa mia?”
   “D’accordo. Corri a casa, meglio salire uno alla volta. Tra mezz’ora.”


   Ero appena rientrato quando suonò il campanello.
   “Vai tranquillo; sono io” gracchiò nel citofono. Entrava per la prima volta in casa mia e non gli sfuggirono manco le ragnatele dietro al divano.
   “Parcheggia le tue chiappe dove trovi posto” gli consigliai. Il suo spirito d’osservazione era un dono di natura riservato a pochi. Gli mostrai il mio pensatoio: un soggiorno multiuso con divano, computer, libreria, impianto stereo e un balconcino che s’affacciava sul cortile. Cucinino, bagno, camera da letto e ripostiglio con porta blindata, come quella d’ingresso. Parecchio disordine, molta polvere ma a me andava bene così. La signora Iole aveva fatto le cose all’ingrosso e parecchio male. Pazienza. L’appartamentino lo guardò come solo lui sapeva guardare poi disse:
   “Piccolo, carino, disordinato… È tuo?”
   “È mio. Me lo comprarono i miei genitori prima di morire.” Si fermò perplesso davanti alla porta blindata.
   “Ottimo, cosa ci nascondi dietro?”
   “Ciò che deve stare al sicuro: soldi, armi, ricordi e tanta malinconia” risposi aprendo la porta. Guardò tutto e toccò solo uno dei tre  coltelli a serramanico. Lo aprì, se lo rigirò tra le mani, disse:
   “Una cosa sola ti ho sempre invidiato: il modo in cui lo facevi danzare sulle punta delle dita. Lo sai fare ancora?” Lo precedetti in soggiorno e gli diedi una dimostrazione che lo lasciò sbalordito.
   “Chi ti ha insegnato?”
   “Un calabrese che lavorava con mio padre. I miei erano circensi. Mi tengo in allenamento a suon di musica, seguo il tempo, accelero o rallento in base alla partitura. Vuoi provare?” Fece no col capo, me lo prese e lo riportò al suo posto.
   “Il torrone dell’altra sera, ti prego di accettarlo” dissi mettendogliene in mano uno che tenevo in serbo per altra occasione.
   “Grazie” rispose scartandolo “hai imboccato la TAV delle calorie: torrone ad alta velocità.” Lo aprì spiegandomi che lo si guardava sempre dov’era tagliato:
   “Prima leggi gli ingredienti, la data di scadenza, poi guardi le nocciole e l’altra frutta secca e candita. Non è un dolce invernale, ma funziona tutto l’anno. Sto perdendo tempo” stabilì mettendolo via.
   “Questa è la chiave ricavata dalla tua fotografia. Il mago della scientifica è sicuro che funzionerà” aggiunse convinto. Un elastico fermava un bigliettino con scritto “cento euro”, più i saluti e gli auguri di un tecnico sconosciuto ma molto educato.
   “L’ho pagato io, siamo a posto.” Dalla tasca sfilai il portafogli ma mi costrinse a metterlo via. Si tolse il giubbino, la fondina ascellare con l’artiglieria, controllò la sicura e portò tutto in camera da letto. Tornò con la foto di Floriana che volle vedere, bene in luce, vicino alla portafinestra.
   “Se è la tua recente conquista ti faccio i complimenti” si rallegrò spostando lo sguardo sulla foto e su me più volte.
   “Perché recente?”
   “La cornice è nuova, la foto è di qualche giorno fa, lei veste estivo. Tu ne sei innamorato, lei no.”
   “Come fai a dirlo con la sicurezza dell’infallibilità?” Mi guardò con aria di compatimento, e invece di rispondermi aprì il frigo, prese la bottiglia di minerale gasata, cercò un bicchiere lo riempì e vuotò in un fiato.
   “Tu permetti, vero?”
   “Fai come a casa tua. Rispondi subito o dilazioni le risposte come le cambiali?” Prima di rimettere l’acqua in frigo mi disse se ne volevo. Rifiutai. Tornò vicino alla finestra, studiò il volto della donna, continuò:
   “Il sorriso è falso perché forzato, non è rilassata ma tesa, il suo sguardo è enigmatico… come chi nasconde qualcosa. Secondo me”.
   “Interessante, complimenti. Cosa potrebbe nascondere, secondo te?” pretesi.
   “Una delusione, un problema famigliare, forse un problema di salute. Difficile dire, non la conosco, vedo la foto per la prima volta.”
   “Vuoi conoscerla? Sapere dove lavora?” mi offrii disponibile.
   “Nient’affatto. Sono affari tuoi e scusami se mi sono permesso” concluse riportando la foto sul comodino. Quando tornò mi confidò che aveva letto la data sul retro della foto.
   “Complimenti, non ti facevo così svelto.”
   “Tu sei veloce col serramanico, io in altre cose.” Si abbandonò sul divano e m’informò che quasi certamente avevamo l’uomo giusto disposto a volare a Paderborn.
   “La risposta me la darà domani, al massimo dopodomani; deve organizzarsi. Ho preso le informazioni sul suo conto e sono buone.” Prese una della mie sigarette leggere, l’accese, recuperò un portacenere zeppo di mozziconi vicino al computer, andò alla finestra e, tra una boccata e l’altra, continuò:
   “Se quello accetta bisognerà instradarlo, dirgli dove dovrà andare, cosa cercare, come dovrà cercare. Non credo che tu voglia pagargli le vacanze per niente”.
   “Ci sto pensando” risposi deciso. Si girò scrutandomi con aria strana.
   “Fallo bene, fallo subito, perché in quindici giorni risultato zero.” Lo affrontai in piedi, appoggiato al tavolo del computer.
   “Hai ingoiato un rospo che non hai ancora digerito? Sputalo!”
   “Okay… senza scoraggiarti” aggiunse buttando la cenere in quella schifezza di contenitore che teneva in mano. “Per circa due secoli hanno cercato senza trovare. Tu, da solo, pretendi di trovare l’ago di una bussola nell’oceano. In quanto tempo, posso saperlo?” Non lo sapevo. Tacqui scuotendo la testa.
   “Taci perché non hai un piano, brancoli nel buio, non sai da dove cominciare.”
   “È vero… per questo mi serve il tuo aiuto.” Spense il mozzicone che ancora fumava, disse che gli si era acceso il desiderio di dolce. Andò in cucina e tornò con un coltello dalla lama sottile e su un rettangolo di teflon tagliò due cubetti di torrone. Uno lo diede a me, l’altro lo addentò dopo averlo scrutato su tutti i lati. Masticò adagio, chiuse gli occhi concentrato sulla sinfonia di sapori che gli rallegrava la lingua e il resto. Si pulì le labbra e il mento quindi riprese:
   “In questo labirinto di storia io conto meno di questo torrone. Però nelle mie storie ho sempre tirato fuori tutto, dico tutto, a chi mi stava di fronte. I miei metodi erano infallibili”.
   “E con cosa estorcevi le confessioni? Con la motosega?”
   “Signornò! Con argomenti inconfutabili. Non è il volume della voce che conta, ma il peso degli argomenti.” Masticò l’ultimo pezzo di torrone, andò in bagno a sciacquarsi dita e labbra quindi riprese:
   “Su quel tavolo, martedì 27 luglio non c’erano due valigie ma tre. Apri il forziere e dimmi quanto conteneva… dimmelo fissandomi negli occhi.” Si portò a un palmo dal mio naso con aria minacciosa. Sapevo che ci sarebbe arrivato ed ero pronto a parare i suoi colpi. Avevo fatto il furbo e dovevo rimediare.
   “Il committente ha preteso che restasse un fatto personale, ho dato la mia parola. Quanto vuoi per aiutarmi?”
   “Vaffanculo!” sbraitò. “Queste società si fanno sulla parola e sulla chiarezza. I sotterfugi le affossano. O apri la cassaforte o prosegui da solo” masticò amaro. Optai per una pausa rilassante. Dal frigo tolsi una granita al limone per lui e un’aranciata amara per me.
   “Tieni; il torrone è buono ma mette sete.” L’accettò volentieri. L’afa era diventata una pellicola avvolgente e appiccicosa. La città boccheggiava per il caldo naturale più quello artificiale e puzzolente. Mi misi in pantaloncini e t-shirt, lui tolse la camicia restando in canottiera. Un crocifisso d’oro, appeso alla collanina, affogava nella boscaglia pelosa del suo petto.
    “D’accordo, la torta è roba tua” riprese falsamente calmo, finita la granita. “Ma il dolce, se si arriva a fine pasto, dev’essere per due. Concordato prima. Perché prima si discute, poi si litiga. Ti ho forse chiesto le dimensioni della mia fetta? Dimmi la verità, poi decidiamo. Assieme e amichevolmente.”  Accesi un’altra sigaretta, aprii la finestra per soffiare fuori il fumo. I cubi grigi dei palazzoni s’inseguivano fino a dileguarsi nella foschia. Due passeri rugginosi atterrarono sul corrimano del balcone vicino al mio. Forse erano una coppia felice alla ricerca del posto giusto.
   “A operazione conclusa ti offro 250 mila euro. Ti vanno bene?” Ebbe un guizzo, cambiò espressione.
   “Mi vanno bene. È la metà di quanto ti ha offerto?”
   “Esatto… è la metà del compenso.”
   “Mi vanno bene, ma mi hai mentito.”
   “Vaffanculo tu, adesso. Perché ti avrei mentito?” sbraitai a mia volta, più forte di lui.
   “Non mi hai piantato lo sguardo addosso. Puoi ingannare le tue puttane, non l’amico Alfio.”
   “Intanto io le donne non le compro; le conquisto. E poi la cifra che ti offro è da capogiro.” Ammise che tanti soldi non li aveva mai visti né mai immaginato di poterli guadagnare. Aggiunse, molto saggiamente, che più alta è la posta più alta è la vetta da scalare. E qualche volta si precipita. Era convinto che mentivo e tornò a ripeterlo. Fiuto ed esperienza ne aveva da vendere. Avanzò deciso:
   “Visto il burattinaio che ci muove, visto il bottino che manco immaginiamo, visto la caccia di cui è stato oggetto l’offerta è stata molto superiore. Forse il doppio. Accetto con riserva. Tu mi nascondi una carta, io tengo aperta la porta”.         Accantonammo il problema compenso concentrandoci sulla messa a punto di un piano.
   Aprii la pianta sul tappeto ai piedi del divano, ci aggiunsi le foto, ognuno cominciò a dire la sua. Fu subito chiaro che l’inizio era più difficile della fine, e che una fine senza inizio era solo aria fritta. Se uno proponeva l’esame di un locale, l’altro lo bocciava. Eravamo sempre punto e a capo.
   “Dobbiamo infilare il naso dove nessuno lo ha mai infilato” proposi poco convinto.  
   “Bravo” mi compatì lui “e come sappiamo dove hanno frugato inutilmente gli altri?” Arrivammo all’ora di cena più delusi che stanchi.
   “Telefona a casa. Ti porto in pizzeria” lo invitai volentieri. Rifiutò come fanno i pensionati che a tavola ci vogliono stare con la moglie.
   “Se non rientro quella non mangia, se non mangia diventa cattiva, se diventa cattiva sono grane. Se voglio pensare devo farlo in silenzio e da solo. Sarà per un’altra volta. Grazie… anche per il torrone.”
   Lo accompagnai per un paio di isolati. Voleva camminare, telefonare a casa, arrivare solo alla macchina. Ci salutammo. Lo vidi allontanarsi pensieroso nella luce polverosa del tramonto.









11

Un professore di nome Emiliano









   L’uomo di Alfio disposto a volare a Paderborn era un giovane professore universitario di buone speranze e ottime promesse. Così me lo aveva definito mettendomi in mano alcuni fogli con gli appunti raccolti da lui e da suo figlio l’ingegnere. Li scorsi velocemente e lo feci contento:
   “Se va bene per te, e per tuo figlio, va bene anche per me” gli dissi con diplomazia. Alfio lo aveva incontrato, fiutato per bene, con lui aveva chiacchierato senza fargli capire che era un interrogatorio. Secondo lui era l’uomo giusto.
   Decidemmo l’incontro a tre in un posto fuori mano, in aperta campagna, lontani da occhi e orecchie indiscrete. Alfio conosceva il proprietario che ci avrebbe riservato una saletta solo per noi. Proposi la cena, Alfio mi disse che lo aveva già fatto lui ma il professore rifiutò. Gli bastava un buon gelato. Prendemmo le solite precauzioni; ognuno con la propria auto, alla fine ognuno per la propria strada. Fissammo l’appuntamento alle dieci di sera; il ristorante era una vecchia cascina ristrutturata con due menu e due prezzi: modico a mezzogiorno per lavoratori frettolosi, sostenuto la sera per una clientela con più tempo e più soldi.
   Dalla provinciale si staccava una strada più stretta che finiva in un grande cortile col ghiaietto mostrando una vecchia cascina ristrutturata. Segnavano il confine coi campi di meliga una decina di vasi di oleandri, un aratro arrugginito, una carriola col cerchione di ferro. Arrivai con mezz’ora di anticipo, parcheggiai l’auto a modo mio, guardai dovunque. Al proprietario che uscì in cortile dissi che ero amico di chi aveva prenotato. Mi disse di fare come a casa mia.
   L’alito serale della campagna era ristoro per i polmoni; sapeva di meliga, di erba umida di rugiada. L’estate si manteneva torrida e afosa, la pioggia restava una speranza vana. Trovai difficile seguirci senza essere notati. C’erano sei automobili, all’interno quindici persone e, mi parve, niente di anomalo.
   Poco prima delle dieci arrivò Alfio, cinque minuti dopo il professore. Partirono le presentazioni e le banalità di rito.
   “Quando verrà il temporale saranno disastri” furono le prime parole del nuovo alleato. Eravamo nel cortile e l’amico volle subito ridurre le distanze.
   “L’Operazione Lepre in Salmì rifiuta inutili formalità. Anche se il professore non lo conosciamo, consideriamoci tra amici e diamoci del tu.” Concordammo. Il giovane di buone speranze si chiamava Emiliano, trentatré anni, alto e magro, un bel visino  cinematografico, baffetti e barba fintamente incolti, capigliatura abbondante tendente al biondo, occhi verdi come la menta. In Germania poteva passare per un bel tedesco. Calzava mocassini marroni, pantaloni rosso mattone, camicia a righe bianche e azzurre da cui spuntava l’immancabile t-shirt. Dalle spalle pendeva un golfino di cotone giallo con scollo a “V”. Io studiai lui, lui studiò me e dopo qualche minuto entrammo.
   Ci piazzammo in una saletta tipo stalla mal restaurata. Non dissi niente, ma non mi piacque quella specie di catacomba scelta da Alfio. Eravamo soli e fu l’unica cosa che mi andava bene. Alfio ci informò che il giovedì era serata calma e il ristorante era mezzo vuoto. Infatti. Non gradii la scarsa illuminazione, la puzza di cera per le troppe candele, l’odore di muffa.
   L’arredamento era costituito da piccoli attrezzi agricoli, arrugginiti, appesi alle pareti alla rinfusa, quattro tavoli, e nell’angolo un mobile con bottiglie, bicchieri, piatti e posate. Mi parve un rifugio per amanti clandestini e malviventi di passaggio.
   Emiliano ordinò un gelato con quattro gusti, Alfio una granita siciliana al limone con sopra una pallina di gelato, io la solita aranciata amara con abbondante ghiaccio. Il proprietario scrisse tutto su un foglietto, lasciò la copia sul tavolo e s’avviò verso il frigo. Navigava verso la cinquantina, vestiva di nero, anche il suo umore mi parve nero: aveva una bella pancetta e la faccia da pera cotta. Lo rincorsi, mi feci mostrare i dolci, mi consigliò il tiramisù fatto da sua moglie che, disse e sottolineò, aveva le mani d’oro.
   “Ottimo consiglio, con due bottiglie di spumante brut immerse in acqua con abbondante ghiaccio.” Tornò indietro, infilò la prima ordinazione nel blocchetto, ci aggiunse il resto e sparì.
   I due amici reclamarono per le troppe calorie, ma alla fine gradirono.
   Per sua e nostra fortuna Emiliano non portava braccialetti né metalli facciali. Quei sinistri luccichii a noi puzzavano di esibizionismo. Prima di cominciare tirai le tende dell’unica finestra. Continuammo la chiacchierata sfogliando le solite banalità: il tempo, il lavoro, la salute, le vacanze di agosto. Emiliano capì che lo stavamo ancora studiando, stava al gioco, parve volentieri.
   Dopo dieci minuti ci convincemmo che era coltissimo ma non lo faceva pesare, conosceva quattro lingue, tedesco compreso, ma non se ne vantava. Le sue risposte erano immediate e calzanti; su tutto. Gli spiegai che l’Operazione Lepre in Salmì era regolare, anche se quel nome lo faceva sorridere. Alfio era un ex poliziotto, io lo ero senza ex, ma che da tempo non indossavo la divisa lo tenni per me. La mia patacca e una foto di Alfio in divisa glielo confermarono. Aggiunsi che le precauzioni giustificavano la posta in gioco: una posta molto alta. E questa poteva invogliare qualche malintenzionato a inserirsi nell’operazione. Magari comparendo alla fine.
   “Il tuo sarà un gradevole lavoro di ricerca: quello di uno studioso. Un viaggio all’insegna della cultura e dell’arte” sottolineai mostrandogli la foto del tondo con le tre lepri fatta in casa del committente, e la stampa a colori di una cuspide del duomo di Paderborn. Il professore guardò le due immagini, inspirò, inarcò le sopracciglia e tacque.
   “Ipotizziamo un nesso, un filo conduttore, tra queste immagini e antichi documenti nascosti in Italia che dobbiamo ritrovare perché restino patrimonio del nostro Paese” gli spiegai. Si passò la mano sulla fronte e disse:
   “Se questi documenti sono in Italia, cosa vado a cercare in Germania?” Finalmente arrivò il proprietario seguito dal cameriere, Feci sparire i due fogli. Spinsero un tavolino vicino al nostro e ci posarono le ordinazioni. Alfio partì con la granita, Emiliano assalì il gelato, io spinsi da parte l’aranciata amara, aprii la prima bottiglia di brut e versai per tutti. La sua domanda restava sospesa e gli risposi:
   “Emiliano… ascoltami bene. La forza e l’abilità di un uomo si vedono dal come affronta e risolve le situazioni che gli si presentano”.
   “E dal come sa fiutare le situazioni giuste” m’appoggiò Alfio.
   “Una parte di questi documenti potrebbe essere ancora là. Se è così bisognerà portarli a casa, ma questo sarà compito nostro.” Emiliano sorseggiò un poco di brut, avvicinò le due immagini, bisbigliò:
   “Chiuse in un cerchio tre lepri si rincorrono”.
   “Formando triangoli” aggiunsi io.
   “Già… perché?” sospirò ritornando al gelato. Seguì una pausa in cui i due continuarono la degustazione dei loro dolci. Io calcai la mano sull’importanza della ricerca nella massima segretezza.
   “Visto l’importanza della cosa, perché non ci andate voi?” propose spiazzandoci.
   “Ottima domanda” reagii deciso. Forse in quel momento me lo stavo giocando, il professorino. Cominciai col problema della lingua: non conoscevamo il tedesco, non eravamo filologi né ricercatori universitari, non avevamo titoli che avallassero tale ricerca e a tale livello. Tutte cose che sapeva, ma volle sentirmele dire. E io gliele dissi: tanto bene da convincerlo. Almeno mi parve.
   “I dati scoperti li consegneremo nelle mani giuste. Il seguito sarà compito loro. Tutto chiaro?” continuai fissandolo dritto negli occhi in cui lessi un lampo di ottimismo.  Alfio e io gli tracciammo una scaletta suggerita dal buon senso, fiuto ed esperienza: l’archivio parrocchiale, quello comunale o quello civico, l’università certamente disponibile eccetera.
   “Senti, Emiliano” proseguii riempiendogli il bicchiere “molte carte con molti timbri ti apriranno parecchie porte. Le avrai?”
   “Le avrò. Attenzione… non ho ancora lanciato il sì definitivo” rispose tenendoci sulla corda. Intervenne Alfio che propose un brindisi al nulla. Finimmo la prima bottiglia e servii il tiramisù. Chiesi se gradivano una bottiglia di vino dolce ma il rifiuto fu netto. Mi allontanai con la scusa del bagno; sbirciai la sala, uscii in cortile, controllai tutto quanto potevo controllare. Quando rientrai Alfio gli stava dicendo:
   “Le grandi inchieste, le scoperte importanti, i grandi risultati sono spesso partite da inezie. Te lo dice uno del mestiere”.
   “Come quei tre leprotti in cortocircuito? Per loro bastano un dizionario dei numeri e quello dei simboli” aggiunse pensieroso Emiliano che finì il gelato, riguardò le due immagini dicendo:
   “Ho l’impressione che vogliate aprire una porta con la chiave sbagliata. Sempre che ci sia una porta da aprire.” Io e Alfio ci guardammo perplessi.
   “Vuoi essere più preciso?” pretesi
   “Certo. Un archivista o un paleografo sarebbero stati una chiave migliore di me. Non ho dubbi” disse convinto. Intervenni io:
   “Conosco Alfio da quindici anni e il suo fiuto è unico. Io sono d’accordo con lui, in pieno. Tu sei la chiave giusta. Prima di continuare aspettiamo la tua decisione, e la vogliamo subito”. Misi sul tavolo accendino e sigarette fregandomene del divieto di fumare. Ai due che mi ripresero feci presente che c’erano troppe candele accese creando un disagio peggiore. Alfio e io accendemmo, il professore non era fumatore.
   “Okay, accetto. Proseguiamo” disse Emiliano con un sorriso illuminato dalla convinzione. Finalmente alzammo i calici per qualcosa. Per precauzione, e quasi scherzando, gli spiegammo alcuni accorgimenti: come scoprire se era inseguito, come selezionare e attirare l’inseguitore fuori dalla folla o viceversa, come seminarlo o prenderlo alle spalle. L’ultimo esempio fu quello dei pubblici esercizi dove, vicino alle toilette, c’è sempre un retrobottega per l’ingresso dei fornitori. A fine spiegazione sorrise divertito dicendo:
   “Mi sento un pirla travestito da agente segreto. Anzi, no… un agente segreto travestito da pirla. Mi sto divertendo come non mai”. La risata fu grassa e collettiva. Proposi di finire il tiramisù, chiesi se gradivano il caffè e andai a ordinare. Diedi un’occhiata alla sala, contai le persone e la sistemazione ai tavoli, andai in cortile, contai le macchine esaminandole una a una. La proprietaria stava parcheggiata dietro la cassa. Nonostante l’aria assonnata mi regalò un sorriso molto professionale. Aveva la pelle a buccia di arancia, era lucida di sudore come una tinca appena pescata, le unghie troppo lunghe e troppo rosse. Ordinò tre caffè al ragazzo muovendo a fatica i suoi cento chili.
   “Aggiunga qualche digestivo, il limoncello e cubetti di ghiaccio. Il conto è mio.”
   Con Emiliano volli chiarire un ultimo punto:
   “Coi soldi in ballo all’inizio si discute, ma alla fine se non si è stati chiari subito si litiga. Discutiamo il tuo compenso giornaliero. Le spese sono a parte, ma dovranno essere documentate. Siamo disposti a spendere, ma non a scialacquare. Avanti, spara”. Arrivarono i caffè, i digestivi e il ghiaccio. Scegliemmo tutti il limoncello allungato e raffreddato con ghiaccio. Pagai 85 euro di conto, aspettammo che il proprietario si allontanasse, Emiliano fece tintinnare il ghiaccio nel bicchiere un paio di volte poi disse:
   “Non sono esoso, considero questo viaggio anche una vacanza studio… centocinquanta euro al giorno, al netto delle spese, vi vanno bene?” Guardai Alfio che annuì con gli occhi. Accettai. Aggiunse:
   “Mi accontento di un alberghetto modesto ed evito ristoranti costosi”. Lo ringraziai, ci demmo la mano, brindammo col poco brut rimasto. Ci scambiammo i biglietti da visita, controllammo che ci fosse tutto: telefono, fax, cellulare, posta elettronica.
   “Quando pensi di partire?” gli chiesi posandogli una mano sulla spalla.
   “Quanto prima. Sistemo un paio di cose, preparo le carte coi timbri, valigia, computer portatile e via.”
   “Treno o aereo?”
   “Do un’occhiata ai costi del treno e fiuto i last minute degli aerei. Spendere ma non scialacquare” mi rimandò spiritoso. Gli misi in mano una busta gialla tenuta chiusa da un elastichino.
   “Contiene tremila euro come acconto. Vanno bene? Bastano per ora?”
   “Vanno benissimo. Sistemeremo i conti al ritorno.” Lo salutammo con tanti auguri e strette di mano. Ci parve soddisfatto e convinto. Alfio e io uscimmo a respirare la brezza notturna, fumammo l’ultima sotto le stelle, passeggiammo tra le poche auto guardandoci attorno.
   “Il conto automobili e persone ti torna?”
   “Nient’affatto, caro Alfio. Ho lasciato il tavolo due volte, ho controllato dentro e fuori, c’erano due auto in più. Ora ce n’è una. Quella là in fondo, con sopra un segugio.”
   “E l’altra?” aggiunse lui che subito si fermò. “Non me lo dire: ha seguito Emiliano.”
   “Esatto. Ci stanno dietro, ma finora nessuno ci ha morso il culo.”  Camminammo, come se niente fosse, in direzione della provinciale, parlammo sempre sottovoce, sfiorammo l’auto memorizzando il numero di targa mentre quello fingeva di armeggiare attorno all’autoradio.
   “Speriamo di non fare un buco nell’acqua” borbottò cupo l’amico.
   “Ne parleremo tra una settimana” risposi ottimista. Tornammo alle nostre auto salutandoci.
   “Vai tranquillo, quello non ti seguirà” gli bisbigliai.
   “Il solito trucchetto?” Annuii col capo, ci stringemmo la mano e mentre lui metteva in moto io piazzai la mia auto talmente vicina all’inseguitore che non poté muoversi.
   Dopo dieci minuti mi allontanai nella notte.












12


Il terzo servizio








   Lo squillo del telefono mi raggiunse in bagno mentre mi strofinavo i denti. Mi asciugai la bocca, abbassai il volume del televisore, andai a rispondere. Il numero sul display mi disse che arrivava dalla villa e mi convocava per un “servizio particolarmente dolce.” Era la biondona.
   “Dolce come la bevanda che avrai assaggiato?” le chiesi.
   “Questo dipende da te, comunque grazie; l’ho trovata squisita. Oggi pomeriggio alle tre. Puntuale” e riattaccò. Finii le pulizie personali pensando ai due “servizi” precedenti: un manico da scopa il primo, una balena affamata di dolci il secondo. Cosa intendesse con quel “particolarmente dolce” non mi fu chiaro. Pazienza.
   Suonarono alla porta.
   “Chi è?”
   “Sono Iole, ho i pantaloni.” La feci entrare, appoggiò sul divano le tre paia di pantaloni con la delicatezza riservata a un abito da sposa. Erano lavati, stirati, con i passanti lunghi otto centimetri. Presi la cintura elaborata per nasconderci la molla della pistola, la infilai nel primo paio, andava benissimo. Preparai il caffè per due mentre lei mi spiegava quanto aveva tribolato perché la stoffa dei risvolti non era sufficiente eccetera eccetera. Corressi il mio con tre gocce di grappa, lei sorbì il suo al naturale, alla fine si riempì la tazzina di grappa che sorseggiò, con immenso piacere, alla mia salute.
   “Io il caffè lo correggo direttamente nello stomaco” si giustificò. Sfilai il portafoglio per pagare.
   “Conto unico a fine mese” propose decisa “se la tana del lupo oggi è libera ci do una bella ripulita. Ne ha bisogno” concluse guardandosi attorno.
   “Dalle tre alle cinque la tana è sua” le risposi alzandomi. Capii che avrebbe preferito, dopo aver attaccato i passanti, attaccare bottone, ma l’essermi messo in piedi le fece cambiare idea.
   “Mi saluti il marito” le dissi chiudendo la blindata alle sua spalle.
   Erano le 11 e 30, il televisore era sintonizzato su una emittente straniera e suonava La Marsigliese mentre sui Campi Elisi sfilavano i gioielli dell’esercito francese tirati a lucido. Gustai immobile quell’inno da brividi mentre il telecronista ricordava al mondo che era il 14 luglio e in Francia era festa nazionale.
   Indossai i pantaloni sistemati dalla signora Iole, c’infilai la cintura con dentro la molla della pistola. Andai davanti allo specchio: andava bene, non si notava. Presi il solito borsone, ci fissai sotto la pistola disassemblata. Misi dentro poche cose per evitare che lo rovesciasse.
 Alle dodici e mezzo scesi dall’amico Plimpo per un pasto leggero e veloce.
   “Leggero sei tu, veloce sono io, eccezionale è mia moglie che ha le mani di una professionista” mi rispose col solito humour nero.
   “Con cosa mi avveleni lo stomaco oggi, 14 luglio festa nazionale francese?” Ci pensò un attimo mentre apparecchiava per tre il tavolo nel retrobottega.
   “Oggi ti avveleno con un nodino di vitello alla parisien, insalata alla maniera di Escoffier e fromage délicieux. Ora siediti, mangia e non rompere i coglioni.” La moglie preparò il nodino con un rametto di rosmarino e uno spicchio d’aglio in camicia leggermente schiacciato, lui l’insalata, io aprii il vino e frugai nel frigorifero.
   Mangiammo con la bocca, parlammo con gli occhi, riservammo i commenti ala fine. Ci conoscevamo talmente bene che evitavamo le domande conoscendo le risposte.
   “Mi spiace che tutti gli anni, a Ferragosto, tu chiuda baracca e burattini per andare a sorridere di fronte alle Dolomiti” dissi facendo l’occhiolino alla moglie.
   “A me no” mugugnò lui.
   “Lo sai perché mi dispiace?”
   “Certo, ti mancano i nostri pranzetti a prezzi stracciati.”
   “Balle. Mi spiace non vederti ridere come fai a Natale e Pasqua.” In compenso rise la moglie.
   “Tu ridi anche per noi” continuò cupo. “Il mondo non è di chi ride.”
   “È vero” conclusi “il mondo è di coloro che piangono perché possono lavarsi senza consumare l’acqua. Anche oggi ho imparato qualcosa.”
   Finimmo il nodino con l’insalata poi Plimpo disse alla moglie:
   “Vai in cantina e prendigli il melone peggiore” e con quello conclusi degnamente il pranzetto. Pagai quindici euro mentre aspettavo il caffè, poi corsi a casa a recuperare il borsone.


   Arrivai in villa, e di proposito, con solo dieci minuti di anticipo, salutai la biondona e un gigante ingrugnito simpatico quanto un dinosauro. Era venerdì, il personale al minimo, l’ufficio con un solo giovincello computerizzato. Faceva eccezione il ristorante, ma era cosa a parte. Posai il borsone sull’unica poltroncina appena dentro l’ingresso, chiesi una perquisizione veloce battendo il dito sull’orologio. Tirai la cerniera e lasciai che fosse lei a frugarci dentro. Lo fece ringraziandomi per la bottiglia che aveva trovato favolosa. Disse tutto sottovoce, senza farsi sentire dal gigante che ci osservava calmo e immobile come un ghiacciaio. Allargai braccia e gambe esponendo la cintura.
   “Palpami con le tue manine di fatina” scherzai conoscendo le due pale che aveva al posto delle mani. “Dimmelo quando l’hai finita; ne ho pronta un’altra” continuai a bassa voce. Lei sorrise e la sua bocca parve un abisso.
   “Chi è quella massa di carne cruda piantata su due gambette?” chiesi bisbigliando dandogli le spalle.
   “Un ex buttafuori, un pallone gonfiato.” Quello non gradì il nostro parlottare, lo interpretò male, si avvicinò rimproverandomi malamente. Lei scantonò lasciandolo tutto per me. A distanza ravvicinata lo guardai bene: in lui tutto era meschino: il sovrappeso, l’aria minacciosa, la somiglianza con King Kong.
   “Mi sembri l’uomo delle pompe funebri” lo provocai.
   “Capace di seppellirti se non metti la coda tra le gambe” s’accese spintonandomi.   Mi guardai dietro, poi guardai lui.
   “Non ho la coda” risposi, rendendogli lo spintone. Per poco non cadde. Dovevo stare attento al borsone. Lo aspettai lasciandomi mettere le mani addosso. Non era solo grosso, ma anche stupido e cattivo. Abboccò afferrandomi le spalle e scrollandomi come una piantina di olive. Mi divincolai fingendo di scappare nei servizi. Fui rincorso e appena dentro lo atterrai con uno sgambetto falciante. Finì bocconi sul pavimento: grossa preda nelle mie mani. Gli volai sopra e, rapidissimo, gli girai il braccio sinistro dietro la schiena, mentre col destro gli serrai il collo.
   “Hai l’alito che puzza di fogna. Se non ti rompo l’osso del collo ti regalo un dentifricio.” Cercò di liberarsi dalla mia morsa attivando tutta la sua forza taurina. Forzai la presa. Avrei potuto romperlo e lui lo capì.
   “Senti… betoniera di merda” ringhiai esponendogli il menu dei suoi guai. Per dimostrargli che non scherzavo strinsi la morsa. La paura lo sbiancò come un lenzuolo.
   “Sei grande, grosso e cattivo: un vero duro. Ora il duro chiederà scusa, altrimenti gli spezzerò qualche osso. Vuoi sentire?” Strinsi la presa. Emise ruggiti incomprensibili, gli mancava il fiato, il suo volto si tinse di tutti i colori dell’arcobaleno. A un certo punto mi parve che stesse scoppiando; proprio come un pallone gonfiato. Da una doccia uscì un giovanottone bagnato e fumante, guardò la scena, capì, puntò la porta per fuggire.
   “Fermo lì!” urlai. Si bloccò come una bella statuina: la mano destra sul pistolino, la sinistra alta in segno di resa. Ritornai alla mia grossa preda:
   “Chiedi scusa” pretesi alzando la voce. Lo disse piano, non mi bastava, volevo sentirlo forte con tutto l’odio che mi bolliva dentro. Lo feci scricchiolare, lo palpai nei posti giusti sentendo che non era armato.
   “Basta… bastaaa, scusami” gridò implorante. Lo sollevai colpendolo con un pugno allo stomaco. Non troppo forte, ma sufficiente a farlo crollare. Dall’armadietto presi un tubetto di dentifricio e glielo infilai nel taschino della giacca.
   “Questo migliora l’alito” gli ricordai come promesso.
   Chiamai il ragazzo spostandomi nell’altro locale, inseguito dalle solite minacce, compresa la certezza che mi avrebbe fatto la pelle. Il ragazzone lo portai davanti allo specchio, col gomito cancellai la patina di vapore.
   “Guarda: ti vedi bene?” Annuì spaventato. La sua sottomissione m’imbestialiva. Possibile, pensai, che un mandrillone grande e grosso qual era tremasse per così poco? Gli urlai:
   “Parla forte perdio! Sembri un cagnolino d’appartamento”. Niente da fare. Era un agnello e, al massimo, mettendo le corna sarebbe diventato caprone. Immobili davanti alle nostre immagini gli spiegai la realtà:
   “Strofina bene il tuo cervellino. Guardati: due orecchie, due occhi, due braccia, due gambe. Però… una sola bocca. Intendi il significato?”
   “Lo intendo.”
   “Bravo” dissi mettendogli una mano sulla spalla “dopo aver visto come funzionano certe cose come va tenuta la bocca?”
   “Chiusa… va tenuta chiusa.”
   “Giusto. Ecco come finiscono i maiali” continuai indicandogli colui che, traballando, se ne andava mugugnando improperi e minacce.
   “E se parla lui?”
   “Tranquillo. Lui non parlerà. Penserà di ammazzarmi colpendomi alle spalle.” Lo salutai offrendogli la mano. Mi offrì la sua: una delusione; fu come stringere il capezzolo di una mucca da latte.
   Entrai nel gabinetto, chiusi a chiave, e dopo aver cancellato le impronte col fazzoletto infilai i pezzi della pistola dentro al bidè grazie ai quindici centimetri di spazio dal muro. Solo l’idraulico, in caso di guasto, li avrebbe trovati. Strappai un paio di metri di carta igienica, la bagnai e tolsi la polvere tra muro e sanitari. Buttai la carta nel water e tirai l’acqua.
   Uscii, infilai il borsone nell’armadietto mentre la biondona si affacciava per accompagnarmi.
   “Non ho visto niente, ma ho capito tutto” bisbigliò con un sorrisetto più ruffiano che malizioso. “Da oggi hai un nemico in più.” La seguii per un percorso che cominciavo a conoscere e a mal sopportare. Solita porta, solite raccomandazioni, solito buio di una benda che mi schifava. Colei che mi aspettava aveva scelto il nome di Orchidea.
   “Buongiorno, Orchidea, come stai?” Una vocina moscia rispose flebile e svogliata:
   “Ciao, io bene. E tu?” La sentii pigiare l’interruttore della luce. Voleva vedermi com’ero realmente. Le foto non le bastavano; la misi alla prova.
   “Hai acceso o spento?” le chiesi gentilmente.
   “Ho spento.”
   “Non è vero, hai acceso. Vuoi vedermi come sono a grandezza naturale.” Mi fu dietro, controllò la benda, era a posto.
   “Come sai che ho acceso?”
   “Colleziono interruttori, qui tutti collezionano qualcosa. Passo il mio tempo libero a capire l’infinitesimale differenza del rumorino tra accendere e spegnere.”
   “Forse dovrei ridere, ma non ne ho voglia. È faticoso ridere senza motivo.”
   “E di cosa hai voglia, visto che mi hai  prenotato?” Rispose con uno sbadiglio. La sua mollezza mi ricordava la maionese andata a male. La sentivo svogliata e pigra come un animale in letargo. Avrei sudato parecchio.
   “Sono stato richiesto per un servizio particolarmente dolce. Mi dici in cosa consiste?”
   “Io sono particolare, dolce, indolente, pigra. Molte cose mi annoiano e infastidiscono. Sono un’accidiosa; conosci questa caratteristica?”
   “Per sentito dire e la rifiuto per amor del fare. Sono esattamente l’opposto.”
   “Un giorno ti verrà un colpo, scoppierai. Solo noi evitiamo l’infarto.”
   “Auguri. Meglio morire attivo che sopravvivere immobile” risposi annoiato e deluso. Mi chiese se volevo fumare. Accettai volentieri ma alla solita condizione:
   “Non essendo erbivoro non amo erbe strane. La mia erba preferita resta il tabacco. Una sigaretta normale l’accetto volentieri”. La sentii frugare nella borsetta, pretesi il pacchetto. Dopo le prime boccate mi posò una mano sul braccio dicendo:
   “Senti: -Volgiti qua: vedine due venir dando all’accidia di morso- . Queste parole ti dicono qualcosa?”
   “Meno di niente. Non intendo mordere la tua accidia, non sono cannibale.”
   “Conosci Dante?” chiese ridendo e pensando al mio morso mancato.
   “L’ho incontrato da ragazzo, a scuola, malamente e malvolentieri. Oggi l’unico Dante che conosco fa il gommista. Mi spiace.” Era una mollacciona anche nel parlare. Stava distesa sul letto dietro di me che ero seduto coi piedi sullo zerbino; la sigaretta in una mano, il portacenere nell’altro. Fumava il suo spinello di cui sentivo la puzza. Schiacciai la cicca nel portacenere, lo posai sul pavimento, mi alzai lentamente e con cautela arrivai alle bottiglie senza combinare disastri. Conoscevo la camera che avevo visitato con Ellen e la biondona.
   “Cosa bevi?” La sentii muoversi, girarsi verso di me osservandomi, credo, con curiosità.
   “Un amaro, se ti riesce senza vedere.” Aprii le bottiglie una alla volta, le annusai, trovai quella giusta. Sentii alcuni bicchieri capovolti, ne girai uno. Con l’indice all’interno ne versai tre centimetri.
   “Ecco fatto, tre centimetri. Con ghiaccio o senza?”
   “Con ghiaccio, sempre se ci riesci.” Ci riuscii divertendola. La mia mano destra urtò un secchiello. Conteneva una bottiglia chiusa immersa nel ghiaccio. Sicuramente spumante. Vicino al secchio alcune bottigliette che dalla forma mi parvero analcolici. Le proposi un calice di vino ghiacciato. Non gradì ma mi pregò di servirmi, cosa che feci subito e volentieri. Scelsi una bottiglietta piccola; un aperitivo asprigno che bevvi a canna.
   “Chissà di cosa sei capace senza benda” disse dopo un leggero colpo di tosse.
   “Toglimela e vedrai.”
   “Non provarci. Parlami della tua collezione d’interruttori.”
   “Volentieri. In cambio tu mi parlerai dei tesori della villa: le pitture, le sculture, i mobili, i libri, il famoso tesoro.”
   “Vuoi allungare la lista degli illusi?”
   “Sì, amo questo genere di storie. Un illuso in più non cambia la realtà.”
   “Sei suonato o lo fai?”
   “Un po’ lo sono, un po’ lo faccio. Vedi tu.”
   “Ah… volevo ben dire.” Le raccontai quattro frottole sugli interruttori mentre finiva l’amaro facendo tintinnare il ghiaccio. Mi avvicinai, le accarezzai delicatamente i lunghi e lisci capelli. Era parecchio profumata, l’alito sapeva di amaro, la stoffa dei suoi abiti mi parve di grande qualità. Spostai il discorso sulla villa e i suoi tesori nascosti. Cominciò con le pitture, seguirono le sculture, i mobili, i libri antichi e finalmente venne al punto.
   “Alcuni libri ne accennano la storia, molte chiacchiere bisbigliate ne alimentano la leggenda. I libri li trovi nelle migliori librerie, le chiacchiere le ascolti qua dentro da chi non sa niente ma crede di saperla lunga” disse in tono quasi confidenziale.
   “Tu cosa sai?”
   “Che qua dentro giace un tesoro sempre cercato e mai trovato.”
   “Quindi la tua conclusione…”
   “Il nobile a cui si fa riferimento era un tipo capace di tutto. La sua vita fu ricca di soldi e follie. Era un giocatore, uno stratega, un enigma. Pare certo che abbia lasciato delle carte scritte di suo pugno. Si dice che qualcuno le ha trovate ma non ci ha capito niente.”
   “E queste carte dove stanno?”
   “Credo qua dentro. Ma, ammesso che si trovino, risolvere gli enigmi di cui le ha impestate sarà quasi impossibile. È tutto, e ora cambiamo musica.” Questa risposta fu il massimo che ottenni. Non aggiunse altro perché nient’altro forse sapeva. Restavano le chiacchiere. Erano vere? Erano false? Difficile a dirsi.
   Trascorsero altri lunghi minuti; finalmente finì l’amaro. Con la lentezza dei suoi tempi mi avrebbe mollato a mezzanotte. Era venerdì pomeriggio, pensavo a Floriana, ero deciso a tornare alla carica con la speranza di portarla fuori domenica. Decisi di muovere il treno fermo in stazione.
   “Complimenti per la scelta del nome: Orchidea il fiore più bello e prezioso.”
   “Grazie” esalò appena.
   “Mi pare derivi da òrkhis, una parola greca che vuol dire testicolo. Ne ha la forma; lo hai scelto per questo?”
   “L’ho scelto a caso. Allora anche l’orchite esce dal medesimo palazzo?”
   “Certo. Per fortuna ne sono esente” la tranquillizzai. Non riuscivo a trascinarla su una discussione d’interesse comune. L’inizio di ogni dialogo appariva subito disarticolato e frammentario: come partire dalla fine. Forse l’unico modo per accenderla era il lanciafiamme. La sentii avvicinarsi alla finestra, tirò le tende avanti, poi indietro, reclamò per il caldo eccessivo. Le ricordai il ventilatore, lo trovò in un angolo, lo avviò puntandolo verso il soffitto. Il ristoro fu lieve e immediato. Disse che desiderava l’acqua di una piscina, nuotare godendo il piacere di un fresco avvolgente e totale.
   Provai a offrirgliela improvvisandomi poeta. La portai in un bosco flagellato dal vento, la immersi in un fiume fresco e limpidissimo, aggiunsi cascate enormi, monti innevati e laghi nordici. Ridevo e mi vergognavo di me stesso.
   “Annusa il profumo della clorofilla, le nubi pesanti come il piombo rovesciano pioggia a catinelle, i lampi come serpenti luminosi s’accendono in cielo. Li vedi?”
   “Sì, li vedo… continua ti prego.”
   “Sei gialla di polline, odori di menta e di fiori del bosco, la pioggia ti ha inzuppato i vestiti, rischi il raffreddore, devi toglierli e asciugarti.”
   “Sì, mago della pioggia, sono tutta bagnata, svestimi, asciugami, scaldami” miagolò la gattona avviata verso la combustione.
   “La pioggia aumenta, il vento abbatte gli alberi, il cuculo ha spento il giradischi, la cicala e tutti gli uccelli del bosco hanno staccato la filodiffusione. Tacciono: fine della trasmissione.”
   Avevo trovato il motivo giusto e su quel tema continuai fino alla fine. Poi la forza del vento si spense, le acque si placarono e su tutto tornò a risplendere il sole: la pace della natura e dei sensi, il recupero di se stessi dopo essersi, in se stessi, smarriti. Spossati dopo quell’uragano rimanemmo immobili e silenziosi per diversi minuti. Era in un bagno di sudore. L’asciugai col lenzuolo, mi lasciò fare offrendomi tutti i suoi lati, le sue curve. Intuii che stava con gli occhi aperti, serviva prudenza. Quando il respiro ritornò regolare le chiesi:
   “Sei sveglia?”
   “Sì, grazie, mago della pioggia. Nessun temporale mi hai bagnata così tanto. Sul più bello ho temuto di affogare.” La sollevai per sentirne il peso. Cercavo elementi per una scheda che mi parve difficile. Reclamò.
   “Ti ho spostata sull’asciutto” rimediai. Mi ringraziò ancora, la invitai a rilassarsi proponendole un sonnellino di mezz’ora. Non abboccò, cercò l’orologio finito chissà dove, chiedendosi l’ora.
   “Sono le cinque meno un quarto e siamo qui dalle tre.” Di scatto si mise seduta, mi fu dietro, controllò la benda.
   “Come puoi sapere l’ora se non vedi?” chiese piuttosto tesa.
   “Non vedo ma sento. Questo posto è pieno di pendole, radioline, suono delle campane e fischi di treni.”
   “Certo… forse anche di interruttori” concluse con l’ultima stoccatina. Il suo tempo non era scaduto, ma il mio sì. Mi disse che potevo lasciarla sola. Voleva riassestarsi in solitudine. Appena fui vestito mi accompagnò alla porta dicendo che forse ci saremmo rivisti.
   “Può darsi” risposi con la benda sugli occhi.


   Il borsone con l’arma e la cintura aveva superato l’esame perquisizione. Per cosa avessi nascosto l’artiglieria non lo sapevo manco io, ma un’arma, in quel posto, mi dava sicurezza. Feci l’occhiolino alla biondona, non vidi il dinosauro e me ne uscii nel sole, montai sull’auto all’ombra dei tigli.
   Su Orchidea non avrei potuto compilare alcuna scheda. Avevo un nome, un peso approssimativo e tanta antipatia per l’accidia. Ero arrivato al diciottesimo giorno e stavo ancora fermo al palo. Pensando alle parole di Orchidea: “Vuoi allungare la lista degli illusi?” mi sentii uno zerbino calpestato dalla fanfara dei bersaglieri. A questo pensavo mentre guidavo in modo molto distratto.
   Erano le 5 e 30 di un pomeriggio radioso ed ero come una lumaca che non sa dove andare. Se cominciavo a perdere l’ottimismo significava che le cose andavano male. Mi sarebbe piaciuto parcheggiare il cervello tra le braccia di Flory, perciò decisi andarla a vedere. Almeno per lustrarmi gli occhi.
   Arrivai poco prima delle sei, feci il giro del parcheggio, grande come un aeroporto, non vidi la sua Polo nuova fiammante. Puntai verso l’ingresso dei dipendenti col medesimo risultato. I pochi posti all’ombra erano zeppi, parcheggiai al sole, entrai deciso puntando verso il suo reparto. Al massimo qualche capo d’abbigliamento  l’avrei acquistato.
   Non c’era. La sostituiva una tipa graffiante, il profilo tagliente, l’occhio vispo e sospettoso. Appena fu sola l’affrontai gentilmente chiedendo notizie. Lei mi guardò come si guarda una scultura astratta, spinse in fuori  il labbro inferiore dicendo:
   “Oggi ha fatto l’orario continuato. Ha smontato alle quattro e di montare non se ne parla”. Con una smorfia incorniciò la grossolanità del doppio senso.
   “Ho lasciato a casa il numero del suo cellulare, abito distante, me lo può dare?” Mi diede le spalle, ci pensò un attimo.
   “L’uomo che dimentica il numero della sua donna non merita manco i numeri del lotto.”
   “Non sono il suo uomo ma un buon cliente.” Sorrise, mosse le dita come un pianista smaliziando:
   “Siamo fermi ai preliminari?”
   “Più indietro.”
   “Allora ai primi palpitoni cardiaci.”
   “Ancora più indietro” rimandai ostinato.
   “Più indietro di così non ci sono numeri di cellulare” e si rivolse a una cliente che pose fine a un altro mio sbaglio. Qualcosa mi disse che mi attendevano sonni agitati.
  










13

Uno stipo del 1700









   Da sabato 15 luglio, a lunedì 17 non successe niente. Tornai inutilmente al Paradiso Della Moda, ma non vedendo Flory evitai di chiedere informazioni alle colleghe. Passai alcune ore in palestra, andai a correre in campagna dalle parti della villa studiandola da lontano, mi arrabbiai sulle sue carte che avevano assunto le dimensioni di un labirinto negandomi il percorso verso il tesoro.
   Lessi alcuni quotidiani, ascoltai musica, passai da Pier, l’amico fotografo, mangiai in compagnia di me stesso. Sabato sera mi chiamò Alfio invitandomi a pranzo per domenica a casa sua. Rifiutai con una scusa tanto banale che lui capì prima che la sparassi. Aspettai invano notizia da Emiliano. Fui tentato di chiamarlo, ci pensai e ripensai, non lo feci. Meglio non assillarlo.
   Lunedì sera mi chiamò il committente, mi chiese come stavo poi passò a quel linguaggio col quale si dice niente lasciandomi intendere molto.
   “Qualcuno vuole vedere l’offerta per l’allarme. È pronto?”
   “È pronto dal 2 luglio” confermai. “Posiamo vederci? Meglio parlare a voce, non crede?”
   “Lo credo. Quando?”
   “Domattina. Fissi lei l’ora.” Ci pensò un attimo, sentii muovere dei fogli come di un’agenda.
   “Da me alle dieci.”
   “Ci sarò. Buonanotte” e riattaccammo. Spensi le luci e fumai l’ultima sul balconcino. Un uccellino in gabbia, nei piani bassi, cantò il dispiacere della sua prigionia. Il portone d’ingresso sbatté più volte, una giovane coppia si rincorse in cortile sghignazzando con la gioia incontenibile della giovinezza. La sirena di una croce rossa lacerò il silenzio: qualcuno stava molto peggio di me. Rientrai cercando di lasciar fuori più zanzare possibili, presi la valigetta da agente di commercio, ci misi dentro i due preventivi. Feci qualche ricerca al computer sulle ville antiche poi scelsi un volume sulla storia dell’arte, mi distesi sul divano e cominciai a leggere aspettando il sonno.
   L’indomani mattina, martedì 18 luglio, chiusi la valigetta nella BMW e puntai verso una prima colazione in un posto con facce nuove. Erano le nove, avevo tempo, girai nei dintorni per una decina di minuti, mi fermai davanti a un bar dall’aspetto invitante. Lo gestivano tre donne tra i trenta e quaranta; una coi capelli rossi, l’altra coi capelli neri, l’ultima con la criniera color iuta. Erano mezzo svestite, abbastanza sudate, con una foresta di peli sotto le ascelle. Mangiai un tramezzino con formaggio e prosciutto triste e asciutto come un condannato a morte. Sapeva di cuoio stagionato, ma non dissi niente. Tenni sempre un occhio al quotidiano e uno alla macchina parcheggiata lì davanti.
   “Per un buon caffè con tre gocce di grappa pago il supplemento” dissi a quella coi capelli neri.
   “Il nostro caffè è buonissimo e costa solo un euro. La grappa gliela offro io” rispose convinta. Non era vero che il caffè fosse buonissimo, ma lasciai perdere.
   Saltai in macchina, la giornata era bella e calda, per i venti minuti di guida scelsi il meglio di Albéniz, Granados, De Falla. Guidai accarezzato dalla musica, dal lontano e variopinto paesaggio collinare pensando alle bellezze della vita.
   Alle dieci precise pigiai il campanello del committente. Mi aprì la signora della prima volta. Aveva cambiato pettinatura, sostituendo quella a cavolfiore con una simile a una pianta di cicoria. Mi fece entrare col sorriso seriale precedendomi verso il capo. Vestiva un abitino a disegni bianchi e neri, una collanina di perle attorno al collo, nessun anello al dito. Funzionava, al minimo, l’aria condizionata, non c’era sottofondo musicale, accarezzava l’olfatto un leggerissimo aroma di fiori a cui non riuscii a dare un  nome.   
   Non vidi l’extracomunitario col tatuaggio ma due giovani e una ragazza. Il primo aveva gli occhi incollati a un microscopio, il secondo dialogava col computer, la ragazza studiava dei manoscritti con una lente grande come un disco volante.
   “Viene subito” alitò la signora mentre lui compariva tirato a lucido come un divo atteso dalle telecamere. Mi strinse la mano regalandomi un sorriso deformato dal tic.
   Il percorso fu quello della prima volta, tra meraviglie che non ebbi il tempo gustare. Il tondo con le tre lepri non s’era mosso di un millimetro. Ci isolammo nel suo studio, s’abbandonò nella poltrona di comando, mi mostrò la poltroncina per chi è comandato. Posai la ventiquattrore sul grande tavolo, gli mostrai i due raccoglitori dicendo:
   “Ho preparato due proposte, due soluzioni diverse, due diversi prezzi”. Gli avvicinai le due cartelle delicatamente. Sulle copertine eleganti etichette fatte col computer dicevano: Proposta Numero 1, Proposta Numero 2. Cominciò con la prima scrutando le carte come un poliziotto scruta il presunto colpevole. Fece brevi pause sulle foto, le illustrazioni, guardò le centraline, i sensori, le piante di sale, saloni e corridoi. Lesse le descrizioni, i prezzi, le condizioni di pagamento. Annuì con piccoli cenni del capo, inarcò più volte le sopracciglia, dimostrò un’aria soddisfatta.
   “Perimetrale via radio, niente buchi nei muri, sensori fissati alle porte, centraline grandi quanto un libro e facili da usare. Il manuale delle istruzioni è allegato alla fine. Tecnologia di ultima generazione” spiegai in modo sintetico e professionale. Lesse i costi senza obiettare.
   “Complimenti; un lavoro da vero professionista. Lo ha fatto tutto lei?”
   “Dalla prima all’ultima busta. Due proposte che saranno entrambe bocciate. Lei lo sapeva, ma mi ha fornito il modo per entrare, girare, fotografare.” Mi ascoltò fissandomi mentre con la sinistra si lisciava la punta del naso.
   “È vero, ma solo in parte. La sua offerta sarà conservata per il futuro. Spero che sia servito” rispose sincero. “Come sa che queste proposte saranno respinte?”
   “Me lo ha fatto intendere un signore molto raffinato che tiene sulla scrivania  i biglietti del dottor Fletcher Hughes, the book of memory, Italy Germany England. Dalla valigetta presi una cartelletta, l’aprii mostrandogli due ingrandimenti fotografici del soggetto. Che le foto gli piacquero glielo lessi in volto.
   “Cosa le dice che non siano la stessa persona?”
   “Le differenze che ci sono tra un italiano e un inglese, tra Verdi e Britten, o tra Manzoni e Joyce.” Trovò la cosa divertente. Chiuse i due raccoglitori, la cartelletta e li spinse dalla mia parte proponendo:
   “Miglioriamo la vita col calice giusto. Gradisce?” Confermai col capo. Pigiò l’interfono, parlò con la signora, chiese le marche migliori.
   “Non mi deluda con le sue bevande gassate e il caffè con tre lacrime di grappa” consigliò sorridendo.
   “Ognuno di noi è figlio del proprio retaggio” dissi e non aggiunsi altro. Lui trovava il meglio di sé nel fondo del bicchiere, io nei sogni da realizzare. Per lui solo  champagne, per me aranciata amara e caffè corretto.
   Un attimo dopo sentimmo due bussatine leggere, lui disse “avanti”, entrò la signora col sorriso prestampato dietro al solito carrello. C’erano tre cristalliere con cioccolatini, biscotti secchi, pasticcini freschi, un secchiello d’argento lavorato a sbalzo, la bottiglia di champagne in acqua e ghiaccio. La signora aprì senza botto, versò in due calici, disse “prego” e frullò via.
   Brindammo alla nostra salute; lui sorseggiò come un canarino fissandomi, respirò poi mi chiese come procedevo.
   “Bene. Per ora sondo, capto, vaglio.”
   “Un po’ poco… mi pare.”
   “È presto, l’ambiente è immenso, la sorveglianza agguerrita. Sono anche pedinato senza tregua.” Si tamponò le labbra col tovagliolo.
   “Quelli sono gli eterni secondi. Non saranno mai primi.” Scartò un piccolo cioccolatino al liquore, lo succhiò come se baciasse Venere poi, a bocca vuota, mi chiese notizie delle signore che avevo consolato.
   “Sanno tutte le stesse cose; cioè niente. Ripetono che qualcuno cerca ciò che non si è mai trovato.”
   “Ma lei la valigia la troverà, vero?”
   “Gliel’ho promesso. Lei sa che ho sempre mantenuto.” Seguì una pausa d’imbarazzante silenzio. Eravamo in piedi coi calici in mano, il caricatore degli argomenti vuoto. Si scusò per la mancanza del sottofondo musicale.
   “Rimedierò la prossima volta.”
   “Mi serve un anticipo di venticinque mila euro” sparai deciso. “Naturalmente da detrarre dalla cifra finale.” Posò il calice sul carrello e, senza guardarmi, azzardò:
   “Subito e in contanti, immagino.”
   “Subito e in contanti andrebbe benissimo. Le missioni costano e questa più delle altre.” Rimase un attimo immobile e pensieroso poi mi pregò di servirmi e di accomodarmi indicandomi la poltroncina.
   “Pazienti dieci minuti” disse e uscì. Versai un centimetro di nettare, mi accomodai e, sorseggiando, alzai lo sguardo scrutando le diavolerie elettroniche che mi riprendevano. Tra i tanti documenti antichi che pretendevano di essere ammirati uno lo pretendeva con maggior forza. Mi alzai avvicinandomi il più possibile: era grande quanto un quotidiano aperto, lo proteggeva una teca di vetro, stava inclinato di 45 gradi sorretto da una colonnina di alabastro. Era scritto in latino, molte parole abbreviate, nella parte bassa pendevano 27 sigilli in cera rossa, a navetta, legati alla base da nastri di seta gialla. I sigilli erano finemente lavorati con figure al centro e strane scritte lungo il perimetro interno. Non capivo niente, ma sentivo che quel foglio, quelle parole e quei sigilli decretarono il destino di molti uomini.
   “Le piace?” sussurrò arrivandomi dietro senza che me ne accorgessi. “Ha 1200 anni, lingua latina, scrittura minuscola carolina, inchiostro di nerofumo e gomma, penna d’oca.”
   “Quale ala dell’oca?” chiesi per simulare l’imbarazzo di essere stato preso in castagna.
   “Ala destra; tranne che per i copisti mancini. La penna dell’ala sinistra solleticherebbe il mento dello scrivano.” Lasciai che aprisse la valvola del suo sapere; lo avevo capito e lo lasciai dire. Ne prese una sulla scrivania, la tenne sulla punta delle dita e, mostrandomela come fosse un cimelio disse:
   “Diderot ne parla nella sua Encyclopédie, la Banca d’Inghilterra arrivò a usare un milione e mezzo di penne all’anno, la domanda del mercato fece nascere industrie specializzate”.
   “Interessante. Continui, la prego” gli chiesi curioso.
   “Deve sapere che l’asta della piuma è coperta di grasso e l’inchiostro non aderisce. Per ovviare all’inconveniente le penne venivano sgrassate e stagionate nella cenere o nella sabbia. Il taglio era operazione da specialisti.” Dopo questo sfoggio tornò al documento dedicandomi alcuni minuti di spiegazione: la prima riga grande, il testo piccolo, la pena di morte per i falsari che già esistevano, le abbreviazioni svolazzanti verso l’alto.
   “Per quelle esistono appositi dizionari” concluse. “Ecco i 25 mila euro di acconto. Ne faccia buon uso.”
   “Ci può giurare.” Mi versò ancora un centimetro di champagne e disse:
   “Quel signore che lei non ritiene inglese l’aspetta in villa oggi pomeriggio alle quattro”.
   “Sarò là alle quattro” confermai intascando la grana. Un trillo molto dolce lo avvisò dalla scrivania. Andò a rispondere.
   “Lo tenga in linea e, per favore, accompagni l’ospite.” Mise in attesa la chiamata, mi strinse la mano.
   “Mi scusi, ho un impegno inderogabile. Complimenti per le due proposte. Ah… anche per le foto. Attendo presto buone notizie.” Confermai con un cenno del capo, afferrai la valigetta e seguii la signora. Il ritorno verso l’uscita fu il replay dell’andata: stesse meraviglie, stessi giovani al lavoro. Davanti alla porta le chiesi notizie del giovane visto la prima volta. Allargò le braccia, stropicciò le labbra, come dire non lo so e se lo sapessi non te lo direi.
   Prima di mettere in moto la BMW feci ripartire la musica spagnola, puntai verso la mia banca, versai quindicimila euro poi feci tappa da Plimpo. Avevo la pancia talmente lunga che avrei mangiato un salame, budello compreso. Anche senza i suoi sorrisi.
   Sedati i morsi della fame passai da casa, misi cinquemila euro dietro la blindata, presi la chiave duplicata, la piccola fotocamera digitale e alcuni ferretti del mestiere. Gli ultimi cinquemila euro me li nascosi addosso per l’imprevisto.


   Arrivai in villa alle 15 e 30. La mezz’ora di anticipo era parte del piano. La biondona mi salutò con un sorriso lungo quanto un racconto.
   “Devo vedere questo signore” dissi mostrandole il biglietto da visita in inglese. “È  per la messa in sicurezza della villa. L’appuntamento me lo ha fissato il dottor Magistrali. Puoi controllare.” Aprii la valigetta, le mostrai il contenuto.
   “Il dottore è in ritardo, ha telefonato poco fa, dovrai aspettare.” Mi lasciò in piedi, tra l’ufficio coi computerizzati e la porta a vetri. Passarono due uomini panciuti col telefonino incollato all’orecchio e un uomo delle pulizie. Una bella fanciulla in jeans e t-shirt fumava fuori, oltre i vetri nel triangolo d’ombra. Fissava il fossato, l’acqua verde come il pesto alla genovese. Vistola isolata nella sua bolla di solitudine sperai che non intendesse suicidarsi. Il mondo che la circondava non le interessava.
   Appena la biondona si allontanò, salutandomi con un cenno della mano, infilai il corridoio, arrivai davanti al saloncino delle proiezioni, spinsi la porta. Era chiusa. Posai la testa per terra, non vidi luce, bussai delicatamente due volte. Silenzio di tomba. Dal calzino presi la chiave fatta dall’amico di Alfio, la infilai e aprii. Era perfetta. Non ero ancora dentro che mi avevo già chiuso la porta alle spalle, allargai le tende, accesi la luce, spinsi un vecchio tappeto alla base della porta per chiudere il centimetro di spazio e il segmento di luce. Recitai la vecchia regola: quando cerchi qualcosa pensa come colui che l’ha nascosta.
   Passai l’indice sui mobili; niente polvere. Chi spolverava lo faceva la mattina. Un mobile basso stava di fronte al proiettore, lo stipo del 1700, pezzo di bellezza esagerata, s’imponeva di fronte all’ingresso, vicino alla finestra. Nessun cassetto ubbidì ai miei strappi. Ritenni inutile cercare le chiavi che qualche volta vengono nascoste vicino agli stessi mobili. Chi le aveva le teneva distanti dal bottino. Ammesso che bottino ci fosse.
   Ricorsi ai ferri del mestiere che tenevo nascosti nell’altro calzino. Aprii tutti i cassetti del primo mobile dove trovai caricatori di vecchie diapositive, dischetti per videoproiezioni, riviste in lingua inglese, francese e tedesca, cartelle di fotografie in formato 20 x 30 con ragazzi e ragazze belli come statue.
   Il tempo correva. Ad attirarmi c’era sempre lo stipo del 1700; i suoi colori rosso, nero e oro, il luccichio che emanava. Lo sorreggevano quattro negretti ammantati da un panneggio ligneo color giallo oro, i cassetti erano quindici su cui spiccavano altrettante lastrine dipinte con scene campestri. Tre colonnine nere a torciglioni formavano, nel centro, due tabernacoli. In alto il quindicesimo cassetto chiudeva il penultimo spazio. Infatti sopra, vicino al soffitto, una balaustra e tre statuine lo completavano. Sul legno, di un colore rosso molto acceso, spiccavano le decorazioni in rame finemente dorato e traforato.
      Cominciai ad aprire i cassetti più bassi quando qualcuno si fermò a parlare all’esterno, davanti alla porta che il mio piano previde chiusa ma non a chiave. Pizzicato all’interno a porta aperta me la potevo cavare; a porta chiusa sarei stato un ladro e addio missione. Velocemente mi guardai attorno, spensi la luce, rimisi a posto il tappeto, afferrai la valigetta. Se quelli fossero entrati mi poteva salvare solo il tavolo col proiettore grazie alla tovaglia verde che scendeva quasi fino a terra. M’infilai sotto, riuscii ad aggrapparmi al ripiano di legno, sentii spingere la porta, il pavimento illuminato mi disse che avevano acceso la luce.
   “Tu sai perché è aperta?” chiese uno con voce baritonale.
   “Io so che dev’essere chiusa” rispose l’altro. Si mossero come i cani che cercano tartufi.
   “È tutto in ordine” confermò il vocione che prima di uscire sollevò la tovaglia di almeno mezzo metro, ci guardò sotto. Vidi le loro ombre sul pavimento, sentii piedi confusi ruotare su se stessi, la luce si spense, i passi si allontanarono.
   Fui tentato di desistere, ma il richiamo dello stipo fu più forte. Spinsi ancora il tappeto contro la porta, accesi la luce, interrogai il mobile. Quindici cassetti con altrettante serrature; ma quante chiavi? Quando cerchi qualcosa pensa come colui che l’ha nascosta, mi bisbigliai per la seconda volta.
   Con gli appositi ferretti cominciai ad aprire i più bassi, in sequenza. Trovai cataloghi di aste di manoscritti antichi, quaderni scritti a mano con la stilografica quindi troppo recenti, fotocopie di quadri e statue a cui non dedicai più di un secondo. Due erano vuoti. Continuai con altri pieni di attestati militari, registri, stemmi di famiglie nobiliari, vecchie foto e disegni che mi parvero di restauri. Il tempo galoppava e io non riuscivo a stargli dietro.
   Mi sono sempre ritenuto persona di molti difetti e pochi pregi. Naturalmente non l’ho mai dato a vedere, anzi… Spesso ho bleffato ostentando doti mai possedute. Forse recitavo bene. Di una dote, senza meriti, vado fiero: il fiuto per il bottino. Da cosa lo deduco? Dai brividi che mi scuotono; come in questo caso davanti al cassetto più alto, l’ultimo prima del soffitto. Avvicinai tre poltroncine, le incastrai una sull’altra, ci montai sopra, infilai i ferretti. Il cassetto seguì docile i miei movimenti come un filamento sonoro segue l’archetto del violino. Sussultai. Bisbigliai una sola parola: tombola. Aprii la custodia in pelle rossa, c’erano nove fogli molto antichi più grandi di un A4. Le sfogliai avidamente circuitando sui ghirigori di quell’inchiostro che i secoli avevano addolcito. Le frasi mi risultarono incomprensibili, notai schizzi apparentemente senza senso, il nastro di Moebius e altre stranezze. Li misi in luce e li fotografai in pochi minuti. Controllai la qualità delle immagini nel display. Stavo mettendo a posto, quando…
   “Bravo. Hai finito?” Il sangue mi si coagulò nelle vene, m’imposi di rallentare il cuore con troppa fretta di battere, feci un respiro profondo. Maledii me stesso; oggi era la seconda volta che qualcuno mi arrivava dietro senza che me ne accorgessi. Conoscevo quella voce, decisi di non voltarmi per recuperare la calma perduta. Tirai un altro profondo respiro. La tensione, da quando ero entrato, mi aveva inzuppato di sudore. Mi voltai lentamente… la biondona dalla grande bocca stava con la schiena contro la porta,  braccia a manubrio sulle grosse tette, gambe divaricate, sguardo fulminante.
   “Era aperto e sono entrato. Il lavoro che devo svolgere mi autorizza anche a questo.” Mi fissò con la diffidenza riservata ai passaggi a livello incustoditi, avanzò minacciosa.
   “Non rispondo a scuse tanto meschine. Era chiusa e sei entrato forzando la porta o con una doppia chiave. Hai aperto tutti i cassetti chiusi a chiave e fotografato ciò che non dovevi. Ho capito che eri un tipo pericoloso appena ti ho visto” ringhiò con voce dura e tagliente. Optai per un’altra breve pausa rilassante sistemando le mie cose come chi deve andare.
   “Se riferisco a chi so io avrai guai talmente grossi che non riusciresti manco a immaginarli” disse minacciosa. Decisi di cambiare tattica.
   “La guerra non servirebbe a nessuno; un’alleanza sarebbe utile a tutti e due. Rammenta che sono appoggiato dal dottore. E quello non scherza.”
   “Neanche gli altri scherzano. Prima dimmi chi sei, cosa cerchi e cosa hai fotografato” sibilò.
   “Chi sono lo sai, cosa cerco non lo so manco io, quello che ho fotografato sono fogli senza senso.”
   “Questa storiella falla bere a tua sorella.”
   “Non ho sorelle. Ora guarda” aprii la custodia rossa, allargai i fogli mantenendoli in ordine “cosa significano queste frasi? E queste sigle LB – AB – R9. Cosa significa il simbolo dell’infinito detto anche nastro di Moebius? Un indovinello, ecco cosa ho fotografato. Io non ci capisco niente, vuoi provarci tu?” Mi asciugai il sudore con la manica del giubbino, rimisi come li avevo trovati nel cassetto e chiusi. Col fazzoletto cancellai tutte le impronte.
   Dovevo risolvere il problema subito; passi e voci transitavano davanti alla porta.
   “Ti faccio il favore per diecimila euro” propose l’avida corruttibile.
   “Te ne offro tremila.”
   “Mi credi una morta di fame? Sai cosa rischio? Scendo a ottomila e non mi muovo” precisò più incaponita che mai. Dalla tasca interna del giubbino tolsi la mazzetta di cinquemila euro.
   “Sono cinquemila, subito e in contanti. Per il tuo silenzio e la risposta al quesito. Prendere o lasciare. Rammenta che sono appoggiato dal dottor Magistrali.” Feci una breve pausa sventolandoglieli davanti al naso. “Colui che mi manda qua dentro non è voce da eco, ma urlando può muovere le montagne. E tu lo sai.” Rapidissima cercò di carpirmi le banconote. Fui più svelto io a ritrarle.
   “Credo nella tua parola, per questo la voglio. Tu non mi hai visto, chiaro?” pretesi con decisione.
   “Ti ho visto eccome… ma per la solita perquisizione.” Prese la mazzetta di banconote, la sfogliò come un libro senza contarle, l’infilò sotto le tette. Aveva lo stesso odore caldo e sudato delle puttane stagionate.
   “Dimmi il significato delle sigle.”
   “LB sta per libreria del barone e la chiave la tiene uno dei capi. AB sta per armadio grande sempre della medesima biblioteca. R9 equivale al ripiano numero nove. Il resto non lo ha mai capito nessuno.”
   “Dimmi della biblioteca” la incalzai.
   “Lasciala perdere, lì non ci entra quasi nessuno. Ce n’è un’altra di forma circolare, è più trafficata ma solo dagli autorizzati. È segnata sulle carte. Ora ti faccio uscire, vai a consegnare le tue scartoffie e fili via.” Aprì le tende, rimise a posto il tappeto spazzolò con lo sguardo l’intero ambiente dicendo:
   “Due persone sono entrate qua dentro senza vederti. Eppure non sei l’uomo invisibile. Come mai?”
   “Ero sotto il tavolo.” Lo guardò, alzò la tovaglia verde continuando:
   “Quelli guardano dovunque. Se eri lì sotto ora potresti essere sottoterra.”
   “Stavo appeso sotto il ripiano attaccato ai quattro angoli con la valigetta sulla pancia.” Mi guardò come si guarda un equilibrista del circo, scosse la testa sventolando la chioma, andò a socchiudere la porta. Finse di uscire e al momento giusto mi chiamò fuori bisbigliando:
   “Non passare davanti all’ingresso. Sono certa che conosci l’altra strada meglio di me”. Era vero.


   Trovai l’uomo color senape in mezzo alla porta, elegante come un top manager in riunione, il telefonino incollato all’orecchio, in mano un volumetto che mi parve il catalogo di una mostra. Non capii se stava per entrare o per uscire. Mi tenni a qualche metro di distanza, lo seguii quando chiuse l’apparecchio e, con un cenno della mano, m’invitò a seguirlo. Entrai dove tutto era come la prima volta tranne un vaso di strelitzie belle come uccelli tropicali pronti al decollo. Il vaso stava su un tavolino davanti alla finestra, un elegante biglietto, chiuso in una busta di plastica augurava qualcosa a qualcuno. Mi ricordai che anche Ellen teneva in casa quei fiori.
   Su una pila di carte i soliti quotidiani, sull’altra posò il libretto al contrario nascondendomi il titolo. Mi salutò con la cortesia riservata ai rappresentati di commercio che prima finiscono meglio è. Posai la valigetta sulla scrivania, l’aprii mostrandogli due foto formato 20 x 30 che gli avevo scattato al primo incontro. Le guardò rimirandole e rimirandosi. I lievi ritocchi operati al computer avevano migliorato il suo aspetto e accesero la sua vanità. Mossi un paio di volte la valigetta, tenni alto il coperchio, lessi il titolo che mi aveva nascosto: Catalogo 90, Manoscritti Incunaboli Illustrati dal 1500 al 1800. Era uno del clan.
   “Complimenti, sono degne di un professionista” disse mentre gli porgevo la cartelletta di cartone per riporle. Lo ringraziai.
   “Quanto le devo?” chiese dirigendo la mano verso il portafoglio.
   “Sapere che le piacciono è il miglior pagamento che possa ricevere. Siamo a posto.” Gli misi davanti il primo raccoglitore, lo aprì alla prima pagina, lasciai che ci nuotasse dentro. Le sue manine erano talmente lisce che non avevano sollevato niente di più pesante del dentifricio. Lo scorse fingendosi interessato. Arrivò alla fine, lo chiuse, lo spinse di lato. La seconda proposta fu guardata come la prima.
   “Posso descriverle le due offerte?” chiesi.
   “Deve. Nel modo più chiaro e sintetico possibile.” Gli spiegai che la “Perimetrale via Radio” prevedeva sensori sulle porte. I muri, sacri nella loro arte, non sarebbero stati toccati. Alla spiegazione feci seguire le immagini, curvo sulle illustrazioni dei vari componenti. Mi parve interessato come una statua che fissa il nulla. Parlare con lui era come succhiare un chiodo arrugginito.
   Le sue antenne si accesero quando gli spiegai che la sua casa poteva essere avvolta da una coltre invisibile, che l’avrebbe difesa dai ladri senza buchi nei muri.
   “Le sue proposte m’intrigano. Non tanto per questa villa, ma per la mia. Sempre disponibile per settembre?” mi chiese lisciandosi le sopracciglia. Confermai la mia disponibilità per fine settembre. Arrivò alla fine, confrontò i prezzi. Volli precederlo:
   “Se loro saranno interessati tratteremo lo sconto, la forma di pagamento, inizio e fine lavori. Le proposte la soddisfano?” gli chiesi conferma di quanto leggevo sul suo volto. Annuì col capo, sorrise soddisfatto, mi parve sincero. Il suo interesse non era per la villa in cui lavorava, ma per quella in cui abitava.
   “Ne parlerò col dottor Magistrali e le faremo sapere. Intanto grazie e complimenti per le foto.” Fingemmo di credere entrambi in un lavoro in cui non credeva nessuno. Gli lasciai la cartella con le foto, i due raccoglitori, chiusi la mia valigetta, si degnò di accompagnarmi alla porta. Ci salutammo con un arrivederci a settembre.
   Ritornai sul piano nobile, la più bella galleria d’arte che si possa immaginare, tolsi la scheda dalla fotocamera, la nascosi nel risvolto della manica anche se, uscendo, non rischiavo perquisizione.
   All’ingresso rividi la biondona che mi aveva alleggerito di cinquemila euro. Tenne la bocca chiusa, rimase immobile, mi lanciò uno sguardo che valeva quanto un discorso. La ricambiai con un sorrisetto malizioso, appena accennato. Tirai la portavetri e uscii nel profumo della clorofilla e nella luce del sole ancora caldissima.
   L’entusiasmo premeva sull’acceleratore; arrivai a casa a grande velocità, infilai la scheda della fotocamera nel computer e cominciai a studiare le immagini. Le ingrandii a tutto video, rifilai i bordi, le elaborai qual poco sufficiente a migliorarle. Le duplicai passandole nel dischetto. Provai a interpretarle una per una, leggendo le frasi, studiando i grafici, cercando di darmi qualche risposta. Una me la diedi subito: imbecille! Forse hai buttato via cinquemila euro.
   Per la prima volta nella mia vita sentii quanto male faceva sbattere la testa contro il muro. Quando guardai l’orologio erano le dieci di sera: quasi quattro ore erano volate per niente. Quale mente contorta aveva concepito un simile rebus? Fui tentato di stramaledirlo. Se il tesoro stava ancora là, qualche motivo doveva pur esserci. Mi sentii distrutto nel corpo e nello spirito. Ogni giorno che passava aumentava i miei dubbi, minava la mia sicurezza. Mi era scappato anche l’appetito e non volli rincorrerlo.
   Le stampai in formato A4 ma rifiutandomi di riguardarle, chiusi tutto dietro la porta blindata. Feci partire una selezione dei cori verdiani a basso volume, mi distesi sul tappeto, m’imposi due ore di ginnastica. L’amico Verdi mi avrebbe ridato la carica.
  

   L’indomani mattina alle nove ero davanti al negozio del caro e simpatico Pier col dischetto delle foto e quelle stampate a casa in formato A4.
   “Guai in vista di prima mattina” attaccò tanto per sfottermi. Entrai, lo spinsi nel laboratorio, lasciando il commesso in negozio.
   “Mi servono degli ingrandimenti. A quanto arrivi con la tua ferraglia?”
   “Al massimo 50 x 75, formato da mostre importanti. Peccato che la tua qualità sia da mostro e non da mostre.” Sfogliò attentamente le nove immagini poi aggiunse: “Meglio il formato A3, centimetri 29,5 x 42. Se sei d’accordo comincio, ma col dischetto.”
   “Bene; mettiti al lavoro. Due copie per immagine, totale diciotto ingrandimenti.” Gli passai il dischetto e la scheda; guardò prima l’uno poi l’altra. Le studiò qualche minuto con l’occhio del professionista e, senza scollare lo sguardo dal video borbottò:
   “La qualità è da dilettante, anche se…”
   “Anche se, cosa?” pretesi la fine della frase. Si alzò preparò la stampante aggiungendo:
   “Un simile soggetto richiede l’attrezzatura giusta: il cavalletto, le luci ai lati, una macchina con pellicola 6 x 6. Soprattutto una testa migliore della tua.” Mi chiese se avevo fatto colazione.
   “Non ancora.”
   “Il bar lo conosci. Preferisco lavorare in solitudine.”
   “Nient’affatto. Ci andremo assieme alla fine. Resto qui a curarti, non voglio che te ne faccia una copia.” Sorrise.
   “Sei peggio di uno della CIA. Ho capito che questi fogli scottano.”
   “Balle” risposi deciso “sono freddi come un amore andato a male.” Si permise qualche piccolo ritocco perché lui era un genio della fotografia, poi ne stampò diciotto copie; nove per me, nove per l’amico Alfio. Quando ebbe finito si diede altre arie esaminando il lavoro con una lente d’ingrandimento grande quanto un piatto di lenticchie.
   “Puoi dirmi di cosa si tratta?”
   “Una specie di caccia al tesoro.”
   “La caccia sarà lunga e il tesoro molto lontano. Auguri.” Aveva ragione ma non glielo dissi. Prese due tubi di cartone ma rifiutai.
   “Meglio due cartelle; devono restare belle diritte.” Fui accontentato. Poi prese il listino, mi mostrò i prezzi, moltiplicò per diciotto.
   “Sono 216 euro, me ne dai 200 e paghi la colazione.” Cominciai col pagare il debito; informò il commesso dell’uscita, chiusi le foto nel baule e c’infilammo nel bar. Io presi il solito caffè e, scoraggiato dallo squallido assortimento di pasticceria, nient’altro. Pier optò per un cappuccio con più schiuma di un estintore, e un cornetto più scuro e unto del colletto di un meccanico a fine settimana.
   Quando fummo in strada gli chiesi notizie della moglie, condivisi il suo dispiacere, gli feci coraggio con la solita mano sulla spalla.
   “Senti, Pier, sei capace di dimenticare quelle nove immagini?”
   “Sarò muto come un pesce morto.”
   “Grazie, ne sono convinto. Ne hai anche la faccia.”
   “Vaffanculo” m’invitò chiudendomi la portiera.





























14

Prime notizie da Paderborn









   Il giovedì e il venerdì furono due giorni di crisi. Mi sentivo il cervello impanato e pronto per essere fritto, il morale era una borsa dell’immondizia puzzolente. M’imposi due punti precisi: combattere la crisi e non darlo a vedere. Soprattutto con Alfio. Ascoltai musica, andai a correre nei dintorni della villa, passai alcune ore in palestra e altre davanti alle foto. Il primo messaggio di Emiliano lo lessi nel computer il venerdì pomeriggio.

                                                        
                                                                                        Paderborn, il 21 luglio
Cari amici,
                 eccomi, finalmente, a voi. Dico finalmente perché i primi giorni ho girato a vuoto come un’ape senza un fiore su cui posarsi. Poi ho avuto fortuna. Visitando il Museo Diocesano e l’Archivio Capitolare ho conosciuto un maturo pastore col quale sono entrato subito in sintonia. Parla bene l’italiano perché ama l’Italia, la nostra cucina, le nostre città che ha visitato, i nostri musei, la nostra lingua. Ometto le altre preferenze per non farla troppo lunga. Ha preteso che parlassi italiano e l’ho accontentato.
   Mi sono presentato per quello che sono mostrandogli scartoffie universitarie che, più che porte, mi hanno aperto la sua curiosità. Gli ho detto del mio nuovo amore per le antiche carte e credo di essergli piaciuto. L’uomo è informatissimo, conosce la storia locale come pochi, e altre discipline. Ammette la propria ignoranza in molti altri universi del sapere ma è un modesto. Si presta a fare la guida nelle chiese e nei musei per raggranellare mance.
   Dopo una giornata in sua compagnia, e sapendomi solo, mi ha chiesto di accompagnarlo a casa regalandomi il suo tempo e il suo sapere con una spontaneità commovente. Facendomi entrare ha detto: “Non si spaventi; tra questi muri ci vivo da talmente tanto tempo da essere impregnato dello stesso odore: un misto di foglie secche, muffa, cera, fiori appassiti, incenso. Annusi…li sente?” Risposi che li sentivo anche se l’odore di muffa soffocava gli altri.
   Finita la visita alle sue vecchie camere (erano sei più i servizi) mi ha aperto la biblioteca del suo cervello e il nascondiglio delle sue bottiglie: birra giovane e vini antichi (parecchi italiani). Ha stappato una bottiglia di Rosso di Montalcino degli anni Ottanta e preteso che bevesi in sua compagnia. Veramente commovente. Credo che combatta la sua battaglia contro la solitudine onorando Bacco e bagnandosi il becco. Di nascosto. Il giorno dopo gli ho regalato tre bottiglie di lusso: il meglio dell’Oltrepò Pavese, e una busta con cento euro. Era commosso.
   Ecco cosa mi ha detto a proposito del tondo coi leprotti. Più che le lepri è importante il numero:TRE, numero perfetto. Esso indica la perfezione delle realtà celesti, la Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo,  le virtù teologali: fede, speranza e carità. Seguono alcuni riferimenti alla natura: acqua, aria, terra, solido, fluido, gassoso, minerali, vegetali, animali. Le piante hanno radici, stelo, corolla. Il frutto ha buccia, polpa, nocciolo. Abbiamo mattina, mezzogiorno, sera. Le coordinate spaziali sono: altezza, lunghezza, profondità. La nostra vita è composta di: nascita, vita, morte. I colori fondamentali sono: giallo, rosso, blu, grazie ai quali si ha l’intera gamma. L’elenco sarebbe ancora lungo ma ve lo risparmio.
   Aggiungo un breve componimento poetico che il sacerdote mi ha raccontato per mostrarmi quanto bene conosce anche  la lingua inglese. Eccovelo:
   Nel XVI secolo un poeta francese di nome Du Bartas, ha raccontato il segreto del TRE nel suo componimento “Semine”, anno 1587. Un inglese di nome Joshua Sylverter lo ha tradotto nella propria lingua. Ve lo scrivo in quella originale:

The eldest of odds,  God’s Number properly…
Heaven’s dearest number, whose inclosed center
Doth equally from both extremes extend,
The firs that hath a beginning, midst, and end.

Traduzione:

Il più vecchio dei numeri dispari, per l’esattezza il numero di Dio…
Il numero più caro al paradiso, il cui centro racchiuso
Si estende egualmente dai due estremi,
Il primo che ha un inizio, un mezzo e una fine.


   Ora voltiamo pagina e partiamo dal fiammifero che ha acceso la miccia: il tondo con le tre lepri. Cercherò di essere breve, chiaro e sintetico per evitare la tirata di un racconto.
   Lepre in tedesco si dice der Hase, e nella cattedrale, sul lato Nord, c’è il famoso “Hasenfenster” ovvero il rilievo dei tre animaletti che si rincorrono chiusi nel cerchio. Stanno nel cuspide di una grande polifora.
   Paderborn fu la città prediletta da Carlo Magno che nel 777 vi tenne le sue prime diete. In questa linda cittadina papa Leone III e Carlo Magno suggellarono l’alleanza tra il nascente Sacro Romano Impero e la Chiesa.
   Attenzione: ora viene il bello, che giustifica il mio viaggio e le vostre spese.    Le tre lepri, anticamente, furono il distinitivo di una società segreta tipo la massoneria. I soci fondatori furono tre e gli animali che si rincorrono simboleggiano il dinamismo con cui s’intese cacciare gli antichi manoscritti.  “Possiedi il sapere e possiederai il mondo” fu il loro primo motto.
   Grazie a loro, e ai selezionatissimi affiliati, iniziò la caccia ai manoscritti antichi e all’editoria d’arte. L’editore, come lo intendiamo oggi, non esisteva, ma i copisti sì. E furono tra i migliori. Il mondo della carta, nelle loro mani, creò un team di veri artisti: calligrafi, grafologi, amanuensi, incisori, miniaturisti, legatori. Si fecero la carta, gli inchiostri e le penne d’oca puntando sempre al massimo della qualità. Eccelsero in tutto quell’universo di carta che possiamo ammirare in certi musei e rare collezioni private. Il sapere trasferito sulla carta e, in parte, esportato dovunque.
   Esempio: il primo libro stampato fu La Bibbia di Gutenberg nel 1450, che possiamo ammirare nel Museo Gutenberg di  Magonza. Sopra tutto e tutti vigilava la società segreta, quella dei tre leprotti. A un certo punto della nostra storia arrivò in questa città molto materiale, preziosissimo, proveniente da quello che oggi è chiamato L’Archivio Segreto del Vaticano.
   Ma procediamo con ordine. Roma, 6 maggio 1527. S’accende quell’orribile pagina nota come “Il Sacco di Roma” da parte dei Lanzichenecchi. Continuo a sintetizzare per non farla troppo lunga. Morto il Frundsberg, morto Carlo di Borbone, ferito il comandante Philibert d’Orange la soldataglia si abbandonò a ogni sorta di nefandezze. San Pietro e il Vaticano furono le casseforti in cui si tuffarono rubando e distruggendo come furie. La soldataglia odiava papi e cardinali considerandoli ladroni arricchitisi dopo aver rubato nei loro Paesi e in molti altri. Tutto vero, tutto noto. Storia con la esse maiuscola.
   Attenzione: tra quei barbari sanguinari, sacrileghi e fedifraghi operava un capetto colto e raffinato che rubò diciotto bauli di manoscritti. (Secondo altri i bauli rubati furono ventotto, altri ancora sostengono quaranta e più). Lo chiamavano Fuchsschwanz (Coda di Volpe) e non sappiamo se fosse il nome, il cognome o il soprannome ma poco importa. Accontentiamoci di diciotto bauli, due carri. I bauli con cui i papi si portavano appresso i documenti (chiamati scrinia viatoria) erano di ferro, il coperchio arrotondato, con attorno strisce di metallo come legacci e chiusi con enormi lucchetti.
   Altra curiosità: in Vaticano molte carte preziose furono salvate perché murate nelle pareti o in segreti corridoi. Pratica abituale in quei tormentati secoli.
   Perché quell’esperto rubò tanti manoscritti scegliendo il meglio? La voce più accreditata è che lo fece per Lutero alla ricerca di prove contro la Chiesa. Le altre voci, pur ammettendo le pretese di Lutero, sostengono che lo fece per i ricchissimi nobili disposti a comprare tutto quanto arrivava da Roma. I più interessati a quel tesoro cartaceo furono i signori col distintivo delle tre lepri. Un’altra teoria sostiene che l’intera operazione fu gestita proprio da loro. Conclusione del capitolo: Coda Di Volpe arraffò le carte per  se stesso? Per Lutero? Per i nobili e i leprotti del posto o per altri ignoti motivi? Non lo sappiamo e, forse, non lo sapremo mai. Sappiamo però che buona parte di quel tesoro finì nella città tedesca da cui vi scrivo: Paderborn. E questa è la storia con esse minuscola.
   Non è finita: la mia fonte d’informazioni sostiene che esiste l’elenco dei manoscritti rubati; elenco stilato dagli ecclesiastici di allora. Nelle università confermano. Aggiungo che quelle carte furono tanto eccezionali che musei, nobili e collezionisti del tempo avrebbero pagato qualunque cifra per averle.
   Ora una certezza: una minima parte di quel tesoro fu rubato una notte d’inverno dello stesso anno mentre si procedeva allo studio e catalogazione. Ci furono tre morti. Gli autori del furto non furono mai scoperti e il bottino mai ritrovato. Questa è bella: un solo ladro ci lasciò la pelle ed era italiano. Questa la sintesi dei fatti.
   Alla fine di quello che mi parve il nostro ultimo incontro il religioso mi fissò con un sorrisetto malizioso e disse:
   “Si vede che le carte antiche per lei sono come nuove. Io credo che la sua ricerca vada oltre i tre leprotti. Lei, amico mio, cerca qualcosa che qualcuno, qui a Paderborn, conosce meglio di me”.  Si concesse una pausa pensierosa, mi chiese di bere ancora una volta in sua compagnia. Avevo portato nella sua solitudine un raggio di luce italiana. E ne era felice.
   “L’uomo che cerca qualcosa che non trova alla fine è… vereitelt. Come si dice in italiano?”
   “Frustrato” risposi.
   “Già, frustrato, le due erre rendono benissimo il brutto stato d’animo. Avete una lingua meravigliosa. L’ho imparata per amore di Dante. Lui va letto in italiano.” Era più sveglio di un segnale d’allarme.
   “Se vuole io telefono alla professoressa. È molto preparata ma vuole essere pagata.”
   “La prego di telefonare” risposi senza titubanze.


    Alla periferia della città, lambita dal fiume Pader, c’è un’antica villetta avvolta dal verde, cespugli fioriti, tre cucce per cani ignorate dai cani. L’abita una professoressa di 81 anni, ex insegnante universitaria, col culto della storia: quella con la esse maiuscola e quella con la esse minuscola. Parole sue. La donna della telefonata.
   L’anziana signora è vedova, scrive saggi, è giornalista e la definisco mostro di cultura. Vive tra 50 mila volumi, su quelli si è ingobbita e non è più raddrizzabile. Ha tre carlini che vivono in casa sporcando dovunque, due domestiche rumene che si alternano giorno e notte. Mi hanno fatto un caffè che avrebbe stroncato un coccodrillo. La prof  mi ha concesso un primo colloquio selezionando le notizie che possedevo, confermando il vero, smentendo il falso, aggiungendo ciò che ignoravo.
   Dice che la storia maiuscola la troviamo sui testi. Quella minuscola, fatta di episodi apparentemente poco importanti, è arrivata a noi oralmente. In parte vera, in parte inventata. Basta saperle separare. Mi ha detto:
   “Il furto dei documenti vaticani non va cercato nei libri ma nelle vicende e voci giunte fino a noi. Lei annaspa nel buio, io posso farle luce. Vivo vendendo il mio sapere che è molto, il prezzo molto meno”.
   Il colloquio mi è costato 200 euro, ma ne è valsa la pena. Nessuna fattura, nessun biglietto. Fidatevi. Lei sostiene di poter avere l’elenco dei documenti trafugati in Vaticano. Attenzione, perché non è finita: con quello davanti avanza la pretesa di sapere cosa stiamo cercando. Ecco cosa mi ha detto:
   “Con l’elenco in mano dirò cosa state cercando voi italiani. Anche se non capisco perché cercate qui  quello che è stato rubato e portato in Italia”.  Avete capito? Dice il vero? Dice il falso? Gioca al rialzo? L’ho fatta parlare seguendo i vostri consigli. Dice che serviranno mance per aprire porte chiuse al pubblico. Problema risolvibile in pochi giorni o, al massimo, in una settimana.
   Le ho chiesto la cifra esatta. Ha sbarrato gli occhi, allargato le braccia, abbozzato un sospiro. Mi sono ritirato in buon ordine. Almeno provvisoriamente.
   “Devo sentire la mia università. Loro pagano, loro decidono. Ritornerò a riferire”e con queste parole me la sono cavata. Ho lasciato passare mezza giornata. Davanti al suo campanello mi sono presentato con un mazzo di fiori e una scatola di cioccolatini con l’aria di chi ringrazia e saluta. È stata un’ottima idea. Di questi conservo gli scontrini.
   Un’ultima cosa: la prof è più precisa di un lanzichenecco; tutto e subito. Ovviamente in contanti. Siccome a pagare siete voi, fatemi sapere come devo comportarmi. Fino a che punto posso spingermi?
   Soddisfatto per quanto scoperto, tra le fresche brezze di Paderborn, vi saluto caramente.

                                                                              Emiliano.

PS. Sono certo di essere seguito. I vostri consigli su come capirlo mi sono stati molto utili. Però la teoria è una cosa, la pratica un’altra. Non è un uomo, ma una donna. Non è bella, ma bellissima, come molte cavallone tedesche purosangue. Cosa vuole?Potrei fermarla e chiederglielo. Con la stessa naturalezza con cui s’invita una persona al bar per bere un caffè. Che ne dite?       
   




   Rimasi immobile, a meditare, il tempo di una sigaretta. Ero modestamente soddisfatto. Stampai le tre paginette, ne feci due copie, le cancellai dal computer. Una copia la misi al sicuro dietro la blindata, l’altra la infilai nel giubbino senza maniche e chiamai Alfio:
   “Ci sono novità, ci vediamo?”
   “Finalmente, pensavo male.”
   “Tra venti minuti sono da te.”
   “Smetti di fare il matto e guida con calma. Tra mezz’ora.”
      Attraversai al volo la città e dopo neanche venti minuti ero davanti al suo campanello. Erano le nove di sera di un afoso venerdì che vedeva la città svuotarsi. Dal citofono l’amico m’invitò a salire. Appena dentro mi presentò la moglie Assunta; aveva i capelli neri, gli occhi tristi, sulle labbra un sorrisetto d’occasione. Stava finendo di lavare i piatti della cena, le mani fumavano umidità, gli abiti modesti ma lindi. Si disse dispiaciuta per l’orario. Se avessi telefonato prima avremmo cenato assieme. Soffrii l’imbarazzo delle mani vuote. Mi scusai dispiaciuto.
   “Pensavo di trovarlo giù e sequestrarlo per un paio d’ore. Sono mortificato. Rimedierò la prossima volta. Ora siamo soci in affari.” Senza chiedermelo accese la caffettiera e pensando alla nostra società azzardò:
   “Auguri per la società, anche se mi viene un poco da ridere” disse mesta. “Lei è giovane, lui è patetico”.
   “Restare in attività equivale a restare giovani” aggiunsi con spirito. Entravo in quella casa per la prima volta e mi colpì subito l’ordine e la pulizia. Lei mi parve una di quelle meridionali che non tollerano la ragnatela nell’angolino e il portacenere fuori posto. Sopra la porta d’ingresso stava appeso il crocifisso con un piccolissimo ramoscello d’ulivo secco come il tabacco di un toscano. Al centro della cucina il tavolo, quattro sedie, un portafrutta con tre mele, tre kiwi, due pesche. Di fianco le offerte “sottocosto” del vicino supermercato. Di fronte alla porta che immetteva in cucina un ritratto di Padre Pio; lo sguardo acceso, la mano destra alta, i polpastrelli fuori dal mezzo guanto. Il televisore stava nell’angolo con sopra un pizzetto rotondo e sopra un vasetto di fiori finti. Nel localino galleggiava il profumo del minestrone assieme all’odore di bucato e detersivo.
   M’incuriosirono quattro foto a colori 20 x 30 con la famiglia al completo. Mi avvicinai mentre lei, senza voltarsi, m’informò:
   “Le due prime comunioni e le due cresime dei nostri figlioli. Ora sono grandi. Il primo è ingegnere ed è sempre via. L’altro non lavora e sta sempre a spasso. Purtroppo”. Alfio arrivò pimpante con la grappa. Come poteva, uno come lui, acuto e impulsivo, vivere felice con una moglie buona e rassegnata che stava versandoci il caffè? Mah… misteri della vita, pensai.
   “Siamo silenziosamente felici” mi confidò in uno dei suo rari momenti di debolezza. Benedii il caffè con tre lacrime di grappa, lo sorseggiai assieme all’amico. Lei rimase a guardarci appoggiata al lavello. Al suo fianco spiccava una lavagnetta; elencava le bollette in scadenza: acqua, luce, telefono. Seguivano date e cifre. Le chiesi perché si beveva solo noi due:
   “La caffettiera è per due, io me lo faccio dopo”. Alfio finse di colpirmi con un pugno alla mascella informandola:
   “Questo è il mio nuovo socio in affari. Ti piace?”
   “Pare un bravo guaglione. Peccato che tenga le mani senza anelli” stabilì.
   “Quando si sposerà” intervenne lui alzandosi “inviterà anche noi. Vero?”
   “Verissimo. Consideratevi invitati e testimoni. Voi siete cari amici e io non ho nessun altro.”
   Ringraziai la signora per l’ottimo caffè e uscimmo. Faceva ancora un caldo terribile, le zanzare pungevano senza pietà, sul quartiere gravava la puzza della raffineria. L’amico aprì la cassetta della posta, tolse la bomboletta di spray contro le zanzare, spruzzammo le parti del corpo scoperte. Gli chiesi quanti chilometri aveva in programma e quale direzione.
   “Dove vuoi, fin quando vuoi. Ora, però, veniamo subito al punto.” Cominciammo col messaggio di Emiliano. L’aveva ricevuto pure lui, stampato e cancellato. Meglio se i figli non lo vedevano. Sapevo che aveva portato il primo alla laurea svenandosi, che lavorava in trasferta, lo vedevano raramente ma quand’era a casa si nutriva di cibo e computer. Il secondo, giovincello di speranze perse per strada, li faceva tribolare. Era a spasso, svogliato e introverso, musone e con altri problemi.
   “È un cavallo zoppo” mi confidava Alfio battendosi la fronte. Poi cambiava discorso.
   “L’inizio di Emiliano mi pare buono. Sono deciso a fargli incontrare ancora la prof per i titoli cercati da noi italiani. Che ne dici?” Alfio alzò le spalle. Io pagavo, io decidevo. Per lui restava un buco nell’acqua. Stavamo piantati all’ingresso come due panettoni di cemento in mezzo alla strada.
   “Senti, Alfio” lo incalzai “saltiamo alla fine. La donna che lo segue. Che ne pensi?”
   “Tutto il male possibile. Dovrebbe ribaltare la situazione: da inseguito a inseguitore. O farla cadere in trappola.”
   “Se quella è una professionista non ce la farà mai” sbuffai.  “Porca puttana, ragiona. Una professionista non si fa scoprire come una idiota da un pivellino. Forse si è esposta di proposito. Tecnica tipicamente femminile. Per giunta, pare bellissima.”
   “È possibile” ammise poco convinto.
   Un anziano signore col cagnolino entrò nell’atrio. Alfio lo ringraziò dicendogli che avremmo chiuso noi. Non parve fidarsi, disse qualcosa al cane, iniziarono a salire le scale, lui si girò due volte. Accendemmo le sigarette come due inquilini che fumano l’ultima prima di rientrare. Aprimmo la porta venti centimetri.
   “Anche stasera Occhio di Lince ci sta dietro il culo” sbuffò. “Purtroppo sono in moto; vedi solo due mappamondi scuri, niente facce. Eccoli che passano. Sono peggio che in macchina.”
   “Più ci nascondiamo, più si insospettiscono” buttai là.
   “È vero. Facciamogli capire che non abbiamo capito e, per ora, freghiamocene.” Spente le sigarette, uscimmo come niente fosse. Tolse di tasca lo scritto di Emiliano, andò all’ultima pagina  e lesse:
   “Potrei fermarla e chiederglielo. Con la stessa naturalezza con cui s’invita una persona al bar per un caffè. Che ne dite? Dico che questo è fuori di melone”. Scosse il capo e aggiunse: “Ti rendi conto? Magari quella tiene in borsetta una pistola col silenziatore, gli pianta una pallottola in mezzo alla fronte e un’altra in mezzo ai coglioni”.
   “Bum-bum, quanto le spari grosse. Impossibile. Non ha un movente per una simile follia. Il giovanotto non sa niente, le armi femminili sono altre.”
   “È vero, hai ragione. Ho esasperato una situazione anzitempo e di proposito.”  Propose di puntare verso il centro. Gli era venuta voglia di granita al limone in un bar che conosceva. Alfio è sempre stato un uomo di piccoli desideri, una faccia sola, il linguaggio fiorito, tante idee buone, poche sbagliate. Da pensionato s’aggrappava alle ventose della rabbia per stare impegnato, guadagnare e sentirsi utile. Dopo una pausa silenziosa arrivò dove lo aspettavo:
   “Cos’hai fatto in questi giorni?”
   “Due cose molto importanti” gli risposi convinto. Si fermò, inclinò il testone piantandomi lo sguardo nelle pupille.
   “E me lo dici adesso? Avanti spara.”
   “Ti ricordi l’Odissea di Omero?”
   “Vagamente. Allora avevo i pantaloni corti, ora ho i capelli grigi, sono pensionato eppure scaduto. Leggo quasi niente.”
   “Almeno il giornale lo leggi, vero?”
   “Solo quando piove. Vieni al dunque senza fare troppo l’intellettuale.”
   Gli rinfrescai la memoria. Ulisse che ritorna a Itaca, la vendetta per il giorno dopo, le armi nascoste per agevolare la vendetta. Gli dissi della pistola infilata nel bidet della villa.
   “Complimenti, sei meno pirla di quanto pensassi. E se la trovano?”
   “Ferraglia. Matricola limata, niente molla, nessuna impronta digitale. La molla la tengo sempre addosso.”
   “Anche adesso?”
   “Anche adesso. Trovala, se ne sei capace.”  Per qualche minuto ritornò poliziotto nell’atto di perquisire. Mi fece alzare la mani contro il muro, gambe divaricate. Partì dai posti più insoliti: sotto il colletto, nei calzini, sotto le ascelle. Niente. Seguì la palpata generale. Si disse soddisfatto per non averla trovata. Ma subito aggiunse:
   “È rimasta solo la cintura: sta lì vero?” confermai. La trovò una buona idea ma molto cinematografica.
   “Non è missione da sparatoria” sentenziò. Lo pensavo anch’io, ma temevo l’imprevisto che ritengo un cecchino sempre in agguato.
   “Sei giovane, impetuoso” riprese “ami le pistole come le belle donne. Il bottino che stiamo cercando non ha né intermediari né ricettatori. È per ricchi stagionati con giacca, cravatta e pancetta.” Finsi di digerire la lezioncina e passai al secondo argomento: le nove fotografie. Gli raccontai tutto senza omettere nessun dettaglio, compresi i cinquemila euro. Mi ascoltò in silenzio, concentratissimo. Poi mi guardo male rimbeccandomi:
   “Non lo hai detto subito e hai sbagliato. Forse c’è dell’altro e me lo stai nascondendo”. Mi arrabbiai io.
   “Non c’è altro. Non ti permetto dubbi sul mio operato. In macchina tengo una copia per te. Guardali, studiali, io non ci ho capito niente.”
   Riprendemmo a camminare lentamente, muti e incavolati. Dopo una decina di minuti m’indicò il bar a cui aveva pensato prima di uscire. Lo gestiva un barista stagionato e stanco, l’aria smunta di uno yogurt scaduto. Lo aiutava un figlio con trent’anni in meno. I rapporti tra i due erano pessimi. I sorrisi che educatamente sfoderava il padre parevano smorfie. Capii che si conoscevano da una vita. Occupammo il tavolino nell’angolo, le spalle al muro, il portacenere pieno di mozziconi al rossetto, stuzzicadenti con pezzi di olive sparsi sulla tovaglia, bustine di zucchero come pallottole nelle tazzine bavose di caffè.
   Nella fioca luce si dondolavano giovincelli simili a foche infilati in tute di pelle nera, il casco appeso al cinturone, il telefonino appeso al taschino, la loro stupidità appesa al nulla. Vetrini da quattro soldi brillavano su nasi e sopracciglia, anellini metallici trafiggevano nasi e orecchie e labbra. Le moto occupavano il marciapiede, loro occupavano l’ingresso, divoravano gelati sparando cazzate. Le ragazze ridevano tanto per ridere, buttavano soldi nei videogiochi vincendo nulla, facevano un casino d’inferno. Le parolacce non si contavano.
   Alfio si gustò la granita siciliana al limone guardando il bestiario con aria cupa. Io mi feci l’aranciata amara con molto ghiaccio pensando a Paderborn. Uscimmo dopo dieci minuti saturi di frastuono penetrando nel caldo silenzio della notte. Riportammo il discorso sull’amico in Germania.
   “Ora lo chiamo e gli dico di rivedere la professoressa.” Alfio guardò l’ora, mi mostrò l’orologio ricordandomi che era quasi mezzanotte.
   “È giovane e i giovani sono nottambuli.” Aprii il telefonino, cercai il numero e dopo qualche secondo mi rispose.
   “Ciao, siamo noi, i tuoi amici dall’Italia. Scusa l’orario, disturbiamo?” Mi parve di sentire un po’ di trambusto poi rispose:
   “Non disturbate. Come mai a quest’ora?”
   “Volevamo ringraziarti. Sei partito bene, vedi di finire in bellezza. Dove sei?”
   “In hotel.”
   “Che stai facendo di bello?” Altra pausa.
   “Stavo leggendo.”   
   “A proposito della professoressa… provaci ancora, sparale mille euro e insisti su quelli. Se proprio rifiuta arriva a duemila, non vende segreti di stato. Piagnucola, falle capire che quelli ce li rimetti di tasca tua. Scrivi tutto, falla parlare il più possibile, non pagarla prima.” Gli consigliai di aspettare un giorno. Nel frattempo cercasse altrove, nei posti giusti. Alfio mi ascoltò con le antenne accese, e quando stavo per chiudere mi chiese il telefonino:
   “Emiliano, ciao sono Alfio… guardati dalla bella inseguitrice. Certe donne, con la pistola, sono meglio degli uomini”.
   “Tranquillo Alfio, questo non è un film americano. Buonanotte.” Anche Alfio chiuse la comunicazione chiedendosi, e chiedendomi, se quello aveva afferrato la battuta. Aggiunse:
   “Hai notato niente di strano?”
   “Il fiatone… aveva il fiatone.”
   “Certo. E troppo disponibile, troppi sì, la fretta di chiudere velocemente.”
   “Conclusione?”
   “Non era solo. In quel letto c’era anche una donna.”
   “Stiamo pensando alla stessa persona?”
   “Purtroppo sì. Forse hanno bevuto il caffè assieme e ora provano a digerirlo. Però, Alfio, non corriamo troppo, ma mettiamola in bilancio.”
   “Al diavolo i dilettanti” imprecò l’amico colpendo un pacchetto di sigarette vuoto con un calcio. Voltò pagina.
   “Dai tuoi incontri amorosi in villa hai cavato qualcosa?”
   “Finora niente. Sono stato con tre donne ma la sinfonia è sempre la stessa: voci attendibili dicono, pare, si sa che, eccetera eccetera.”
   “La via per scoprire il nascondiglio della valigia non passa tra le lenzuola di quelle donne. O cambi strada o perdi tempo.”
   “È vero. Purtroppo per entrare in villa non ho altre strade. Il preventivo l’ho consegnato e non ho uno straccio di piano.”  Lo ammisi aggiungendo che avevo la testa piena di niente. Anche l’amico soffriva la mancanza di un inizio, la bozza di una strategia da seguire fino al raggiungimento dell’obiettivo. Mi consigliò:
   “Quella della villa Liberty coi capelli rossi modello incendio… falle saltare il tappo e falla cantare.”
   “Se siamo a questo punto allora siamo alla disperazione. Quella sta col committente e devo muovermi in punta di piedi.” Tamponai con un’idea da quattro soldi:
   “Due elementi bastano a risolvere il problema: primo, che cavolo di manoscritto contiene la valigia; secondo, in quale lurido buco sta nascosta”.
   “Bene, ha parlato il genio incompreso” sbottò. “Il titolo dovevi chiederlo al committente durante la trattativa. Il buco dov’è nascosta non l’anno trovato gli illusi cercatori d’oro che ci hanno provato. Pensaci, amico caro. Hai una manciata di mercurio; stringi e ti trovi col nulla.” Parole tanto dure quanto ineccepibili. Mi ferirono, accusai il colpo, riuscii a far finta di niente. Provai a reagire:
   “Alfio, alza la testa e guardami negli occhi. Ti ripeto le parole esatte del committente: Non posso dirle altro; accetti o rifiuti. Dopo una sentenza del genere o accetti o rifiuti. La trattativa è finita. Quella è gente che non parla manco sotto tortura. Vaffanculo”.
   Arrivammo sotto a casa sua tesi e silenziosi. L’ingresso era illuminato da una lucina cimiteriale. Azzardai per rompere l’imbarazzante silenzio:
   “Il mio fiuto dice che la soluzione del primo punto potrebbe portarci al secondo”. Si grattò il mento, poi si asciugò il sudore sulla fronte.
   “Potrebbe… Quarant’anni d’indagini con questo naso non si giocano su un potrebbe.” La mia macchina stava parcheggiata sotto il lampione, Alfio mi mostrò un giovanotto diretto verso l’ingresso che si dimenava come un bamba a suon di musica. Aveva la sigaretta di traverso, le orecchie sigillate dalla cuffia, il cervello pieno di decibel.
   “È il tuo secondo figlio?” chiesi accennando col capo.
   “”È proprio il mio secondo figlio. Un treno deragliato” sentenziò battendosi la fronte. Gli diedi la cartella coi nove ingrandimenti.
   “Tuffatici dentro. È un gran rompicapo. Provaci, ammesso che tu abbia un capo.” Gli battei una mano sulla spalla, montai in macchina e, velocissimo, m’infilai nella notte.







15

Davanti al supermercato









   Il giorno dopo, sabato 22 luglio, Alfio ruminava i suoi problemi in famiglia, Emiliano faceva il cane da tartufi a Paderborn, io ero libero. Dalla villa nessuna chiamata, quindi decisi di impegnarmi.
   Mi preparai il caffè corretto e uno yogurt alle fragole in compagnia delle scempiaggini televisive pensando a un programma che desse un senso alla giornata. Presi la valigetta del committente, che non conteneva un clarino ma una pistola con caricatore di scorta, la nascosi nel solito sacchetto del supermercato e alle nove scesi in garage. Non era un’arma adatta al mio braccio come la Beretta, ma m’imposi di padroneggiarla come se lo fosse. Prima del poligono di tiro feci un salto al Paradiso Della Moda per Floriana innanzitutto, e per i saldi che offrivano la bellezza dell’inutile a prezzi scontati.
   Il tempo era sempre talmente bello che la mancanza di pioggia induceva a considerarlo brutto. Dell’acqua dal cielo, che mancava da mesi, ne sentivano tutti la mancanza. Tutti tranne il cielo.
   Nel centro commerciale acquistai due camicie con le maniche lunghe, un cardigan di cashmir paglierino, due paia di jeans: uno nero l’altro color mattone. Pagai, intascai lo scontrino e con la mia borsa mi avvicinai al reparto sport dove lei stava sistemando gli ultimi arrivi. Era radiosa come sempre: le guance accese, le labbra color corallo, lo sguardo attento, capace di parlare. Le ornavano il collo una collanina con pietre color turchese, come gli orecchini. Quando mi vide, distante una decina di metri, mi salutò con quel sorriso che ti accarezzava prima che schiudesse le labbra. Le avevano affiancato una collega tracagnotta che, in silenzio, sistemava i prezzi fissando un tabulato.
   Non ci salutammo a voce avendolo fatto con lo sguardo. Le chiesi come stava, le mostrai gli acquisti. Era in ottima forma; guardò i capi uno alla volta, disse che avevo scelto bene e risparmiato parecchio.
   Due ragazzotti chiesero di vedere i contapassi. Avevano pettinature troppo alte, jeans troppo lunghi, gusti troppo confusi. Lei gli mostrò tre modelli; girò la scatola in modo tale che vedessero i prezzi, li lasciò meditare. Era sabato, giravano parecchi clienti a caccia dell’affare, dovevo sbrigarmi, quindi venni al sodo.
   “Avrò il piacere di portarti a cena stasera dopo il lavoro?” sollevò lo sguardo dalla mia borsa, mi fissò in silenzio con sguardo astuto, mi trafisse:
   “Non credo. Ci conosciamo poco, ho poco tempo e temo il dopocena. Te l’ho detto: sono all’antica e intendo restare così. Scusami”. La sua risposta, che al momento non ammetteva repliche, fu deludente ma prevista. Giocai la carta della tranquillità:
   “Il dopocena sarà un immediato rientro a casa, niente soste, niente avances. Al massimo una deviazione per il gelato”. Prima che potesse rispondermi fu assalita da una coppia alla ricerca dell’affare. Lei aveva due gemelli su una carrozzina di lungo formato con più rotelle di un TIR. Toccarono un’infinità di prodotti, le posero decine di domande, non spesero un euro.
   “Torniamo a fine giro” disse la madre dei pargoli e per un attimo Flory fu libera. Tornai alla carica:
   “Una cena per conoscerci, una chiacchierata con le gambe sotto il tavolo e quattro specialità sopra. Nient’altro”. Scosse il capo ripetendomi la solita solfa:
   “Scusami, ma la risposta è sempre no” fu l’ultimo giro di chiave. Vicino alla cassa c’era una scatoletta nera coi biglietti da visita dell’azienda, il sito internet, i numeri di telefono. Ne presi uno e sul retro ci scrissi il mio numero di cellulare. Glielo spinsi contro le mani smarrendomi nel suo sguardo.
   “Invito volentieri le persone che m’interessano, e tu m’interessi moltissimo. Non insisto per non infastidirti. Se cambi idea chiamami.” Presi la mia borsa, la salutai con un sorriso falsamente allegro e uscii.
   La macchina era calda come un forno a microonde, l’accesi e feci partire l’aria condizionata. Il mio morale era  una gomma troppo masticata. Per risollevarlo ricorsi alla musica. Infilai la mano nella borsa dei CD e scelsi a caso: Antonio Vivaldi, Il Cimento dell’Armonia e dell’Invenzione; Le Quattro Stagioni. Ottimo rimedio, pensai, ecco un grande che non mi ha mai deluso: il Prete Rosso col suo barocco veneziano, le sue descrizioni sonore minacciose e improvvise, le architetture polifoniche, un cielo ricco di luci, lampi e tuoni.
   Andai dal parcheggio della Moda a quello del poligono di tiro impiegando doppio tempo. Quattro Stagioni trasformate in quaranta minuti di brividi.
   Entrai allegramente; la terapia Vivaldi aveva funzionato. Salutai il direttore di tiro che, come al solito, aveva la faccia di un hamburger andato a male. Vista l’arma insolita fece lo spiritoso, ma restò un hamburger indigesto.
   Partii male e i soliti sbruffoni vollero godere il piacere di dirmelo. L’avevo previsto. Io e quell’arma stavamo ancora vivendo un affiatamento difficile. Siccome insistere resta la mia specialità continuai. Sparai dieci caricatori concedendomi una pausa ogni due. Alla fine andò meglio. Rimasi a guardare i fenomeni di turno e quando ne ebbi abbastanza delle loro cazzate pagai e uscii accompagnato dal più sbruffone.
   “Cambia arma, pirla” urlò al mio compatimento.
   “Lo farò quando tu cambierai testa, stronzo” gli risposi.
   Puntai verso il centro per calmare i morsi della fame. Mi fermai davanti al primo ristorante su cui mi cadde lo sguardo. Piazzai la BMW in sosta vietata proprio davanti all’ingresso per tenerla d’occhio.
   “Ciao bellissimo; ti ricordi di me?” La guardai sorpreso, mi ricordavo.
   “Ho appena lasciato un orango che mi ha dato del pirla e trovo una meraviglia che mi definisce bello. Conclusione?”
   “Sei un bel pirla” bisbigliò con un sorriso a cui si sarebbe perdonato tutto. Me la ricordavo banconista nel mio vecchio supermercato e la ritrovavo cameriera in vestaglia bianca tipo sogliola. Seguirono i soliti banali convenevoli. Da parte sua molto più che banali. Arrivò il proprietario che la mandò a dare una mano in cucina.
   “Il mio stomaco è sceso a livello delle scarpe; cosa propone per risollevarlo?” gli chiesi cercando un menu. Volle sapere se amavo il pesce.
   “Moltissimo; soprattutto se è fresco e buono.” Rispose che ci avrebbe pensato lui, bastava fidarsi e lasciarlo fare. Provai a fidarmi e a lasciarlo fare. Mangiai un piatto di spaghetti allo scoglio talmente unti e pepati che avrebbero bruciato lo stomaco a un bisonte, sorseggiai mezza bottiglia di Pinot grigio ghiacciato osservando la sala: due famiglie stavano in fondo, vicino alla cucina; nel mio angolo eravamo quattro single in compagnia della nostra solitudine. Ogni tanto ci lanciavamo sguardi complici senza capirci. Il più triste dei quattro mi stava di fronte; scelse cozze alla marinara. Dopo cinque minuti mi passò davanti una pirofila fumante, il profumo di mare inquinato e tre colori: nero guscio, rosso pomodoro, cozze arancione.
   L’uomo malinconico mise gli occhiali, scrutò attentamente le cozze, cominciò a parlargli pianissimo. Chiese perdono alle povere vittime ringraziandole per il piacere che gli procuravano. Glielo lessi sulle labbra.
   Il proprietario m’assalì ossequioso chiedendomi:
   “Gli sono piaciuti i nostri spaghetti allo scoglio?”
   “Sullo scoglio non mi pronuncio. Per gli spaghetti glielo dirò domani, quando li avrò digeriti.” Parve contrariato.
   “Gradirei saperlo subito, signor…”
   “Bisonte. Strano nome ma così mi hanno chiamato. Per gli amici sono Bison.” Finse di crederci aggiungendo:
   “Cos’altro desidera?”
   “Frutta. Molta frutta assortita. E il conto, grazie.”
   “Un buon caffè? Il nostro è una bomba.”
   “No, grazie. Potrebbe esplodere.” Se ne andò deluso. Stavo divorando l’intero piatto di frutta quando mi squillò il telefonino.
   “Ciao, mi riconosci?” Era lei, Floriana. Una bomba Molotov mi si accese nello stomaco.
   “Ti ho riconosciuta dal suono del telefonino” risposi emozionatissimo.
   “Senti, spiritoso, stacco stasera alle otto. Posso essere davanti al supermercato alle otto e mezza o giù di lì. Devo fare la spesa per la famiglia. Ho il tempo per un aperitivo; ci sarai?”
   “Ci sarò.” In due parole mi disse l’indirizzo del supermercato e chiuse. Una meraviglia era entrata nella mia vita. Andai al banco a pagare il conto pensando come una telefonata possa modificare il destino di un uomo.
   “Mi faccia provare la sua bomba” dissi al proprietario col portafoglio in mano.
Sorseggiai la specie di bomba e salutai la sogliola che mi pregò di tornare, poi filai a casa.


   Arrivai nel piazzale del supermercato alle 8 e 15. Sul grande vetro dell’ingresso c’erano i manifesti delle offerte e quello piccolo degli orari. Alcuni sabati, come questo, la chiusura era alle nove. Seguiva l’elenco delle aperture domenicali e quello dei sabati aperti fino alle dieci.
   Un sudamericano con la faccia da dattero suonava la chitarra vicino ai carrelli, regalava sorrisi, ringraziava per l’offerta che veniva lasciata cadere nella custodia aperta dello strumento. Ce la metteva tutta. Contribuii alla sua felicità con dieci euro osservando una chitarra normale divenuta elettrica. Un filo nero correva dallo strumento a una specie di batteria da automobile. Mi guardò, capì, aprì le labbra basculanti mostrando una dentiera a rastrello. Non era una batteria da automobile, ma una specie di accumulatore di corrente alimentato da pile a secco. E bravo il chitarrista da supermercato.
   Lo salutai, mi guardai attorno: ero transitato nei paraggi, ci ero passato davanti senza mai entrare. Il piazzale era grande, poteva contenere un’ottantina di auto, l’angolo più distante offriva l’ombra di un platano secolare, una siepe di mirto lunga una trentina di metri segnava il confine dell’area.
   Andando verso la macchina per prendermi una sigaretta vidi passare una vecchia Audi con sopra tre facce troppo coperte. L’auto arrivò in fondo al piazzale, voltò a sinistra, fece retromarcia contro la siepe all’ombra del platano. Rividi ancora per un attimo tre cappelli e tre paia di occhiali scuri, poi un giornale si aprì chiudendomi la vetrina. Non si erano tolti il cappellino, non si erano sfilati gli occhiali nonostante fossero all’ombra e dentro a una scatola chiamata automobile. Finsi di sistemare il tergicristallo tenendoli d’occhio. Contai le auto in sosta: ventuno. Se dieci erano dei dipendenti i clienti all’interno sarebbero stati, al massimo, una dozzina. Misi in moto, feci un giro, studiai l’area: entrata e uscita clienti, ingresso fornitori, i carrelli vicino all’ingresso e altri vicino al platano. Tutti i supermercati del mondo si assomigliano. Passai vicino all’Audi che cominciava a puzzarmi come una piovra marcia, la superai e andai a infilarmi tra quattro automobili; due a destra, due a sinistra. C’era poco movimento a causa dell’orario e mezza città era fuggita chissà dove.
   Ora l’autista muoveva il giornale e vedevo solo lenti scure che studiavano l’area. Purtroppo avevo lasciato a casa la pistola del committente, chiusa dietro la blindata per raffreddarsi. Da sotto il sedile di guida presi uno dei miei serramanico, lo infilai nel calzino sinistro, lo bloccai con due elastici e ci feci scivolare sopra i pantaloni.
   Mancavano venti minuti alle nove, lei era in ritardo di dieci, il chitarrista color dattero se ne andò salutandomi con la mano. Il crepuscolo aveva acceso le nubi e l’orizzonte di calde sfumature arancione.
   Finalmente vidi spuntare la sua Polo pulitissima, mi spedì un sorriso sulla lunga distanza, percorse una trentina di metri, bloccò l’auto. Scese come un fulmine, la corsa le spinse indietro i lunghi capelli, allungò le braccia con la delicatezza di una dea, l’abito le svolazzò attorno e, accarezzata dalla luce del tramonto, la vidi bella come una nube scolpita da un mago. Furono attimi brevissimi ma indimenticabili. Schizzai fuori dall’abitacolo mentre lei afferrava al volo un bambino sui quattro anni prima che un’auto in retromarcia troncasse una vita tanto giovane. La madre del bambino tirò fuori la testa dal bagagliaio, capì cosa aveva rischiato, si riprese la propria creatura, abbracciò Flory e corse via col bambino.
   Coperto dalle quattro automobili non vidi la tragedia sfiorata ma ammirai la sua bellezza e la prontezza dei suoi riflessi. Corse tra le mie braccia col fiatone, la gioia del salvataggio e un profumo da capogiro.
   “Ora sali sulla mia macchina, rilassati, io vado a parcheggiare la tua.” Lo feci in un attimo e rientrai. L’orologio mi disse che mancava un quarto d’ora alla chiusura.
   “Dio mio, l’ho visto morto” bisbigliò con una mano sulla fronte.
   “Sei stata eccezionale, complimenti” le dissi sfiorandole i capelli. “Ora ascoltami bene. Se entri là dentro corri un grosso rischio” e puntai il supermercato con l’indice.
   “Ci vengo da anni e l’unico rischio che ho corso è stato quello di un attimo fa” rispose con un filo di voce. Le mostrai, nell’angolo in ombra, la vecchia Audi col muso rivolto verso la fuga. Avevano abbassato il giornale e acceso tre sigarette.
   “Fumano erba per darsi la carica, stanno pronti a scattare.” Mi guardò come fossi un grosso punto interrogativo.
   “Forse sono solo tre amici in attesa di qualcuno ma, visto che te intendi cosa ne deduci?” aggiunse con un’ingenuità disarmante.
   “Seguimi bene: per me quelli sono tre rapinatori in attesa della chiusura. Osserva: in testa tre cappellini, sul naso tre paia di occhiali scuri, l’automobile col muso verso l’uscita.”
   “Li vedo… continua.”
   “Un attimo prima della chiusura l’auto arriva davanti all’ingresso, due scendono, uno resta sopra. Il numero due entra e blocca l’ingresso. Il numero uno, diciamo il capo, entra dall’uscita sfruttando la porta aperta di chi ha finito la spesa. Supera le casse, entra in ufficio, punta l’arma al direttore che ha l’ordine di consegnare la grana per evitare sparatorie.” Feci una pausa controllando l’orologio.
   “Sembri uno del mestiere, continua.”
   “Il direttore è costretto a chiudere l’ingresso e ad abbassare le luci, il capo gli strappa il telefono, i due raccolgono i telefonini assieme alla grana. Il direttore viene portato alle casse, preleva e consegna tutto, poi i due corrono fuori dove l’autista li aspetta a motore acceso, le portiere aperte, il piede a tavoletta sull’acceleratore. Partono a tutta birra e tanti saluti.”
   “Quindi niente spari” rifletté candidamente.
   “In teoria. Ma se tra i ritardatari c’è una specie di Rambo, un poliziotto in borghese, una guardia giurata o un duro di turno partono i fuochi artificiali.”
   “Grazie per la spiegazione. Al diavolo tessere, punti e spesa. Andiamo via” pretese seccamente.
   “Neanche per sogno. Ora esco e ci penso io. Tu passi al posto di guida, avvicini il sedile, tieni il motore acceso e se qualcosa va storto schizza via come un fulmine.” Uscii incurante dei suoi richiami. Guardai l’orologio, dovevo muovermi. Presi un carrello nel punto più distante, mi avvicinai alla siepe di mirto, la saltai riparato da una Passat, aprii il serramanico e, carponi, arrivai dietro l’auto sospetta. Bucai la gomma posteriore destra, c’infilai un legnetto di mirto appuntito, sentii l’aria uscire.
   Tornai indietro allo stesso modo, ripresi il carrello e mi avviai verso la mia BMW sfiorando l’Audi. Tenevo il carrello con la sinistra, il serramanico nella destra coperto dalla manica del giubbino. Guardai l’Audi fingendo stupore, mi avvicinai, con la sinistra diedi due colpetti sul vetro che si aprì una spanna. Vidi due lenti scure e minacciose, nessuna parola sfiorò i miei timpani.
   “Amico, hai una gomma a terra. In queste condizioni non andrai molto distante.” Gli voltai le spalle come niente fosse, chiamai Floriana ed entrammo a fare la spesa. Chiusi il serramanico e lo rimisi nel calzino mentre l’altoparlante avvertiva i signori clienti che mancavano pochi minuti alla chiusura.
   I tre scesero, controllarono la gomma, imprecarono contro un legnetto, e provarono a cambiarla. Facemmo la spesa velocemente, alla cassa provai a pagare tutto io ma lei non volle.
   “Ognuno paga il suo, punto e basta” s’impose decisa. Sistemai tutte le borse nel mio baule mentre lei mi chiese:
  “Secondo te chi erano?”
   “Tre disperati.”
   “Potevi chiamare i carabinieri.”
   “Mai chiamare gli altri quando sei in grado da solo.”
   “Bella filosofia del c…” e s’arrestò prima della fine.
   Qualche minuto dopo l’Audi se ne andò e io avanzai la mia proposta:
   “C’è una gelateria sulla collina, a una quindicina di chilometri. Il proprietario faceva il gelataio sulle navi da crociera, ci andiamo?”
   “C’è un gelataio a pochi minuti di macchina, che non ha mai visto una nave da crociera, ma prepara aperitivi da capogiro. Si va lì. Non vado volentieri a spasso con chi nasconde un coltello nel calzino. A cosa ti serve?”
   “A pelare la frutta, ne mangio molta, ad affettare il salame, a farmi qualche panino quando vado di fretta. È un coltello pulito.” Puntai verso l’aperitivo da capogiro; del resto questo era l’accordo e l’ora restava quella giusta. Spostò a fatica la mole di CD e musicassette sparsi dovunque dicendo:
   “Hai più musica di un direttore d’orchestra: Bizet, Mozart, Verdi, Wagner e via dicendo. Tutta roba pesante anzi… pesantissima”. Il caso volle che un CD con sopra un faccione simpatico le rimanesse in mano.
   “Giovanni Sebastiano Bach, Toccata e Fuga in re minore.” Se lo rigirò tra le mani pensando ad alta voce:
   “Toccata e fuga, ecco un titolo che ti si addice”.
   “Spiegati meglio” risposi lasciando strada a quattro motociclisti convinti di correre in un motodromo.
   “Hai capito benissimo. Mai come ora la toccata e fuga è stata di moda. Soprattutto per tipi come te.”
   “Non ti ho ancora toccata e non sono fuggito” risposi deluso mentre lei, col dito, mi mostrava il bar gelateria. Parcheggiai alla meglio, lei prese un raccoglitore dal sedile posteriore, se lo mise sulle gambe cominciando a sfogliarlo.
   “Fumi?” le chiesi mostrandole il pacchetto. 
   “Pochissimo e solo sigarette leggere, da donna. Proprio come le tue.” Accendemmo, lei aprì leggermente il finestrino, sfogliò il faldone.
 “Segnali d’allarme ultima generazione. Note per un preventivo. La famosa villa, bella… bellissima. Hai detto che il tuo lavoro è risolvere problemi. Questo è un problema risolto?” mi chiese con quello sguardo capace di trafiggere cuore, fegato e polmoni.
   “Non ancora; lo sarà presto.”
   Una decina di persone attendeva in fila, sul marciapiede, il gelato da gustare in piedi. Entrammo occupando l’unico tavolino libero. Era rotondo, grande quanto una gomma d’automobile, per giunta traballante. C’infilai sotto alcuni tovagliolini piegati in quattro. Servivano tre ragazzine dalle abbondanti scollature e scarsissime gonnelline. Erano sveglie ma stanche, di bell’aspetto ma scontrose, sudate ma profumate.
   “Mentre tu ordini gli aperitivi da capogiro io vado a lavarmi le mani e a rinfrescarmi la faccia” dissi allontanandomi. Feci ciò che avevo detto tenendo d’occhio la sala attraverso un oblò modello lavatrice. Non notai niente di strano, ma vidi lei fare una telefonata. Guardò verso i servizi, non mi vide, ne fece un altra molto breve ma in modo un po’ concitato. Quand’ebbe finito uscii con in mano la carta monouso fingendo di asciugarmi le mani.
   “Devi usare il bagno?” le chiesi sedendomi. Lei si lisciò i capelli, si guardò i palmi delle mani, scrollò la testolina.
   Arrivarono i due aperitivi in bicchieri formato zuppiera. Parevano giardini fioriti nati sull’acqua, con tanto di piantine di menta, ombrellini giapponesi, cannucce italiane ma fatte in Cina. Seguì un piattino con crostini al prosciutto, salatini, noccioline e arachidi.
   “Ci hanno preso per scimmie” sorrise lei. “Assaggia e dimmi che ne pensi.” L’accontentai regalandole un giudizio favoloso. Aprì la borsetta, prese un elegante pettinino, andò in bagno. Si scordò di chiudere la zip.
   Una coppia diretta verso l’uscita sfiorò la sua sedia, la feci cadere di proposito assieme alla borsetta, la raddrizzai subito, c’infilai dentro le mani. Dal portafogli spuntavano parecchie banconote da cinquanta euro, il telefonino era uno dei migliori, alla chiave della macchina era fissata una scimmietta di Swarovski, c’erano prodotti di bellezza, un’agendina chiusa dalla fibbia, fazzolettini di carta e una scatoletta, in una tasca interna chiusa dalla cerniera. Uscì dai servizi che stavo finendo di sistemare, la vidi irrigidirsi, la tranquillizzai:
   “La coppia dietro di noi… uscendo ha rovesciato la sedia assieme alla tua borsa. Mi hanno detto di chiederti scusa. Nessuno ha toccato niente ma meglio controllare”. Ci guardò dentro molto attentamente, la chiuse, l’appese alla sedia, riprese a sorseggiare l’indefinibile intruglio. Con lo stecchino mangiò solo i quadratini di prosciutto.
   “Aiutami” disse accennando al piatto. Presi una nocciolina, un’arachide, poi la zuppiera. Sorseggiai l’intruglio più colorato di una tavolozza. Usai le cannucce pieghevoli; aveva mille sapori, ma almeno era ghiacciata.
   “Troppe emozioni in poco tempo” s’imbronciò ripensando al supermercato. S’era fatta più dolce, voleva conoscermi, l’aveva colpita la mia solitudine: niente genitori, né fratelli, né sorelle, alcuni parenti distanti dagli occhi e dal cuore.
   “Ti auguro di avere molte amicizie” sospirò sollevando l’ultimo lembo di prosciutto.
   “Ne ho molti, alcuni li hai già conosciuti: Verdi, Donizetti, Bellini, Rossini e un altro centinaio. Amici che non tradiscono mai. Mi danno sempre più di quanto chiedo.” Trovò la mia risposta molto bella, suggestiva, un po’ melodrammatica. Lei era più concreta, e lo stava spiegando quando squillò il suo telefonino.
   “Strano” bisbigliò sorpresa “mi pareva di averlo spento.” La pregai di rispondere, accennai ad alzarmi, mi prese la mano trattenendomi. Guardò il display, lo apri lievemente imbarazzata. Rimase un attimo in ascolto.
   “Adesso sono in compagnia…” silenzio “richiamo domani.” Chi stava dall’altra parte continuò a parlare ma quel cellulare non mi fece sentire niente.
   “Va bene… d’accordo” chiuse e spense. “Rompiballe!” sbuffò. Guardò l’orologio; erano appena passate le dieci,  le proposi di chiamare a casa per tranquillizzarli.
   “Non serve. Lo sanno e sono tranquilli. Ora però ce ne andiamo.” Il tempo era volato e la trovai migliore del previsto. Era allegra, sorridente, sulle sue labbra fiorivano frasi semplici, dolci e chiare. Aveva idee precise. Indossava una camicia a millerighe in maglia di cotone, una gonna morbida con spacchetti laterali, una borsa di tela con manici di pelle. Stava molto bene e glielo dissi.
   “Acquisto spesso al mercato, ci sono bancarelle con fior di prodotti. L’importante è saper scegliere.”
   Uscimmo dal locale ancora pieno e diversi metri di coda sul marciapiede. Giravano coppie stagionate col cagnolino, giovincelli che leccavano il gelato, un’auto dei carabinieri passò a passo d’uomo. Una nube di afa ristagnava sulla città puzzolente. Una grossa moto con due giovani sostava a una quindicina di metri e il casco integrale mi negava le loro facce.
   Appena fummo in auto feci partire i Notturni di Chopin a volume bassissimo. Li conosceva, le piacevano ma senza i miei trasalimenti.
   La sua Polo stava sola nel parcheggio illuminato a giorno. Presi le due borse del supermercato, aprii il cofano e vidi quattro scatole di scarpe aperte. Tre contenevano modelli coi tacchi alti e mi parvero da grande stilista, l’ultima mostrava un paio di sandali di pelle coi tacchi a spillo e fiocchetti vari.
   “Spostati un attimo” disse quasi spingendomi via. Avevo in mano la scatola coi sandali, all’interno vidi uno scontrino e nell’attimo in cui chiusi la scatola lo feci sparire tra le dita. Chiuse e le mise in fondo lamentandosi del casino che avrebbe messo a posto appena a casa. Ci spinse davanti la spesa del supermercato e chiuse il baule molto velocemente. Mi offrii di seguirla, per precauzione, ma rifiutò.
   “La strada è poca e non mi fermo per nessun motivo” confermò decisa. Dal baule della mia auto presi e le offrii l’ingrandimento fotografico. La guardò compiaciuta.
   “È molto bella, grazie.”
   “È fatta col telefonino, ricordi? Ma con la fotocamera si può fare di meglio, molto meglio.” Non aggiunsi altro. “Domani è domenica, potremmo ripiegare sul gelato” proposi.
   Mi elencò i lavori di casa che l’attendevano concludendo:
   “Ne riparliamo la prossima settimana. Te l’ho detto, sono all’antica. Niente Toccata e Fuga, ricordi?” Ricordavo, eccome. Prima di lasciarla le confidai:
   “Ho molto gradito la tua compagnia e conosciuto il tuo cuore”.
   “Credi? Non è facile entrare nel mio cuore e, ricordati, non amo essere assillata. Buonanotte” chiuse con un luminoso sorriso e partì. Mi avviai anch’io nella direzione opposta e dopo cinque minuti mi fermai, guardai lo scontrino, lessi il prezzo: euro 420. Alla faccia… per un paio di sandali. Lessi l’indirizzo del negozio, che era una famosa boutique del centro, e puntai verso casa meditando sui costi dei piedi femminili.


























16


Tre titoli








   La domenica mattina fu lenta, calda e noiosa. La città mezza vuota boccheggiava nel suo puzzolente silenzio. Era trascorso quasi un mese da quando avevo accettato l’incarico e stavo ancora accovacciato sulla linea di partenza. I giorni correvano veloci e non riuscivo a imbastire un piano per recuperare la maledetta valigia. Maledetta era parola che male si addiceva a un bagaglio che mi avrebbe fruttato un milione di euro.
   Cosa avrei fatto con la mia parte dopo aver ricompensato Alfio? Qualche proposta a Flory sarebbe stata prematura. L’incontro della sera prima era stato un buon inizio, come la chiarezza di lei: guai ad assillarla. La sua libertà, per il momento, restava intoccabile.
   La mia convinzione di arrivare alla valigia in tempi brevi cominciava a vacillare. Come pure l’arrivarci in tempi lunghi. La mancanza di un piano, nel mio lavoro, è fune tesa sull’abisso. Ci cammini sopra spinto dal vento consapevole di poter precipitare a ogni traballante passo.
   Il mio appartamentino non era più solo un auditorium, ma era diventato anche un pensatoio. Trascorrevo ore sulle carte della villa cercando un punto da cui cominciare. Foto, piante, schizzi proponevano inizi che, poco dopo, l’esperienza negava. La delusione mi assaliva e per vincerla facevo dell’altro.
   Per tutta la mattina passeggiai con lo sguardo su percorsi che conoscevo a memoria. Restavano alcuni locali chiusi che avrei cercato di aprire senza sapere come né perché.
   Decisi per un sottofondo musicale a basso volume. Scelsi l’impressionismo di Debussy sperando che la sua emotività e ipersensibilità facessero luce nel buio dei miei pensieri. La grande musica è sempre stata il mio primo e ultimo rifugio.
   Cominciai col meglio per pianoforte prima, e il meglio per orchestra poi. Fu tutto inutile. Dopo un paio d’ore fermai l’orchestra ringraziando l’amico francese.
   A mezzogiorno fui assalito da un’ondata di malinconia. La cura Floriana tardava a produrre i primi benefici. La città era mostro silenzioso e maleodorante, abbioccata nell’afa e nel silenzio domenicale. Ero solo come un cane, senza un cane di amico, o amica, che si ricordasse di me. M’imposi di essere felice per due motivi: Flory e la valigia. La prima l’avevo conosciuta, l’altra l’avrei trovata. Il primo incontro con la ragazza era andato bene, le emozioni non erano mancate, altre ne sarebbero seguite. La valigia l’accantonai momentaneamente.
   A mezzogiorno e un quarto infilai i pantaloncini corti, una felpa leggera, scarpe da tennis. Presi il portafoglio, il telefonino e scesi di corsa. Potevo mangiare fuori o in casa; nel frigo avevo la spesa della sera prima: carne, pesci surgelati, frutta abbondante, bevande a volontà. Stavo scendendo le scale quando mi suonò il telefonino.
   “Ciao, sono Flory, disturbo?”
   “Nient’affatto. La tua voce è per le mie orecchie ciò che Debussy è per il mio cuore: musica sublime” esagerai pentendomi subito. Breve pausa.
   “Grazie per ieri sera. Stanotte ci ho pensato; nella peggiore delle ipotesi mi hai quasi salvato la vita.”
   “Nel migliore dei casi ci siamo quasi conosciuti, e l’aperitivo in tua compagnia è stato buonissimo.” Attesi un attimo. “Cosa fai di bello?”
   “Le pulizie di casa, cucino, poi un riposino con un buon libro. E tu?”
   “Faccio piani. I ladri pensano come rubare, io studio il modo per impedirglielo.” Mi ero seduto sul penultimo gradino per godermi la telefonata in posizione di riposo. “Ho una domanda curiosa, posso sparartela?”
   “Certo, se non è troppo invadente. Gli spari vocali non uccidono, avanti pure.” Andai avanti.
   “Dici di essere all’antica e va bene. Ognuno di noi fa le proprie scelte. Però il tuo nome Floriana ristretto a Flory è raro e moderno. Come mai?” Mi spiegò che era stata  la volontà dello zio, fiorista con un grosso negozio, a vincere la cocciutaggine dei genitori decisi per un nome più tradizionale. I dettagli me li avrebbe spiegati a voce.  Mi augurò buona domenica e ci salutammo.
   L’inaspettata telefonata mi aveva bloccato sulle scale. Due coinquilini mi salutarono con un cenno del capo. Contraccambiai allontanandomi. Arrivai in strada dove il sole accecava e riuscii appena a schivare un gruppo di ragazzetti che saettavano sul marciapiede piegati sui pattini a rotelle. Erano un pericolo ignorato da tutti.
   Siccome passavo molte ore immobile sulle carte decisi di correre quanto più potevo. Transitai davanti a un’edicola aperta, pagai due quotidiani.
   “Li ritiro quando torno” dissi all’edicolante imbambolato davanti a un ventilatorino.
   “Tra poco chiudo” rispose spingendomeli davanti. Li arrotolai come un bastone riprendendo a zampettare. Sudai come una bestia ma, pensando a Flory, non mi sentivo più solo come un cane senza padrone. D’ora in poi, assieme al sorgere del sole, la mia vita aveva un altro scopo.
   Decisi di mangiare a casa. Trovo deprimente farlo da solo ma mi adatto. Prima d’infilarmi sotto la doccia chiesi compagnia all’amico Bruckner con la Sinfonia Numero Uno e la Numero Due; quella che i Filarmonici di Vienna definirono “ineseguibile”.
   Mi cucinai un nodino di vitello, come contorno lattuga tagliata fine ma non troppo, cipolla affettata e pomodori appena maturi. Mi scolai mezzo bicchiere di bianco frizzante, una mela, una pera e un kiwi. Mi preparai un buon caffè e provai a capire qualcosa sulle nove fotografie che mi erano costate cinquemila euro.
   Su quelle immagini color ruggine mi ero spremuto alcune volte girando a vuoto come in un labirinto senza uscita. Una cosa avevo capito e ne ero certo: quei nove fogli erano parte di un insieme. Chi aveva sottratto le altre carte? E perché lasciarne solo una parte? Per depistare o per indirizzare? Avrei messo la mano sul fuoco che i fogli mancanti stavano a casa del committente.
   A parte qualche triangolo, che mi parve disegnato senza senso (forse a posteriori), le frasi parevano dettate, o scritte, da un sacerdote in fregola di catechesi. Una diceva: “Perché fossero assolti dal peccato”. Un’altra: “Al vincitore darò da mangiare dell’albero della vita che sta nel paradiso di Dio”. Sicuramente erano tratte dalla Bibbia, ma un significato riconducibile alla valigia distava dalla mia mente anni luce. Una frase la trovai divertente, con una sottile presunzione morale. Diceva: “Gli stracci danno carta, la carta dà le banconote, le banconote danno le banche, le banche danno prestiti, i prestiti danno pezzenti, i pezzenti danno stracci.” Un pensierino talmente divertente che lo imparai subito a memoria. Una frase che mi parve tracciasse un percorso ricordava: “Il terzo anno, il terzo mese, la terza settimana, il terzo giorno, all’ora terza del pomeriggio. Tutto fu fatto alla luce del sole.” Ci sudai sopra una bella mezz’ora, ma inutilmente. Per fortuna, a togliermi da quella incasinata situazione ci pensò il secondo scritto di Emiliano che lessi nel computer. Cominciava così:

                                                                                         Paderborn, 23 luglio
Cari amici,
                 ieri ho trascorso l’intera giornata dalla professoressa. In mattinata l’ho informata che la mia università mi autorizzava a una spesa di mille euro. Avendola sentita molto titubante ho pensato a una visita modello ringraziamento e saluti. Di prima mattina le ho suonato il campanello con un cuneo di parmigiano reggiano fingendomi disposto all’ultimo abbraccio. Cercavo quello che avevamo concordato: l’elenco delle carte trafugate in Italia. Purtroppo, come molti sapientoni, anche questa è una che se la tira. Dopo avermi tenuto sulle braci ardenti per diversi minuti ha accettato. I miracoli del parmigiano reggiano.
    Ma torniamo ai nostri documenti. La copia dell’elenco lo aveva. Non mi ha detto come lo ha avuto, ma ho la sensazione che lo avesse da sempre. C’erano copie in formato A4, A3, fotografie piccole medie e grandi, alcuni quaderni. Trascriverlo e trasmetterlo tutto è impresa impossibile; lo ha detto lei e lo garantisco io. Quello che riceverete è una parte, la più importante e, sempre secondo lei, contiene ciò che noi italiani vogliamo. La signora sostiene pure che un elenco dettagliato e completo non è mai esistito. Troppe mani frugarono in quei bauli. Con una decisione tipicamente tedesca ha confermato:
   “Nella mia sintesi troverete ciò che cercate”. Proviamo a crederci e cominciamo. Premessa: i dettagli tecnici non vogliono essere un gratuito sfoggio culturale, ma il mezzo per capire certe difficoltà che emergeranno più avanti. Procediamo con ordine. Oggi i documenti “segreti” sono custoditi nell’Archivio Segreto del Vaticano nato per volere di Paolo V Borghese nel 1610. Attenzione: per una breve storia di questa meraviglia servirebbero almeno 400 pagine. I documenti, conservati in apposite scaffalature, corrono per quasi cento chilometri. Questo archivio è il più importante al mondo. È considerato un tesoro per l’umanità, ed è chiamato la “Chiave di San Pietro”. Nel 1527 era la stessa cosa ma in chiave molto ridotta. Quando avvenne il fattaccio (Sacco di Roma, 6 maggio 1527) i documenti stavano distribuiti in diversi posti: San Pietro, Laterano, Palatino, Castel Sant’Angelo, nella Torre delle Carte e in alcuni palazzi vicini. Una parte, come già detto, fu murata in posti non individuabili. Questa dispersione salvò un grosso quantitativo del tesoro che rimase a Roma. Per fortuna.
   Ma vediamo cosa riuscirono ad arraffare: l’elenco parla di bolle, suppliche, lettere papali, solenni e graziose, lettere concistoriali, esecutorie e lettere patenti. Lettere chiuse e segrete.  Litterae ante coronationem,  corrispondenza privata, brevi inviati in risposta, le decime, l’Obolo di Pietro, gli inventari, codici giuridici e documenti dei tribunali (Rota del concistoro), molti registri tra cui quelli delle suppliche, diplomi imperiali, atti pontifici, documenti di teologia, di filosofia, di cura pastorale, di storia e di diritto canonico, processi per stregoneria.
   Alcuni registri dovevano essere sollevati da due persone, e certi manoscritti erano lunghi alcuni metri. Le carte importanti avevano bolle plumbee, sigilli di cera vergine, altri di cera rossa, altri erano d’argento e alcuni d’oro. Il peso dei sigilli  variava da pochi grammi fino al chilo.
Attenzione: leggere questi documenti non è come leggere il giornale, tutt’altro. Le calligrafie usate sono: Beneventana, Onciale, Semionciale, Merovingia, Precarolingia, Visigota, Carolingia, Curiale romana, Curiale nuova, Miscellanea Cancelleresca, Gotica, Umanistica, Latina, Greca, Ebraica. Alcuni si leggono da destra a sinistra, altri da sinistra a destra, dall’alto in basso, parecchi sono vergati in Bustrofelica. Ognuna di queste scritture designa un preciso periodo ed è tipica di un Paese. Pare che molti manoscritti siano diventati illeggibili perché corrosi da una specie di fungo violaceo che gli esperti del tempo non riuscirono a debellare. Perdonatemi qualche altro chiarimento sui documenti antichi. Quelli privati erano divisi in tre parti: protocollo, testo, escatollo. Il protocollo conteneva il signum tabellonis, l’invocatio verbale e datatio. Nel  testo abbiamo il dispositivo, Il sancito, la rogatio. L’escatollo era composto da: datatio, aprecatio, subscriptio, signum tabellionis detto anche completio. Il documento pubblico era anche più lungo e la partizione del documento pontificio ve la risparmio perché lunghissima. Esattamente l’opposto degli SMS odierni. Roba da far venire i capelli bianchi. Ma veniamo a cose più semplici e concrete.
Dal vasto elenco dei nomi me ne ha segnalati cinque: Alighieri Dante, Boccaccio Giovanni, Buonarroti Michelangelo, Da Vinci Leonardo, Petrarca Francesco. Ma alcuni di questi li vedremo più avanti. Tutto materiale per paleografi, cioè per studiosi dell’evoluzione delle scritture antiche in tutte le loro manifestazioni. Un esempio: per i documenti pontifici solenni si usava una scrittura speciale detta Littera Sancti Petri, talmente svolazzante da essere, per molti, incomprensibile. Molto precisi i manoscritti su alcuni Concili Ecumenici. Sintetizzo seguendo l’ordine dei fogli: Concilio di Nicea (325) durante il pontificato di Silvestro (314-335) voluto da Costantino imperatore. Dal 20 maggio al 25 luglio, presenti 318 padri e 220 vescovi. Le definizioni dogmatiche: consostanzialità del Figlio con il Padre, il “Credo” come simbolo niceno, condannato l’arianesimo, fissata la data della Pasqua ed emanati venti canoni.
   Concilio di Costantinopoli (381) durante il pontificato di Damaso (366-384) voluto da Teodosio I imperatore, presenti 150 vescovi. Le definizioni dogmatiche: consostanzialità dello Spirito Santo con il Padre e con il Figlio, il “Credo”. Condannata la pneumatomachia o macedonianismo, canoni emanati quattro.                      Concilio di Efeso (431) durante il pontificato di Celestino I (422-432) convocato da Teodosio II imperatore, presenti 198 vescovi, definizioni dogmatiche: una sola persona in Gesù Cristo, Dio e uomo. Maria madre di Dio. Le sedute furono sette, si condannò il nestorianesimo, i canoni emanati furono venti. In modo sempre molto dettagliato seguono quelli di Calcedonia, il secondo e il terzo di Costantinopoli, quello di Nicea e il quarto di Costantinopoli (869-870), dal 5 ottobre al 28 febbraio, con dieci sedute e ventisette canoni emanati.
In quegli anni, e prima di quegli anni, si scriveva su tavolette cerate, papiro, pergamena e, all’incirca dal 1100 in poi sulla carta. Le pergamene, in certi periodi, furono tinte di porpora, i papiri erano a forma di rotoli, altri a forma di codici. Gli inchiostri si facevano con le bacche di sambuco, le fragole, fuliggine, bistro, ferro-gallica. Fu usato pure un inchiostro giallo come l’oro. Per scrivere si usava lo stilo per le tavolette cerate, la penna d’oca e quella di giunco per gli altri supporti.
    Una curiosità: un salterio di foglia d’oro fu scritto con inchiostro di rubini fusi.
Le rilegature di certi volumi erano in lamine d’oro, d’argento, d’avorio. Molti di questi libri da museo erano tempestati di pietre preziose. A questo punto avrete capito che la lettura di queste carte è un labirinto in cui si possono muovere solo diversi esperti. Sappiate che per le abbreviature, e in diversi casi sono tantissime, servono appositi dizionari davanti ai quali noi saremmo degli emeriti analfabeti. Questo non ci deve scoraggiare. A noi servono i titoli prima dei contenuti. Meglio ancora, credo, un titolo. Quindi, tra poco, procederemo con quelli. Un’altra cosa: la professoressa propone i titoli che interessano a noi. Di proposito ometterò quelli, che secondo la sua sconfinata cultura, non ci interessano. Cominciamo:
Letture e sermoni di papa Gregorio Magno. Antiphonarius Cento. Accordi tra Pipino e il papa sulla divisione del regno longobardo. Con allegato uno scritto di Baronio. Lettera di papa Stefano II ai principi Carlo e Carlomanno. Lettera di Giovanni VIII per l’affermazione di Stefano. Metodio non aveva mantenuto la promessa fatta al pontefice. Atti del processo di Stefano VI contro il cadavere nell’archivio del Laterano. Scritti di Pier Damiani. Alcuni faldoni contengono lettere dei papi, atti dei concili, documenti sulle persecuzioni ed eroismo dei martiri, scritti su Gerolamo, Innocenzo, Eliodoro, storie degli eremiti nel deserto. Rapporti dei missionari inviati nella “Terra del vento del Nord”cioè l’Irlanda. Scritti di papa Innocenzo III, in pessime condizioni. Due registri papali facenti parte di una serie incompleta. Leonardo da Vinci, Quaderni. Copia delle elargizioni fatte alla Chiesa da Carlo Magno, Giovanni Senza Terra, Matilde di Canossa. Lettere di Innocenzo III su pergamena. Documenti dei tempi di Barbarossa. Verbali di processi, cataloghi di libri, rapporti sui mongoli. Secondo volume della Miscellanea (storia politica e religiosa, documenti su Lutero). Narrazione del martirio di San Policarpo. Dante Alighieri, Commedia. Traduzione delle opere di San Gerolamo. Copia del Liber Pontificalis. La schiavitù nell’ambito della Chiesa. La Regula Sancta. Copia olografica esiste conservata presso i monaci di Montecassino. Esegesi bibliche. Testi della patristica. Opere di storia religiosa. Opere di storia contemporanea. Biografie di santi e martiri, manuali, testi poetici cristiani, classici pagani. Scritti di Petrarca e Boccaccio. Diciotto frammenti librari. Sono scritti di temi diversi rilegati assieme in modo molto disordinato. Comprese le miniature. Rapporti del Concilio di Nicea indirizzati a papa Silvestro e custoditi nell’archivio (di allora) dai legati pontifici Vito e Vincenzo. Rapporti dei nunzi su Martin Lutero. Rapporti sui templari. Scritti sulla scoperta del Nuovo Mondo. Bonifacio VIII e l’introduzione dell’Anno Santo 1300. Lettere e memorie sulla controversia luterana. Rotolo o papiro di Qumran scritto su quindici pelli di pecora e lungo metri 6,48.
Al nome Qumran sono scattato sulla sedia come una molla. Mi sono sentito preso per i fondelli. Lei, come niente, mi ha guardato da sopra gli occhiali sorridendo maliziosa.
“Mi meraviglio della sua meraviglia” ha confessato candidamente. “Lei conosce la storia con la esse maiuscola ma io, subito, le avevo parlato di quella con la esse minuscola. Ora le spiego.”
Si alzò, andò davanti a una libreria grande quanto la parete e con l’indice puntato cercò un libro che gli occhiali sbagliati le impedirono di trovare. Per evitare la figura dell’ignorante volli dire la mia:
“Il mondo intero conosce la storia di quel ritrovamento avvenuto nel 1947. Come potevano i Lanzichenecchi trovare manoscritti di Qumran a Roma 420 anni prima?”
Aveva cambiato gli occhiali, trovato il volume, estratto una grossa carta geografica che mi aprì davanti al naso.
   “Glielo spiego subito” rispose candidamente. Con una matita tra le dita cominciò: “Israele, Palestina, Terrasanta, tre definizioni per tre confini ballerini. È stato sulle rive del Mar Morto?”
“Mai. E non intendo andarci. Fa troppo caldo.”
“Può andarci d’inverno. È un viaggio molto interessante. Lo dice una che c’è stata ben cinque volte.”
“Niente da fare. Il mondo è pieno di posti bellissimi e freschi.  Il caldo a cui mi riferisco non è solo la temperatura.”
“Capisco. Teme le sparatorie, le bombe, gli attentati. Affari suoi. Torniamo alla  nostra pergamena. Ora provi a visitare questa martoriata terra spostando la sua mente nell’anno 1000; diciamo quando cominciarono le crociate. Ci riesce?”
“Ci sto provando, ho bisogno di tempo. Non sono un computer né una guida turistica che viaggia da quelle parti.” La punta della sua matita segnò la parte che da Gerusalemme scivolava verso il Mar Morto. Disse:
“Ora segua questo percorso: Mar Morto, 400 metri sotto il livello del mare, Masada, En Gedi IV millennio a.C. saliamo… Qumran, Gerico, Gerusalemme. Ha idea di quanto sia stata trafficata questa sponda nel corso dei millenni?” Rimase zitta in attesa di risposta.
“Non sono un’agenzia viaggi ma conosco la Bibbia e la storia con la esse maiuscola.”
“Bravo. Partiamo da Masada, sa quanti morti trovarono lassù i romani?”
“Non ricordo il numero esatto. Furono parecchi, tutti morti per non cadere prigionieri.” La donna mi venne vicino, gli occhialini sulla punta del naso, lo sguardo graffiante. Riprese:
“Gli uomini di Flavio Silvio trovarono 960 cadaveri, solo 7 persone vive: 2 donne con 5 bambini salvi perché si nascosero in un canale e riferirono l’accaduto. Questo esempio ci dà l’idea del traffico che per millenni costeggiò il Mar Morto: per le cure, il sale, l’acqua dei piccoli torrenti, i minerali. Qualche ripasso ogni tanto non guasta”.  S’era accesa, mi parve stesse diventando quasi offensiva. L’affrontai:
“Le Crociate, con le grotte di Qumran, c’entrano come il cioccolato con la polvere da sparo. Così la penso io”. Scosse la testa come un baco da seta, sorrise demoralizzata. Chiamò la domestica, le disse di preparare il tè, mi chiese se gradivo. Avrei preferito un buon caffè all’italiana, ma pensando a quello del primo incontro accettai il tè. Prese fiato in attesa della bevanda. Mi rimproverò di avere in testa solo la storia con la esse maiuscola. Sorseggiammo un buon tè spingendo lo sguardo sulla grande carta geografica. Riprese quando la domestica sparì assieme alle tazzine. Accese la lampada appesa a un lungo stelo metallico e attaccò:
“Immagini una delle tante batoste subite dai Crociati sotto le mura di Gerusalemme. Soldati sbandati in fuga disordinata, feriti pronti a tutto per salvare la pelle. Uno scappa a cavallo inseguito dai nemici, s’infila nelle gole tra Nabi Musu e Qumran. In alto vede delle grotte, sprona il cavallo che inseguiranno mentre lui s’arrampica lassù. La grotta lo salva dai nemici, è ferito, senza cibo né acqua. Resiste un giorno o due, trova le anfore. Ne prende una poi, col buio della notte, scende. Raggiunge quel che resta del  suo diciamo  accampamento a Mar Saba. Il caso ha acceso una luce sulle famose anfore. La notte il soldato muore e la luce sulle grotte e i suoi preziosissimi manoscritti si spegne per altri ottocento o novecento anni e passa. Cioè fino all’aprile del 1947 quando il pastore beduino Muhammad ed-Dib (Maometto il lupo), non la riaccende”. Si concesse una pausa, fissandomi e aspettando una risposta.
“Complimenti, una bella storia confezionata su misura per il sottoscritto.”
“Lei ne avrebbe una migliore? L’anfora col rotolo è arrivata a Roma coi Crociati, poi qui, proprio qui a Paderborn.” Rimasi un attimo a meditare sulla suggestiva storia, poi chiesi:
“Sa dirmi chi ha ora questo prezioso rotolo?” Ripiegò con cura la grande carta geografica, la infilò nella custodia del volume che con la delicatezza di un prestigiatore ripose nello scaffale dicendo:
“Non pretenda l’impossibile. Di tre cimeli sono certa della scomparsa: i Quaderni di Leonardo, ovvero il trionfo della scienza; la Commedia di Dante, cioè l’apice della letteratura; il rotolo di Qumran, ovvero la conferma della fede. Gli italiani che vennero a riprendersi il tesoro sapevano cosa volevano. Hanno portato in Italia tutte e tre le opere o solo una parte? Non lo sappiamo. Se lei, caro giovane amico, cerca un titolo che sta nascosto in Italia, lo cerchi tra questi tre.” Era talmente certa di quanto asseriva che non riuscivo a controbattere. Il nome di Leonardo mi aveva fatto accapponare la pelle. Dovevo farla parlare, quindi tornai alla carica:
“Mai sentito di Quaderni persi di Leonardo”. Il mostro di Vinci era un osso che, addentato, non volevo mollare, talmente importante da dare le vertigini. Cercai di tirarle fuori tutto il possibile. Senza l’ausilio di appunti elencò:
“Leonardo fu genio di tale levatura che poteva fare e disfare, inventare e modificare, creare e distruggere come nessun altro essere umano apparso sulla terra. Cominciamo con le opere andate perse; quelle che si conoscono:
1478, pala d’altare per la signoria fiorentina, cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio, -1478, incomincia le due Vergini Marie, -1485, commissione di Ludovico il Moro per il re d’Ungheria, anch’essa perduta. Decorazioni pittoriche nella Sala delle Asse e Saletta Negra, Castello Sforzesco di Milano. -1500, Madonna dei Fusi, dipinto per Florimond Robertet. -1503, Battaglia di Anghiari, -1513, Giuditta. -1516, In Francia, Madonna col Bambino e Ritratto di fanciulla per Baldassarre Turini”. Nomi e date le uscivano di bocca con la facilità di un computer. Ometto gli aneddoti, le curiosità e quant’altro. Non finirei più di scrivere una lettera già troppo lunga. Su Leonardo non aveva ancora finito.
“Leonardo lavorò a Roma dal 1513 al 1516 alle dipendenze di Giuliano dei Medici fratello di papa Leone X. Ha capito?” Spostò la scala dell’enorme libreria, salì tre gradini, scese con un grosso volume che mi pose sotto il naso. Trattava l’Archivio Segreto Vaticano, il nome dell’autrice mi era sconosciuto. Dal volume uscivano tante striscioline gialle con piccole sigle scritte in rosso.
“Questa bravissima ricercatrice lavorò nell’Archivio per oltre otto anni. Legga qua” pretese dopo aver aperto alla pagina interessata. Lessi:
“… documenti fondamentali come i Quaderni perduti di Leonardo”.
“Ora, mio giovane amico, non s’arrabbi se le dico che questa miniera del passato, questo mondo esplorato solo in parte non è il suo mondo. Lei è per il presente, quindi si fidi di chi ha studiato tutta la vita questo immenso tesoro che ha un solo scopo: la ricerca di Dio. Chiudo con le parole di Sant’Agostino: uno splendore che lo spazio non può contenere, un suono che il tempo non può portar via, un profumo che nessuna brezza disperde, un abbraccio privo di sazietà.”
   Ero senza parole e quella conclusione, lo confesso, m’aveva toccato. Chiarito il rotolo di Qumran, spiegato i Quaderni perduti di Leonardo restava Dante. Bussarono. La domestica del tè chiese il permesso per la passeggiata dei carlini. Uno spuntò dietro le sue gambe. Ci guardò col musino appiattito e ridicolo, la domestica finse di rimproverarlo, zampettò via. La vedemmo dalla finestra mentre attraversava il giardino con tre guinzagli, borsa e guanti per eventuali escrementi. Il sole filtrava a fatica tra nubi color mercurio. S’era alzato il vento che spingeva le cime degli alberi.
“È rimasto Dante” proposi.
“Ci arrivo subito” aggiunse pronta aprendo, all’indice dei nomi, l’ormai immancabile volume sull’Archivio Segreto Vaticano. Ero impaziente, meglio ancora fremevo.
“Parliamo di quell’immenso poema che oggi chiamiamo La Divina Commedia di cui non s’è mai trovato il manoscritto originale, vero?” volli precisare.
“Parliamo proprio di quello: il manoscritto originale.”
“Le confesso che mi pare impossibile.”
“Impossibile ma vero. Le ho chiesto perché questo titolo e non un altro.” Lei ha sorriso affermando che aspettava questa domanda. Così ha risposto:
“Le altre opere, gli altri documenti per quanto importanti, sopravvivono quasi tutti nelle copie. Questa no; questa è l’originale”.
“Da zero a cento, in che percentuale mi da l’originalità del documento come manoscritto?” la spronai.
“Novanta per  cento” mi ha risposto con la massima decisione.
“E l’altro dieci?”
“Vede amico mio, sono passati circa 710 anni dalla stesura della Commedia, e quasi cinquecento dal Sacco di Roma. Mi lasci un 10 per cento d’imprevisto. Non pretenda una precisione impossibile.”  Poi ha aggiunto che nel giorno e nella notte precedenti s’era rinfrescata la memoria, fatto ricerche, controllato date e dati. Pare che le voci su questo poema, arrivato da Roma, e con qualche morto in mezzo, ritornato poi in Italia, in certi ambienti di Paderborn  si siano spesso sussurrate. Vi trascrivo ciò che mi ha detto.

UNA CACCIA LUNGA SETTECENTO ANNI


Come vedete ho dato un titolo spiritoso alla mia ricerca. Titolo suggeritomi dalla professoressa. Forse la parola ‘caccia’ non è la più appropriata. Anche ‘ricerca’ sarebbe andata bene. Ma la forma delle parole non cambia la sostanza dei fatti.
Cominciamo. Parlare di manoscritto, inteso come una copia vergata a mano, è sbagliato. Questo è molto importante perché sappiamo che a quei tempi (1300 nel caso della Commedia), i poeti di corte duplicavano i propri componimenti. Una copia con dedica era offerta al protettore, l’altra se la teneva il poeta con la speranza di offrirla al Papa o ad altra figura di alto lignaggio. Del suo capolavoro Dante ne fece due copie. Possiamo esserne certi: lo dice Boccaccio. Sappiamo anche, con certezza, che a Cangrande della Scala dedicò il Paradiso. Di Boccaccio ci possiamo fidare. Il quale aggiunge molte altre cose, con precisione, ma le ometto non ritenendole indispensabili ai fini della vostra ricerca.
   Sappiamo pure che il sommo Dante scriveva su fogli di dimensioni fisse. Non sempre in fondo poteva concludere da genio qual era. Qualche volta troncava bruscamente a scapito della qualità. Stranezze dei geni. Lo dice egli stesso: “S’io avessi, lettor, più lungo spazio da scrivere… Ma poiché pien son tutte le carte ordinate a questa cantica seconda…” La frase si completa da sola.  Teniamo presente che la Commedia è composta da circa quindicimila versi.
   Aggiungo altri elementi che proverò ad elencare, con l’augurio che voi possiate risolvere questo giallo lungo settecento anni. Perciò dobbiamo voltare pagina passando dalle prime quattro certezze (Uno: due copie manoscritte. Due: conferma del Boccaccio. Tre: Paradiso dedicato al protettore. Quattro: fogli di dimensioni fisse) alle tre ipotesi più sensate, ovvero dove cercare una copia del MANOSCRITTO DELLA DIVINA COMMEDIA.

Prima ipotesi.
L’archivio segreto del Vaticano. È probabile che Antonia, la figlia suora di Dante, ne abbia fatto dono a Papa Giovanni XXII. Come, pare, avrebbe voluto il padre.

Seconda ipotesi.
Nell’abbazia di Pomposa perché nel suo sciptorium avvenne la prima trascrizione della Commedia.

Terza ipotesi.
In Toscana, nella tenuta della Valpolicella acquistata 657 anni fa, il 23 aprile 1353, da Pietro Alighieri figlio primogenito di Dante. La tenuta, caso raro, è sempre appartenuta alla famiglia Alighieri. L’attuale proprietario è un Alighieri pronipote della ventesima generazione.

   Breve ragionamento sulle tre ipotesi (è sempre la professoressa che parla). Scarterei senz’altro la terza. Seicentocinquant’anni di ricerche da parte della famiglia Alighieri la dicono lunga. Per trovare il manoscritto sono ricorsi anche agli astrologhi. Passata al microscopio, quella tenuta non ha mostrato frammenti dell’opera. Conclusione: se nulla più dicono, nulla hanno trovato. Lo ammettono loro stessi.

   Scarterei l’abbazia di Pomposa. Preti, frati e suore sanno rovistare bene nell’animo umano, e altrettanto bene nel corpo umano.  Essi possiedono le doti per vedere ciò che altri non vedono, e sentire ciò che altri non sentono. Se in seicentocinquant’anni nulla hanno trovato, significa che nulla c’è da trovare.

   Il mio chiodo fisso (è sempre la professoressa che parla), resta l’Archivio Segreto del Vaticano: quasi cento chilometri di scaffalature, milioni di carte da controllare, riordinare, restaurare. Cinquanta dipendenti per scavare in una miniera di tesori che resteranno sepolti e segreti per altri secoli.

   Prima di procedere illuminiamo un elemento importante: la differenza tra due realtà; Biblioteca e Archivio.
   La Biblioteca Vaticana raccoglie opere individuali, testi religiosi, discipline attinenti alla religione tipo la storia dell’arte e la filosofia. Qualche cifra: 1.600.000 volumi a stampa, 80.000 manoscritti, 8.300 incunaboli, 100.000 incisioni, 74.000 documenti d’archivio, 300.000 tra monete e medaglie, 20.000 opere d’arte, luce fredda, temperatura tra i 20 e 21 gradi, tasso d’umidità tra 50 e 55. Vi risparmio altri dettagli.
   L’Archivio Segreto si occupa di tutte le attività umane: arte, scienza, teologia e politica. È stato definito, e qui mi ripeto volentieri, la miglior chiave di lettura di certi periodi storici tipo il Medioevo. Fu chiamato la ‘Chiave di San Pietro’. Due realtà distinte, anche se non distanti.
   Qui la professoressa mi ha raccontato un episodio capitato a lei che visitò quel sito con una sua amica. Afferma che aprendo casualmente una porta, in una sala detta del Calendario, nella Torre dei Venti, videro un locale dove un’unica, enorme scaffalatura conteneva novemila pacchi di documenti che un sacerdote definì “inesplorati”.
   “Un esperto dell’Archivio ci spiegò che per inventariare (non studiare) e catalogare in ordine cronologico un solo pacco, due esperti avrebbero impiegato una settimana. Per quei novemila pacchi sarebbero serviti centottanta anni di lavoro.” Parole della professoressa.
   Questo Archivio è universalmente definito “LA PIÙ RICCA E PREZIOSA RACCOLTA DI DOCUMENTI DEL MONDO”. Se per un’impensabile disgrazia i due manoscritti non sono andati perduti (incendi, inondazioni, terremoti, furti, bombardamenti eccetera) uno dei nostri due manoscritti lo si deve cercare là dentro. Meglio: lo si doveva cercare là dentro. Tutti questi eventi rappresentano il 10% dietro al quale la signora si è cautelata.
   Ma c’è dell'altro. Per rispondere compiutamente alla mia domanda mi ha mostrato il solito vecchio libro sull’Archivio Segreto che teneva aperto. La signora ha puntato l’indice sui nomi dove Dante è citato tre volte: a pagina 146, 248, 249.
   Non avendo potuto fare delle fotocopie ha preteso che scrivessi sotto dettatura:
“Non è una gran fatica. Sono solo diciassette righe. Scriva” mi ha intimato.

   Ecco ciò che sta scritto a pagina 146: Negli inventari dei libri di Avignone, Aristotele compare in molte copie: nel 1368 già trenta. Ma vi sono due strane lacune; le opere di Dante e Petrarca. Anche nei lunghi cataloghi delle biblioteche ecclesiastiche private, quelle dei cardinali e dei vescovi, il nome di Dante si ritrova solo due volte, e ogni volta la sola opera citata è La Divina Commedia. Forse la gerarchia ecclesiastica si era irritata per il De Monarchia, che propugnava un impero mondiale come quello dell’antica Roma, o perché nella Divina Commedia Dante si era eretto a giudice supremo. Forse temevano anche che Dante si fosse avvicinato troppo alla stregoneria.
   Boccaccio racconta di una donna che, vedendo Dante a passeggio per Verona, lo indicò alle sue amiche: “Vedete colui che va ne l’inferno, e torna quando gli piace e qua su reca novelle di coloro che là giù sono?”

   A pagina 248 leggiamo: - La fama del Petrarca era tale che papa Innocenzo VI temeva la lettura delle sue opere sospettandovi incantesimi, e una testimonianza, conservata nell’Archivio, raffigura Dante come un abile stregone i cui poteri potevano essere usati, se necessario, nel tentativo dei Visconti di uccidere, con un maleficio, papa Giovanni XXII.

Infine leggiamo le poche righe di pagina 249: - Ne parla anche Dante e forse quel suo breve accenno è un’altra delle mezze confessioni del XX canto, perché sul finire del Medio Evo, la valle fu sede di un processo per stregoneria. Costò la vita a sessantaquattro persone.

   Ecco quanto sta scritto in una pubblicazione specifica. Si parla di Dante e della sua Commedia. Nulla però trapela sul manoscritto. Domanda: potevano parlarne senza averlo letto e riletto? No; non è concepibile.
   Una curiosità che merita molta attenzione. Dopo che Jacopo e Pietro Alighieri ebbero seppellito il padre Dante, successe qualcosa di molto strano. Rovistando tra le carte del padre si accorsero che mancavano gli ultimi tredici canti del Paradiso. Una gran mazzata. Furono addirittura tentati di completarla loro. Ve lo immaginate?
   Ma ecco il finale a sorpresa. Dante appare in sogno a Jacopo indicandogli il nascondiglio: un vano ricavato in una finestra murata della casa. E proprio in quel vano i tredici canti furono ritrovati. Chi lo dice? L’informatissimo Boccaccio.

   Episodi del genere sono frequenti: figli che sognano i genitori defunti, parenti che suggeriscono numeri fortunati, un amico oltreoceano che compare tra sogni confusi.
Qui si concludono le informazioni della professoressa. A proposito del ritrovamento grazie al sogno, aggiungo un esempio personale realmente accaduto. Mia madre perse la fede nuziale, e per qualche giorno visse l’imbarazzo di confessarlo a mio padre. Tre notti dopo sognò la madre (mia nonna) che le indicò il posto esatto dove l’aveva smarrita. Tale fu l’emozione di mia madre che non attese l’indomani. Munitasi di torcia elettrica la cercò subito, in piena notte, in un angolo del cortile. La trovò esattamente nel punto indicato. Chiusa la parentesi personale.
   Conclusione. Non vi pare possibile che qualcuno abbia murato, sotto una certa finestra, di un certo edificio, il manoscritto ripetendo il copione descritto dal Boccaccio?
   Siccome questo qualcuno non vuole, o non può, apparire in sogno a chicchessia ecco che il nostro manoscritto se ne sta in attesa di colui che non arriverà mai. Questa è la mia conclusione. E la vostra? Prima di salutarmi ha voluto regalarmi un’ultima informazione molto importante: in Italia, precisamente a Milano, vive e opera un fenomeno dei ritrovamenti. La nostra professoressa sostiene che costui non ama apparire in televisione, né alla radio, men che meno sui giornali. Conosce tutti nell’ambiente delle opere d’arte sparite, trafugate e ritrovate, e tutti lo conoscono. Non è sulla guida telefonica anche se parla col mondo. Non è facile farsi ricevere. Costa caro, ma dove arriva lui nessun altro arriva. Perché? Da quanto ho capito cammina sul filo sospeso tra legalità e illegalità. Si chiama Roberto Priori, quando c’incontreremo vi spiegherò dove abita.

   Seguivano i saluti e l’attesa della telefonata che confermasse il ritorno. Purché non alle due di notte. Tirai un sospiro di sollievo; ora avevo qualcosa: tre luci che illuminavano il buio in cui mi dibattevo, inutilmente, da un mese. Ebbi subito una certezza: ecco perché il committente era disposto a pagarmi un milione di euro.