venerdì 17 febbraio 2012

Due valigie gialle

DUE VALIGIE GIALLE

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   Non potendo prendersela col firmamento si sfogava contro la propria immagine. E qualche volta riusciva a essere felice. Dimenticava tutto sprofondando nel sonno. E quella notte dormì bene.
   La vecchia sveglia trillò all’improvviso. Bruno scattò nel letto, fermò la suoneria, si strofinò la faccia borbottando:
   “Che tu sia maledetta, sveglia della malora”. S’infilò il termometro sotto l’ascella sinistra, aspettò qualche minuto, controllò la febbre: trentasette e tre. Andiamo bene si disse, lunedì si riprende il lavoro. Ciondolò fino alla finestra. Dall’alto del suo abbaino vide i lampioni fissati agli steli metallici, i rari passanti, il primo bar che apriva, niente d’interessante. Il sole che spuntava gl’illuminò la cupola del duomo, le vecchie torri e tutta la sterpaglia metallica delle antenne televisive. Il cielo proponeva una giornata primaverile non priva di nubi.
   La musica sottile del solito clarino lo raggiunse in bagno. Veniva dall’abbaino di fianco, abitato da un giovincello che trascinava le proprie frustrazioni musicali per tutto il Pavese. Il giovincello sognava di volare alto ma era ancora fermo sulla pista di decollo.  Come molti musicisti era fine nel comportamento, gentile nei colloqui, complicato in tutto il resto. Si esercitava la mattina presto e la sera dopo cena, lo faceva piano e non infastidiva nessuno. Quando pioveva evitava l’ombrello sostenendo che la testa bagnata faceva germogliare le idee. Però suonava bene; soprattutto Beethoven, Back e l’ultimo concerto di Mozart.
   Bruno si specchiò nel pigiama rosso incartato come un boero. L’influenza gli aveva dipinto la faccia color pompelmo. A quarant’anni era ancora single; poteva morire come un cane senza che un cane se ne accorgesse. Questo pensava spesso dispiaciuto della propria mediocrità. Era venerdì 17 giorno che lui considerava infausto.
   Pavia si stava svegliando coi suoi rumori, odori, qualche lontana sirena. Dalla mensola prese un giallo a caso cominciando a leggerlo. Durò poco. Dormiva profondamente quando suonarono alla porta.
   “Chi è?”
   “Sono Madama Sorpresa, posso entrare?”
   “A quest’ora del mattino puoi essere solo una rompiballe” tagliò corto lui.
   “Le sorprese, prima di rifiutarle, bisogna conoscerle” rispose lei con una voce troppo dolce per resisterle. Bruno si alzò malvolentieri e aprì una spanna. Quello che vide lo sbalordì. Lo colpì subito la bellezza di lei che vestiva abiti trasparenti che lasciavano intravedere la perfezione del corpo alto almeno due metri. Gli sorrise. I capelli parevano filamenti dorati e pieni di riflessi, talmente lunghi da farci un materasso. Gli occhi due biglie azzurre come mai aveva visto, i lineamenti perfetti e senza un filo di trucco. Più che una donna era una dea sopra una fontana circondata di fiori. Teneva in mano un crisantemo fresco di rugiada che lo inquietò un poco.
   “Vieni da San Pietro in Ciel D’Oro o da Gardaland?” riuscì appena a bisbigliare.
   “Sono dovunque e vengo da qualunque posto. Dovrei entrare. Posso?” Questa volta sorrise maliziosa. Bruno la fece entrare poi chiuse a chiave.
   “Nella mia vita randagia qualche meraviglia l’ho vista. Tu le annulli tutte. Per una notte in tua compagnia ti darei tutto: anche la vita” giocò subito pesante meravigliandosi del proprio coraggio.
   “Che mi darai tutto è certo” confermò lei. “Ora sdraiati, è giunta la tua ora. Ti porto nell’aldilà.” Bruno si sdraiò sul letto senza staccarle gli occhi di dosso e, mugugnando, disse:
   “Così… senza il tempo di fumare l’ultima sigaretta, salutare gli amici, informare il principale”. Sbiancò in volto, sperò di ritardare quella sgradita partenza, mentre la donna, continuando a sorridere, faceva no col capo. Lo sfiorò col crisantemo, lui sentì un forte strappo e fu subito buio pesto. Ebbe l’impressione di volare leggero, incorporeo, accompagnato da un filamento sonoro dolcissimo che gli parve del solito clarino.
   Si riebbe in un oceano di luce davanti a una figura imponente capace di annullare un esercito. L’uomo sfoggiava barba, baffi e capelli lunghi e troppo bianchi, vestiva un abito candido lungo dalle spalle ai piedi, gli occhi, enormi ma buoni, erano grandi quanto due mandarini. Chi è mai costui, si chiese Bruno, a disagio come un pinguino all’equatore: un profeta, un califfo, un eremita, un vattelappesca qualunque.
   “Benvenuto Bruno Cantoni” disse la figura con aria amichevole.
   “Buongiorno signore.”
   “Buongiorno? Lascia perdere. Qui il giorno e la notte non esistono, non esiste il lei ma il tu, per tutti. Io sono Kannellopulos.”
   “È un nome o una minaccia?” osò Bruno impaurito.
   “È un nome. Sulla Terra fui un famoso aristocratico del Peloponneso. Ma la tua cultura, scusami, non va oltre Porta Calcinara. E tu, chi eri?”
   “Io sono Bruno, un pistola pavese. Dove sono?” osò titubante.
   “Pochi minuti fa eri a Pavia, sei morto, ora sei nell’aldilà, o meglio nell’aldiquà.”
   “Vuoi vedere che sono in Paradiso?” Kannellopulos sorrise bonario. Appariva rassicurante, tenero ma solenne, pacato ma preciso, simpatico con quei due occhioni enormi da barbagianni.
   “Calma Bruno. Dimentica la fretta che ti assillava da vivo. Qui il tempo non esiste. Esiste l’eternità: sai cos’è?”


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