venerdì 22 maggio 2015

Le rotonde


Spett. redazione la Provincia Pavese. Dico la mia sulle rotonde, per la pagina delle Lettere. Remo Torti, via Pellizza da Volpedo 24, 27020 DORNO (Pv) 0382-848239.

 

LE ROTONDE

 

Abito a Dorno e percorrendo i 25 chilometri per Pavia incontro ben sette rotonde. Cinque nel breve tratto Dorno-Carbonara al Ticino. La mia impressione (e di molti altri) è che si sta esagerando. In questo breve tragitto alcune sono ben tenute, altre fanno pena. A metà degli anni Sessanta eravamo più ricchi, lavoravamo tutti e ci accontentammo di Una Rotonda Sul Mare. Oggi ne abbiamo migliaia e continuiamo a farne consumando ettari di terreno e spendendo cifre da capogiro. Sette rotonde; sette è un numero strano: Le Sette Meraviglie del mondo le escludono, le Sette Opere di Misericordia manco parlarne, i Sette Vizi Capitali forse. Questa lettera non vuole essere né una critica, né una provocazione. Esprime un punto di vista, e pone semplicemente tre domande: a chi giovano? (al traffico, diranno, ma non tutte), chi le ha volute, e quanto costano. In Italia le rotonde sono come il debito pubblico: in continuo aumento. L’ultima delle sette è quella di Carbonara al Ticino. Per ora due certezze: il costo, che il computer dice di 800.000 e uro, e gli erbassoni alti due metri che la riempiono non agevolando la visibilità. Sulla Provincia Pavese del 29 giugno, a pagina 14 leggiamo: “Pensionato in bici travolto sulla rotonda”. Attraversarle a piedi, in bici, o per chi ha problemi di deambulazione non è facile. Molto più facile con un semaforo senza il giallo truccato.

   Il Ponte sul Po alla Gerola ha 98 anni, sta al centro del quadrilatero più laborioso d’Italia: Milano, Genova, Torino, Piacenza. Chi lo percorre ne conosce i problemi e i malanni. Per lui sempre due soluzioni: rappezzi e chiusure. Non sarebbe il caso di fare meno rotonde, risparmiare terreno e milioni di euro facendo più manutenzione a un ponte tra i più trafficati d’Italia? Perché i soldi per quelle ci sono, ma non per lui?

 

   Grazie per l’attenzione e una stretta di mano.           

                                                                                        

                                                                                     (Remo Torti)

La grande abbuffata


LA GRANDE ABBUFFATA

La grande abbuffata a cui mi riferisco non è il pranzo di Natale o il cenone di capodanno, ma la sbornia culinaria televisiva che ci assale da oltre vent’anni con ricette che nessuna casalinga proverà mai a fare. Questi nuovi e vecchi maestri (maschi e femmine), per andare in televisione hanno dovuto scegliere tra innovazione e tradizione. Se parti con la tradizione sei fregato, superato, rifiutato. Allora via con l’innovazione che richiede idee nuove, proposte coraggiose, abbinamenti folli. Qualche esempio visto in televisione: cotechino col cioccolato, panettone avanzato a Natale con olio di oliva, un brodino con le solite verdure e venti foglie fresche di alloro. È noto pure agli apprendisti che una foglia fresca di alloro può rendere amaro un quintale di ragù. E che dire della signora  che ha condito, e mischiato, l’insalata verde con le mani: le unghie lunghe qualche centimetro e dipinte, anelli, braccialetti e orologio. Chi dice che la cucina è fatta con le mani bestemmia. Le mani sono spesso sporche, spostano batteri, la tecnologia offre tutto per evitare il contagio col cibo che va manipolato il meno possibile. La vanità di questi chef alla pommarolla è pari al loro narcisismo; i loro piatti sono sempre buonissimi, gustosi, raffinati, eccezionali. Lo affermano loro. Mangiano e bevono davanti alle telecamere ignorando il galateo moderno. Hanno pure un loro linguaggio d’insipida monotonia: vado a soffriggere, vado a sfumare, vado a impiattare, verbo orribile. Ma dove vai se sei sempre lì fermo? La loro unità di misura sono i millilitri. Millilitri? Non è più semplice dire venti grammi di questo, trenta grammi di quello, mezzo bicchiere di vino bianco? Le donne soprattutto, in nome della vanità femminile modello catodico, dopo aver manipolato carne e pesce, verdure e quant’altro si passano le mani nei capelli ignorando la forfora che non è parmigiano grattugiato. A impressionare sono le scuole di cucina sparse nel mondo, che ti trovi sul video passeggiando sui vari canali. Gli insegnati sono duri come i mercanti di schiavi, trattano gli allievi, e i loro piatti mal riusciti, con le parolacce peggiori che il vocabolario, arrossendo, è costretto a registrare. Gli allievi balbettano, tremano, alcuni piangono. Dicono sempre sì chef, sì chef. Alcuni di questi “maestri” lavorano con la matita sull’orecchio fermata dai capelli troppo lunghi. Così palpano l’una e gli altri. Qualche anno fa scoprimmo che il miglior cuoco del mondo era spagnolo: gran ristorante, prenotazione, un anno d’attesa, un conto salato. Questo super cuoco definiva il suo lavoro gastronomia molecolare; un nome, direi, da reparto ospedaliero. La trasmissione Striscia la Notizia andò sul posto a curiosare scoprendo che la sua gastronomia molecolare era chimica. Figuraccia planetaria, ristorante chiuso. E coi fenomeni della Guida Michelin che gli diedero tre stelle come la mettiamo? Ci sono poi i giornalisti-scrittori-presentatori buoni in tutte le salse. Ogni tanto scrivono un libro che presentano in dieci o venti canali diversi, con l’accordo che io vengo da voi, poi voi venite da me e tutti insieme manteniamo lucida la nostra immagine. Il pretesto è la ricetta della nonna che mostrano assistiti dal professionista. La colpa non è delle nonne, semmai dei nipoti, che per aumentare la tiratura scenderebbe anche in miniera. Passati gli anni d’oro delle ostriche, aragoste, caviale vediamo avanzare le polpette, nascono le Case del Pane, la cronaca quotidiana ci porta in casa una realtà tragica che sarebbe bene tenere presente. Tra questi insegnati olimpionici c’è pure una suora e un frate: umili come il loro abito richiede, con ricette semplici come la loro mensa esige, gli unici che si guardano volentieri. Cucinare è qualcosa di troppo serio e di parecchia responsabilità: richiede divisa bianca, il classico cappello da cuoco, meglio se inamidato, il disinfettante sempre vicino per le mani  e l’attrezzatura, la mascherina quando si ha il raffreddore o il mal di gola. La televisione rifiuta questi accessori indispensabili. Lei vuole i “maestri” vestiti come capita, niente copricapo per i capelli, quindi avanti come sempre anche se non se ne può più. Allora, che dire? Buona abbuffata.

            (Remo Torti)  Dorno.

 

 

Spett. Redazione,

                             invio questo scritto per la pagina delle “Lettere”. Ho sforato leggermente ma questo, sul vostro giornale, succede spesso. Lo compro tutti i giorni da 35 anni. Credo che non sia un problema di righe ma di contenuti. Chiedo cortesemente che non venga tagliato. Grazie. Una stretta di mano.

                                                                

Recapiti:

Remo Torti, via Pellizza da Volpedo 24  27020 Dorno (Pv)

Tel 0382-848239  tortiremo@libero.it  torti.remo@alice.it

 

Giacomo Gorrini


                                                                                                Dorno, gennaio 2009

 

Spett. Redazione della Provincia Pavese,

invio un pezzo per LA VOCE DEI LETTORI

 

  Si dice che il tempo è giudice imparziale e, alla fine, rende giustizia. Ora la sta rendendo a Giacomo Gorrini, nato a Molino dei Torti in provincia di Alessandria nel 1859, e morto a Roma nel 1950. Questo signore fece tante belle cose ma il suo capolavoro fu salvare 50.000 armeni già ammassati nei convogli e diretti al massacro. A scanso di equivoci ripeto la cifra: 50.000. I suoi titoli, i suoi incarichi, le sue onorificenze richiederebbero troppo spazio quindi sintetizzo. Giacomo Gorrini conseguì due lauree, frequentò corsi di perfezionamento a Berlino e Firenze, fu membro della Société d’Histoire Diplomatique di Parigi, membro del Filologicos Syllogos Partenassos di Atene, libero docente a Firenze, membro del consiglio direttivo della Società Geografica Italiana. Ma questa è solo una parte. E’ considerato il fondatore dell’Archivio Diplomatico del ministero degli Affari Esteri italiano, collaborò al Corriere Diplomatico e Consolare, scrisse una ventina di libri stampati da editori torinesi. Dal 1911 al 1915 fu console generale d’Italia a Trebisonda. Nel 1915 l’entrata in guerra dell’Italia contro la Turchia lo costrinse a una precipitosa e avventurosa fuga sul Mar Nero. Fu tra i primi a diffondere le notizie sul genocidio degli armeni, le loro inutili implorazioni, il loro strazio, le atrocità che subirono. Non riferì per sentito dire; un lembo di quella tragedia, con vittime e carnefici, passò sotto le sue finestre: fu testimone oculare. Il 25 agosto 1915 rilasciò al quotidiano Il Messaggero un’intervista intitolata: “Orrendi episodi di ferocia musulmana contro gli armeni.” Il 14 novembre 1918 presentò un “Memoriale” che avviò le discussioni di Sevrés, Ginevra, Losanna. Le notizie sul genocidio (si parla di 1.450.000 vittime) e su Gorrini sono reperibili su internet e confermate nel libro del console armeno in Italia Pietro Kuciukian “Voci Nel Deserto” da pagina 78 a pagina 101.  Sintetizzare l’opera di Giacomo Gorrini in una lettera alla Provincia Pavese  è impossibile. Ciò che egli ha fatto lo diciamo ora noi italiani, ma lo dicono meglio, e lo confermano, loro: gli armeni. Il suo capolavoro fu l’opera di un uomo astuto come una volpe e rapido come la folgore. Informò l’Ambasciatore degli Stati Uniti e il Delegato Apostolico a Costantinopoli. Fece in modo che sfiorassero la rottura diplomatica se le autorità turche non rilasciavano i 50.000 armeni già ammassati nei convogli e diretti al massacro. Alla fine furono tutti liberati. Eppure per oltre cinquant’anni un crostone d’oblio lo aveva quasi cancellato. Oscar Schindler salvò 1.100 ebrei, gli hanno dedicato un film di successo, ha vinto sette oscar e fatto il giro del mondo. Giorgio Perlasca salvò 5.000/6.000 ebrei ungheresi, la televisione gli ha dedicato uno sceneggiato in due puntate e lo ha fatto conoscere in mezzo mondo. Se i numeri hanno ancora un senso cosa merita l’uomo che salvò 50.000 esseri umani pronti per il massacro? Nell’ottobre 2007 vidi per la prima volta la sua tomba nel cimitero di Voghera. Era in condizioni pietose, in un sotterraneo buio, sporca e in stato di abbandono. Si dice che siamo un Popolo senza memoria e forse è vero, ma c’è sempre qualcuno che non dimentica. E questa volta, e per questo uomo,  il tempo gli sta rendendo giustizia. A Erevan, sulla Collina delle Rondini gli armeni, riconoscenti, hanno costruito il Monumento al Genocidio e il suo nome compare tra i Giusti. Quel monumento conserva pugni della sua terra, della nostra terra. Voghera si è mossa; ha sistemato la tomba, lo ha ricordato pubblicamente in alcune occasioni, lo farà ancora. Finalmente il ricordo ha rotto l’oblio, l’amore ha vinto l’indifferenza, il tempo rende giustizia. A Voghera c’è ancora quella che fu la sua casa e alcune persone che, giovanissime, lo conobbero. Molino dei Torti, entro la fine del 2009, ricorderà Giacomo Gorrini come meritano di essere ricordati i grandi uomini: con un monumento. Perché non vogliamo che egli sia morto per sempre.

               

                                                                                               (Remo Torti, Dorno, Pv)

 

  

   Grazie per l’ospitalità che il Loro giornale mi vorrà concedere.

 

Recapiti:

Remo Torti

Via Pellizza da Volpedo 24

27020 DORNO  (Pv)

Tel.  fax  0382.848143

Cellulare 339-5293829

tortiremo@libero.it

Complimenti Stoccolma


Complimenti Stoccolma

Quest’anno il Nobel per la letteratura lo ha vinto Patrick Modiano. La prima domanda è stata: chi è costui? Alcuni giornali lo hanno definito mezzo italiano. Non si è mezzo italiano perché un avo è nato dalla parti di Giulio Cesare. L’unico capace di dimezzare le persone fu un certo Salomone; ma è passato tanto tempo. Trovo la motivazione del premio piuttosto contorta. Credo che anche Freud avrebbe qualche problema. Gli esperti che conoscono il vincitore gli elogiano la memoria e la coscienza. Ottimo. In questo caso gli incoscienti evitiamoli. La memoria guarda al passato e gli scrittori volti all’indietro ci hanno saturato. Basta. Forse sarebbe meglio premiare scrittori che analizzano il presente coi suoi problemi e tragedie. Non sempre i signori di Oslo e Stoccolma hanno premiato i giganti, sovente hanno scelto i nani. Possibile, secondo loro, che non meritassero l’ambito premio Tolstoj e Kafka, Proust e Joyce, Virginia Woolf e Ibsen, Nabokov e Marguerite Youurcenar, Borges e Fritzgerald, Celine e Graham Greene, tanto per citare? Sviste imperdonabili.

Peggio ancora, credo, il Nobel per la pace. Non per colpa dei due vincitori, che sono persone meravigliose, ma di chi ha votato. E mi spiego. Da molte parti del globo si definisce l’Italia campione del mondo di accoglienza. In questo 2014 i migranti accolti dall’Italia sono stati 101 mila. Accogliere significa salvare, curare, sfamare, ospitare e quant’altro. L’Italia è malmessa, ma quando vede persone il cui patrimonio è il bagaglio a mano, gli apre il cuore e il portafoglio. Quella dei migranti è una storia iniziata in sordina trent’annui fa, che ora è diventata esodo biblico. L’Europa che ci bacchetta le nocche per questo, quello e quell’altro non può ignorare un simile problema girandosi dall’altra parte. I campioni del mondo di accoglienza meritano la medaglia d’oro, ovvero il Nobel per la pace. I signori di Stoccolma sono pregati di guardare nella direzione giusta.                   

                                                                                      (Remo Torti)     Dorno.

Spett. Redazione, breve scritto per la pagina Lettere. Remo Torti, via Pellizza da Volpedo 24

27020 Dorno (Pv) tel 0382-848239  tortiremo@libero.it

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